C'era chi gongolava di gioia, all'Opera di Firenze, per il chiasso mediatico suscitato, nel corso delle recite di quella stupida Carmen fiorentina che aveva cambiato le carte in tavola sulla fine dei due protagonisti, prima che calasse il sipario. E chi magari, in altri teatri del paese, senza farlo vedere apertamente, invidiava quel successo costruito sull'idiozia.
A Firenze aveva fatto eco Torino che, dopo quasi un secolo dal suo esordio saligero, da quando Turandot di Puccini viene fatta con un finale, quale che sia, l'ha voluta proporre così come fu lasciata 'incompiuta' dal musicista morto prematuramente di cancro. Che trovata. Per giunta neppure originale, perchè l'aveva adottata Toscanini, ma solo alla prima scaligera, e in ricordo del musicista. Dopo un secolo di diversa tradizione, ormai consolidata ed accettata, che senso aveva riproporla incompiuta, se non quello di distinguersi dal mondo operistico 'normale'?
Di incompiute l'arte, non solo quella musicale, è piena. Ma mentre tante incompiute, nel caso ad esempio dell'architettura ( Duomo di Siena) o della scultura ( Pietà 'Rondanini'), restano tali e possono continuare ad esistere così come lasciate dai loro autori; nel caso della musica, si è quasi sempre ricorsi a completamenti effettuati da persone diverse dagli autori, da Puccini appunto, a Mozart ecc...
Nel caso di Mozart, ad esempio, se il suo fedele allievo o chi per lui, non avesse completato il Requiem - con soluzione originale, bisogna ammetterlo - oggi non avremmo potuto ascoltarlo.
Discorso differente merita la regia, sulla quale qualche teatro pensa di basare la sua fortuna, primo fra tutti l'Opera di Roma, dove il sovrintendente Carlo Fuortes, è fermamente convinto che senza regie 'rivoluzionarie', 'moderne', 'd'avanguardia' chiamiamole così, l'opera, il nostro glorioso melodramma, sarebbe ormai defunto. Vagli a spiegare che il melodramma resiste, è tuttora vivo, per la musica, anche in presenza di libretti dozzinali, storie bislacche e a dispetto di regie 'alla Fuortes'.
Il quale, ogni anno, annunciando la stagione d'opera, a seguito di tale sua convinzione, si pavoneggia citando l'elenco dei registi che, distogliendoli dal cinema o dal teatro, è riuscito a coinvolgere in spettacoli d'opera.
Lo ha fatto anche con Pippo Delbono del quale ha presentato una nuova regia per Pagliacci di Leoncavallo; ma solo quella, del dittico che comprendeva anche Cavalleria di Mascagni, che Delbono aveva già realizzato al San Carlo di Napoli e che Roma, in questo caso, ha semplicemente importato.
Ora Pagliacci, come anche Cavalleria sono da sempre ritenuti da tutti capolavori sommi, forse gli unici veri capolavori dei rispettivi autori. Sia per la musica che per la loro trascinante idea ed architettura drammaturgica. Nel caso di Pagliacci, Leonvacallo aveva anche previsto un prologo. Ma come non bastasse il prologo originale, Pippo Delbono ha voluto confezionarne un altro, in varie parti, disseminato nel corso della rappresentazione, risultata sbrindellata, affidandolo a se stesso. Fischiatissimo ogni volta che appariva.
Il pubblico non ha gradito, come invece sembrano aver gradito alcuni - pochissimi - critici, fra quelli che non dicono mai ciò che pensano, pen mancanza di coraggio, o non possono dirlo per interessi anche materiali intrecciati alle gestioni dei vari teatri. Ed anche per il timore di venir cacciati dai teatri, come è spesso capitato ed è capitato anche a noi. E, comunque, tutti non hanno potuto nascondere il dissenso evidente, e rumoroso assai, del teatro. Che ha continuato anche nelle recite successive alla prima.
Ciò che invece Fuortes non ha ottenuto, come sicuramente sperava, è il rilievo che la regia avrebbe procurato agli spettacoli del suo teatro, sui grandi giornali; i quali hanno letteralmente IGNORATO il dittico all'Opera di Roma.
Chi di regia ferisce...
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