Caro direttore,
mi chiede quali siano i
miei rapporti col pianoforte. Non le starò a parlare del rapporto
quotidiano che io - come chiunque abbia traffici diretti o indiretti
con la musica - intrattengo con lo strumento: inteso soprattutto come
strumento di lavoro o di confronto con il lavoro altrui. Le
racconterò un fatto personale, in qualche modo legato al pianoforte.
Se faccio il lavoro che faccio, e che amo, presi la decisione di
fronte alla tastiera bianca e nera. Figlio di avvocati, mi ero
iscritto a legge e in estate dovevo dare certi esami fondamentali. Ma
era ancora aprile e le finestre della nostra casa toscana , quella
mattina deserta, erano tutte aperte. Io, con la mano di un ‘quinto
anno’, ripetevo da alcune ore una fuga di Bach: non per studio, ma
perché non riuscivo a staccarmene. Capii improvvisamente che non
avrei potuto staccarmene mai. E decisi: la laurea in una materia che
non mi apparteneva, sarebbe stata una immoralità. Il mio lavoro era
la musica. Pianoforte, appunto. Ma soprattutto composizione. Sapevo
bene quale trauma avrei procurato a una famiglia come la mia, di
bella civiltà borghese. Ma era tempo di scelte, e la mia aveva la
semplicità e l’urgenza della necessità. Sapevo anche che in casa,
quella mattina, non c’era nessuno, ma andai ugualmente di stanza in
stanza, cercando qualcuno per comunicare, subito, la notizia. La
particolarità della stagione primaverile contribuiva al mio stato di
eccitazione. Naturalmente nella casa non trovai nessuno. Tornai a
sedermi di fronte alla tastiera, come se fosse la prima volta.
Ripresi la fuga di Bach, con una umiltà sino allora sconosciuta. Ero
certo di avere fatto la scelta definitiva. E invece quella scelta era
solo un primo passo. A mia insaputa, mentre suonavo, continuava ad
agire in me, quell’accrescimento di energie, che, con un processo
di accelerazione a catena, scoglie i nodi fondamentali della nostra
esistenza. Condotto dalla logica ferrea e insieme misteriosa della
pagina di Bach, seppi improvvisamente questo: che se avevo finalmente
la forza di rompere la tradizione e tutte le aspettative familiari,
se ero abbastanza sfrontato da sentirmi maturo di scegliere, come mio
lavoro, la comunicazione attraverso l’arte, allora dovevo andare
sino in fondo. Dovevo avere il coraggio di riconoscere che il mio
linguaggio stava oltre la musica. Era il cinema. Da tempo, insieme a
mio fratello Paolo, vivevo immerso nello stupore della scoperta del
cinema. Ora lo stupore cedeva il passo al possesso. La scoperta
diventava operativa. Per altre strade Paolo arrivava alla stessa
conclusione: su cui poggia tuttora la nostra attività in comune. Non
smisi comunque di suonare il pianoforte, quella mattina. Mi faceva
piacere lavorare ancora con lui, come si lavora con un complice.
Vittorio
Taviani
( Il presente articolo uscì sul
mensile ‘Piano Time’ nella rubrica ‘Caro pianoforte’, nel
1983 - nn.4/5 Luglio / Agosto - e mai più ripreso).
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