La piattaforma pensata per portare spettacoli dal vivo e musei nelle case degli italiani ha un nome, un logo e una landing page. Tutto molto discutibile. Storia di un difficile rapporto tra il ministro e il digitale
Quello tra il ministero dei Beni Culturali e del Turismo e il mondo digitale è una rapporto lungo e fortemente conflittuale. Una relazione impossibile e onerosa per il contribuente che parte dal 2007 con l’allora ministro Francesco Rutelli e il sito Italia.it – 4 milioni di euro buttati al vento, introdotto dal video in basso, ormai di super culto – ma che trova nell’attuale ministro Dario Franceschini un degno erede nel portare avanti questo progetto con tenacia, una certa arroganza e, soprattutto, incapacità di imparare dagli errori del passato.
Partiamo però dal passato recente. Nelle seconda parte del 2020 il ministro Franceschini a causa del lockdown di molte attività culturali per l’emergenza pandemica, annuncia la creazione di quella che in gergo chiama “la Netflix della cultura italiana” (denominazione infelice ed errata, oltre che tacciabile di provincialismo, ma dopo vedremo perché). Si tratterebbe di una piattaforma digitale con l’obiettivo, iniziale, di portare gli spettacoli dal vivo e i musei nelle case degli italiani, dichiarando di voler investire in questa operazione dieci milioni di euro. Nel corso delle settimane successive lo stesso ministro del Mibact svela nuovi elementi, come la costituzione di una nuova società con la Cassa depositi e prestiti al 51% con un investimento pari a 9,4 milioni di euro, e con Chili, la piattaforma di streaming fondata da Stefano Parisi, come partner tecnico (al 49%) che si occuperà dello sviluppo e della manutenzione della piattaforma.
La presenza di Chili.tv, società lanciata otto anni fa che ha accumulato negli ultimi tre anni perdite per 45 milioni di euro, ha scatenato nelle scorse settimane non poche reazioni e pareri contrari. Principalmente perché Chili è soltanto un distributore di contenuti a pagamento su internet e non produce niente, e poi perché il naturale partner di un’operazione del genere doveva essere la Rai, il servizio pubblico che peraltro negli ultimi anni ha implementato con efficacia il servizio digitale RaiPlay fornendo un importante contributo per la cultura e per la didattica a distanza in questo periodo difficile.
A questa critica il ministro Franceschini risponde che Chili, a differenza di Rai, ha già implementato un sistema di pagamento (ticketing) per ogni singolo contenuto distribuito e che è già presente in 4 paesi oltre l’Italia (Uk, Austria, Germania e Polonia). Si scopre quindi che questa piattaforma non avrà l’obiettivo di portare arte e cultura nelle case degli italiani, ma sarà principalmente uno strumento commerciale per promuovere la cultura italiana all’estero, in una logica Tvod (tv on demand, cioè paghi solo quel che vedi); per questo il riferimento a Netflix, che si basa su un abbonamento mensile, era errato e fuori luogo. È chiaro che questa mission alza di molto l’asticella, anche perché diventa fondamentale oltre che la struttura tecnologica tutta la parte promozionale e di immagine coordinata che deve essere di alto livello e di grande impatto.
Ma veniamo ad oggi, o meglio, a ieri, quando è stata annunciata la costituzione della società e con essa anche il consiglio di amministrazione composto da 5 membri di cui tre espressi dalla Cdp e due da Chili. Confermati i 10 milioni stanziati dal Mibact attraverso il dl rilancio e altri nove da Chili tra piattaforma ed equity: in pratica la prima tv (digitale) gestita a metà tra Stato e privati (fonte il Sole 24 ore).
Abbiamo anche il nome della società e della piattaforma: ITsArt, crasi di Italy is Art, quindi un nome inglese per promuovere la cultura italiana. Ok. Ma sempre ieri è stato introdotto anche il logo e la landing page temporanea del sito, con un laconico comunicato, senza alcuna conferenza stampa di presentazione di logo e progetto e senza alcuna comunicazione sulla data di partenza.
Capisco che può sembrare essere un esercizio facile e un po’ vigliacco quello di criticare un logo, senza sapere il brief e senza conoscere le varia fasi del lavoro, tuttavia in questo caso si fa molta fatica a difenderlo. Il logo in questione sembra fatto con il normografo e sta metà tra una scritta del cartone della pizza e un marchio minore di tende per il sole. Però il comunicato recita che “il logo, con una linea dinamica e moderna, evoca l’italianità con un richiamo al tricolore. Il punto davanti a It, che ricorda l’estensione ‘.it’, indica la proiezione italiana sul web, sottolineando la visione digitale del progetto”. Modernità, dinamicità, italianità: come vedete tutto è relativo.
C’è poi la landing page del sito itsart.tv (il .com era già occupato dal sito di un grafico del Missouri, anche lui autore di loghi discutibili) che racconta in italiano e in inglese quello che sarà ITsArt. Ma la cosa un po’ strana è che, come un qualsiasi annuncio della pro loco, si fa una call-to-action una richiesta di “proposte di contenuti, eventi e manifestazioni” da inviare via mail. D’accordo il crowdsourcing, d’accordo il basso profilo, ma si tratta pur sempre un progetto di promozione della cultura italiana nel mondo del Ministero dei Beni Culturali. Stendiamo poi un velo pietoso sulla parte in inglese che non contiene particolari errori, ma utilizza un inglese elementare, figlio di Google Translate “a platform that bridges cities of art and quaint villages” o “If you are part of the Press”.
L’altra cosa strana è che in calce alla landing page sono presenti i loghi di Cassa depositi e prestiti e del Mibact ma non quello di Chili. Secondo le informazioni prese dal servizio Whois, il dominio è stato registrato dalla società spagnola con sede a Barcellona CoreHub. Mentre per l’agenzia Ansa, il servizio dovrebbe iniziare a fornire contenuti a partire dai primi mesi del 2021.
Purtroppo Franceschini non è nuovo su operazioni fallimentari sul digitale: forse qualcuno ricorda ancora di Verybello, portale lanciato in occasione dell’Expo 2015 rivolto agli stranieri che vengono in Italia, per aiutarli a orientarsi fra gli eventi culturali e a programmare visite e concerti, ma che era tutto in italiano. Costato 5 milioni per la produzione e promozione, fatto male e pochissimo visitato.
Il linguaggio e i media nel frattempo sono cambiati: per Italia.it e Verybello si parlava di portale web, ora si parla di piattaforme di streaming, ma l’approccio purtroppo sembra sempre lo stesso. Ci sono ancora molti dubbi su chi si dovrà occupare della produzione dei contenuti, una cosa non da nulla, considerato che si parla di molti eventi live. Aspettiamo quindi che arrivino nuove informazioni e un’idea di progetto un po’ più articolata.
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