lunedì 18 gennaio 2021

Antonio Lubrano: la mia Procida Capitale italiana della Cultura nel 2022 (di Antonio Lubrano)

 

Procida la mia isola, capitale della cultura

 
 
 
   

  Procida.Per prima cosa, voi che leggete: avete un’idea di che cosa significhi vivere in un’isola di quattro chilometri quadrati, dove a una certa ora della sera non c’è più un battello che ti conduca alla terraferma, laddove il ciclo della vita non si interrompe mai? Riuscite a immaginare il quadro che si comporrebbe davanti ai vostri occhi nei giorni di tempesta, quando il mare  si ingrossa, invade la strada fino a sotto casa e ritirandosi porta via tutto quello che trova sul suo percorso? Ecco, tenendo d’occhio questi due aspetti negativi della vita su quello che noi isolani chiamiamo affettuosamente “lo scoglio”, il resto è amore, è gioia, è gusto di vivere. Noi isolani, ho detto. E già perchè io sono nato in un’isola, Procida, quella che oggi, o meglio nel 2022, è e sarà la capitale della cultura. Potete immaginare il mio legittimo orgoglio.

isola di Procida

La prima immagine che mi torna davanti agli occhi quando penso all’isola, e’ quella composta dai colori delle case. Una casa accanto all’altra e ciascuna con un colore diverso, per cui a guardare dal mare questa o quella marina si ha l’impressione della tavolozza di un pittore. E, badate, non è un capriccio architettonico ma una affettuosa esigenza: i procidani, naviganti in prevalenza, ogni volta che attraversano il canale dell’isola diretti a Napoli o chissà a quale altro porto del mondo, riconoscono dal colore la loro casa e quel rosso o quel giallo, o quel verde che sia, li fa sentire vicini alla loro famiglia. Le marine più colorate sono due su tre: quella della Corricella e quella di Sancio Cattolico. La terza, della Chiaiolella, non è visibile dalle grande rotte, e’ un porticciolo per i pescatori, altra categoria isolana.

Ma visto che ci siamo soffermati sull’architettura di Procida, mi piace citare il sociologo Domenico De Masi che ha firmato la prefazione a un libro sull’isola di Domenico Ambrosino. Dice il mio amico Mimmo: “Procida, dove ogni tufo è diverso dall’altro sotto il comune grigiore. Dove ogni porta è diversa dall’altra sotto la comune duttilità del travertino scheggiato dagli scalpellini senza tempo. Dove ogni scala è diversa dall’altra sotto il comune mistero del salire e dello scendere chi sa da dove, chissà per dove. Dove ogni finestra è diversa dall’altra sotto la comune meraviglia del guardare fuori dal circoscritto orizzonte della famiglia, nel circoscritto orizzonte della strada”.

Panorami, Case, Mare, Colori, Procida

In questa descrizione c’è anche l’ansia tipica del procidano  di uscire dall’isolamento e attraversare il mondo intero. Non è casuale infatti che qui sia nato – 1875 – il più antico istituto nautico d’Europa. Da almeno due secoli i procidani sono naviganti, li troviamo sulle navi da carico, le famose “carrette”; sulle petroliere, sui transatlantici che ospitano i croceristi. Così come non è casuale che i primi piloti del Canale di Suez siano stati dei procidani, al punto che laggiù in Ismailia una targa ne ricorda uno, Domenico Scotto di Perta, mio parente (padre di mia madre), che fu tra i più valenti. In tutta la mia famiglia gli uomini di mare si ricordano come capitani, come ufficiali di coperta, come macchinisti, come semplici marinai. Io, lo confesso, sono stato l’unico “traditore” della stirpe. Per colpa di mio padre, il capitano di lungo corso Giuseppe Lubrano. Poiché la vita di mare è oltremodo faticosa e richiede la tempra del solitario, che sa stare lontano dagli affetti più cari, moglie, figli, il capitano Giuseppe mi impedì di iscrivermi all’istituto nautico. E io, che ero ansioso di uscire dall’isola e avevo la passione della carta stampata, lo sfidai: “Tu mi impedisci di andare per mare e io, quando finisco il liceo a Napoli me ne vado di casa e farò il giornalista!” Il capitano Giuseppe accettò subito la sfida. La fortuna, poi,  ha voluto che io realizzassi il mio proposito di vita.

Un itinerario a Procida, l'isola di Arturo e di Graziella | Turismoletterario.com

Oggi Procida deve la sua buona fama al libro di Elsa Morante “L’isola di Arturo” del 1957; al film Il postino, con l’indimenticabile Massimo Troisi su una spiaggia dell’isola; e la sua pessima fama al penitenziario che dal 1815 o giù di lì ha ospitato fior di ergastolani.Il carcere, le cui mura risalgono al Cinquecento, è per la storia Palazzo d’Avalos, poi diventato nel Settecento palazzo reale e casino di caccia di Carlo III di Borbone. Oggi è chiuso in attesa di diventare forse un albergo. Io me lo ricordo carcere e quando avevo quattordici o quindici anni ho visto sbarcare nell’isola incatenati l’uno all’altro i gerarchi fascisti più noti.

L’edificio sorge sulla zona più alta del paese e da lassù si gode la vista migliore dell’isola, con in primo piano le case della marina Corricella, patria ancora di tanti pescatori, che dopo i naviganti è l’altra categoria isolana. Pescatori che con le saccaleve (tipica barca locale) portano ancora a terra alici, sarde e ricci di mare. Certo, ci sono anche i contadini ma è una razza che va scomparendo. Erano famosi gli orti della Chiaiolella, le parule dove si compravano le verdure, i pomodori, i carciofi, i limoni.. Ora che vivo a Milano e sono in vista dei 90 anni, sogno di essere sepolto – quando sarà l’ora – nella mia isola, il cui cimitero si affaccia sul mare..

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