I ragazzi, pur con le scuole superiori chiuse, nei mesi scorsi potevano uscire, e dunque si saranno incontrati comunque. Non credo che senza scuola non si vedessero».
Se fossero davvero loro gli inconsapevoli super-diffusori del Covid, gli effetti si sarebbero visti anche senza il ritorno in classe?
«Al di là delle misure di contenimento e dell’attuale maggior disponibilità di tamponi rapidi, e pur se certamente i 14-19enni sono il gruppo della popolazione che intrattiene il maggior numero di contatti sociali, credo che tra i ragazzi, soprattutto in Lombardia, un certo livello di immunità si sia creato. Il pericolo è minore rispetto all’inizio dell’epidemia».
Dunque il rientro in classe alle superiori, pur se per ora solo al 50 per cento, non dovrebbe «alimentare» una nuova ondata?
«Ritengo che in questa fase i rischi siano ridotti. Anche se resta l’indicazione inderogabile: proteggere gli anziani. I nonni dovranno ancora restare lontani dai nipoti. Le incognite che creano più preoccupazione sono le varianti, anche se per il momento in Italia non hanno avuto impatto».
Carlo La Vecchia, epidemiologo, docente di Statistica medica alla «Statale», analizza giorno per giorno l’andamento della pandemia, con una visione globale e locale che spazia da Milano, all’Europa, agli altri continenti, e con un’attenzione specifica, soprattutto di recente, per il Regno Unito. Le sue considerazioni partono dall’interpretazione del momento attuale.
A che punto siamo?
«La notizia migliore al momento è che in Lombardia, ma anche in generale, il “problema natalizio” è stato superato. C’è stato un aumento dei casi a inizio anno, poi ridimensionato. Nell’ultima settimana, in tutta la Regione, abbiamo circa 1.600 nuovi casi al giorno e la tendenza va verso un’ulteriore riduzione. Le proiezioni lineari, al momento, sono favorevoli. Il timore era per le riunioni familiari e amicali durante le feste: visto come è andata, bisogna dare atto che le persone si sono comportate in linea di massima con responsabilità e attenzione».
I dati sanitari come vanno interpretati?
«In Lombardia abbiamo circa 400 ricoveri in terapia intensiva e 3.400 non intensivi; l’aspetto più negativo sono i 65-70 decessi al giorno, che restano stabili. A gennaio si assiste sempre a un aumento della mortalità, ma quest’anno praticamente l’influenza non c’è, almeno non ancora, e l’ipotesi che arrivi è sempre meno probabile. È già accaduto in Australia e in Sud America. Vuol dire che distanziamento e mascherine sono stati efficaci per evitare l’influenza, ma non il Covid: che è stato contenuto, ma non evitato. Bisogna anche dire che l’attuale numero di decessi resta non tollerabile, ma è comunque oltre 10 volte inferiore rispetto a quello della scorsa primavera».
Che ruolo avrà il vaccino?
«È presto per vedere un impatto, se non molto indiretto. A gennaio sono partite le strutture sanitarie, ma per arrivare a un effetto sulla mortalità bisognerà attendere il vaccino agli anziani. Il grosso problema, non italiano ma europeo, è che abbiamo pochi vaccini. Se si riuscirà a vaccinare la fascia dei più anziani a marzo, ad aprile vedremo i risultati, ma per ora è presto».
Quanto preoccupano le varianti?
«Sono il vero timore. Il Regno Unito oggi ha più del doppio dei decessi rispetto all’Italia su base settimanale. La preoccupazione per il prossimo mese è legata soprattutto a questo aspetto, anche se per ora non se ne vedono segnali. Speriamo che continui questa lenta discesa e si vada avanti così verso la fine dell’inverno».
Quanto ci vorrà per capire se saremo «salvi» dalla variante inglese?
«Nel Regno Unito i casi sono schizzati fino a 60 mila al giorno in meno di un mese; ora stanno molto scendendo, ma restano comunque 30 mila. E tutto questo è accaduto da inizio dicembre. La preoccupazione deriva anche dal fatto che, a partire dalla seconda ondata, l’Italia ha “seguito” con un po’ di ritardo le dinamiche di altri Paesi europei. Se dovesse accadere anche da noi, speriamo di avere a quel punto già una qualche copertura dei vaccini sulla popolazione».
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