Di incerta attribuzione fino ai giorni nostri l’opera Amare e fingere è stata recentemente attribuita di Alessandro Stradella (1643 – 1682) grazie alle ricerche del musicologo Arnaldo Morelli (Università dell’Aquila). L’opera, su libretto di un anonimo letterato, forse da identificare con Giovanni Filippo Apolloni, fu rappresentata a Siena nella tarda primavera del 1676, in onore dei principi Agostino e Maria Virginia Chigi. Nel dramma vengono messe in scena le intricate vicende amorose dei personaggi che mascherano la loro vera identità, tra finzioni e sentimenti dissimulati. Accade dunque che nelle favolistiche «campagne d’Arabia», vive sotto mentite spoglie Celia, una regina, che vive lontana dalla corte, dedicandosi alla caccia. La accompagnano Clori (in realtà Despina, una principessa persiana lontana dal suo regno) e il tutore Silvano, che cerca di indurre la regina a ritornare a corte e sposarsi al fine di assicurare la continutà dinastica del regno. Celia si innamora di Fileno, un uomo apparentemente di rango più basso, ma che in realtà è il il principe Artabano venuto in incognito dalla Persia per ritrovare la sorella rapita dieci anni prima dai predoni arabi. Tuttavia, a causa delle convenzioni sociali a cui è impossibile sottrarsi, né la regina né il principe possono sposare la persona che amano. Fileno si innamora di Clori, che a sua volta ama riamata Rosalbo. La tensione cresce per il fatto che Clori si trova ad essere contesa da due uomini, prima amici e poi nemici, divisi da un’aspra rivalità, che sta per sfociare in un sanguinoso duello. Ma la tensione svanisce, quando si scopre non soltanto che Fileno/Artabano è in realtà il fratello di Clori/Despina, ma che la stessa donna e Rosalbo, l’altro pretendente sono entrambi di stirpe reale. A questo punto l’ordine sociale è salvo: le due coppie possono unirsi in matrimonio e la storia può concludersi con un classico lieto fine.
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