Del concerto della diva Cecilia, abbiamo letto che s'è cambiata d'abito ogni dieci minuti circa - in meno di 40 minuti di concerto (suo) quindi quattro volte - e che è stata accolta dal pubblico con applausi interminabili e chiamate altrettanto convinte, ed anche che nel corso dello strano concerto diretto da Pappano - strano per la curiosa scansione del programma assai simile alle 'accademie' di tempi lontani - Lei ha cantato complessivamente per meno di 40 minuti, su una durata che presumiamo almeno doppia, lasciando per il resto spazio a Pappano, e impiegando Lei il tempo fra una apparizione e l'altra a cambiarsi d'abito, presumiamo - specie per quelli 'da sera' particolarmente ingombranti.
Oggi il Corriere, sulla 'romana', a firma Valerio Cappelli, ha fatto due conti, per quanto assai bislacchi e senza senso. Così ha ragionato Cappelli. L'incasso della serata per l'Accademia sarà stato di 270.000 Euro circa ( dato il costo esoso dei biglietti) pagato dai 2.700 circa spettatori paganti. Ora, ragiona sempre Cappelli, se consideriamo che Cecilia Bartoli ha cantato per complessivi 37 minuti - li ha cronometrati, distraendosi durante il concerto, o tornato a casa ha visto su internet le durate approssimative ed ha fatto il calcolo? - ognuno di quei 37 minuti è come se fosse costato oltre 7.000 Euro. Ma che razza di calcolo è questo? E a quale conclusione arriva? Che, se la musica è di tutti e i prezzi dei biglietti del concerto della Bartoli ( meglio dire: concerto con la Bartoli) non erano alla portata di tutti ( per la platea da 150 a 200 Euro; per le gallerie da 35 a 120 ), escludevano quindi tantissimi che avrebbero voluto ascoltarla; ma arrivando però a chiarire che, se non la si ascolta, non casca certo il mondo.
A noi, ad esempio, quando l'abbiamo ascoltata non molti anni fa, non ha fatto venire i brividi, e perciò non ci siamo uniti ai molti suoi fans che l' avrebbero applaudita anche non avesse cantato, e perfino se avesse steccato. La ben nota 'agilità' della sua voce non ci rapì.
Ora è chiaro che quel calcolo è bislacco e senza senso, mentre bastava gridare allo scandalo del costo dei biglietti ( assai simile a quelli che si pagano all'opera, dove però si vede anche lo spettacolo, solitamente costoso!), mai così alti a Santa Cecilia.
Come altrettanto sacrosanto sarebbe stato indicare se la ragione dell'alto costo dei biglietti stava nel fatto che l'Accademia voleva approfittare dell'appeal della cantante per 'portare acqua al mare' delle sue casse; oppure se tale politica dei prezzi era ala conseguenza dell'esoso cachet della cantante ( non è un mistero che Ella chieda cachet stratosferici, immeritati addirittura).
Ecco, Cappelli avrebbe dovuto essere tanto bravo, come lo è in altre occasioni, da rivelare ai suoi lettori quanto ha chiesto la Bartoli per cantare quei preziosissimi 37 minuti, ma che non ha fatto, fermandosi a quel più facile ma inutile ed incomprensibile calcolo.
Perchè a questo punto ci verrebbe da domandare al noto giornalista se tutti gli altri minuti di durata del concerto dovessero essere ritenuti un 'regalo', un 'bonus' (come si dice in linguaggio discografico) offerto ai fans della Bartoli, costando all'Accademia una cifra pari allo zero, impiegando la sua orchestra ed il suo direttore musicale (che, comunque, non ha diretto gratis).
martedì 31 gennaio 2017
Beni culturali. Il non governo di Franceschini
La presenza di Franceschini in quello che lui stesso ha definito ad inizio legislatura il ministero 'più importante' è per il nostro paese una vera sciagura, pari solo ai danni che in questi mesi continuano a rovinare il nostro patrimonio archeologico e monumentale, mentre lui pensa a costruire la platea lignea del Colosseo o a fare nuove nomine, come di recente ha fatto per il settore della 'fotografia'- settore che per ingraziarselo non testimonierà mai il degrado dei nostri beni culturali che non si è mai arrestato sotto il suo ministero.
Notizie di questi giorni ci parlano di due crolli a Pompei - ma non erano da tempo iniziati i lavori di normale manutenzione del grande sito? - affidato ad Osanna ( si chiama così il sovrintendente), del crollo di una bella fetta delle Mura Aureliane, a Roma, e dei lavori non fatti per mettere in sicurezza i beni archeologici e monumentali ed anche quelli museali delle zone terremotate, come tragicamente sta emergendo proprio in queste ore, con le continue scosse che danno ogni volta un duro colpo al nostro patrimonio.
Lui, Franceschini, è occupato a far da arbitro fra le due diverse sovrintendenze attive a Roma, quella statale e quella comunale, alla quale ultima intende fregare una bella quantità di fondi, che sono poi quelli derivanti dallo sbigliettamento al Colosseo e al Foro Romano, nella porzione più importante e perciò più visitata e dunque più redditizia.
Vien da pensare che se dal Ministero passasse a presiedere il governo - come tutti abbiamo temuto alla vigilia dell'incarico a Gentiloni, forse per il settore che noi abbiamo particolarmente a cuore, sarebbe meglio, tanto ridurre il paese peggio di come è messo, non sarebbe in grado di fare neanche 'mezzodisasatro' Franceschini.
Notizie di questi giorni ci parlano di due crolli a Pompei - ma non erano da tempo iniziati i lavori di normale manutenzione del grande sito? - affidato ad Osanna ( si chiama così il sovrintendente), del crollo di una bella fetta delle Mura Aureliane, a Roma, e dei lavori non fatti per mettere in sicurezza i beni archeologici e monumentali ed anche quelli museali delle zone terremotate, come tragicamente sta emergendo proprio in queste ore, con le continue scosse che danno ogni volta un duro colpo al nostro patrimonio.
Lui, Franceschini, è occupato a far da arbitro fra le due diverse sovrintendenze attive a Roma, quella statale e quella comunale, alla quale ultima intende fregare una bella quantità di fondi, che sono poi quelli derivanti dallo sbigliettamento al Colosseo e al Foro Romano, nella porzione più importante e perciò più visitata e dunque più redditizia.
Vien da pensare che se dal Ministero passasse a presiedere il governo - come tutti abbiamo temuto alla vigilia dell'incarico a Gentiloni, forse per il settore che noi abbiamo particolarmente a cuore, sarebbe meglio, tanto ridurre il paese peggio di come è messo, non sarebbe in grado di fare neanche 'mezzodisasatro' Franceschini.
Alberto Moravia. (II) La Musica per me
Siamo costretti a ripubblicare questo post, già presente nel nostro blog, per problemi di visualizzazione che purtroppo non riusciamo a risolvere del tutto.
ALBERTO MORAVIA. II di Pietro Acquafredda
Accingendoci a rileggere tutti gli scritti 'musicali' di Alberto Moravia, fin qui reperiti - i suoi testi, cioè, che parlano direttamente di musica: nella gran parte riflessioni o brevi saggi - non sembri superfluo liberare subito il campo da qualche equivoco che alcuni di essi potrebbero generare, a causa dei titoli, ma solo per quelli, mutuati da celebri melodrammi; mentre sulla musica in questi testi non si legge una sola parola.
ALBERTO MORAVIA. II di Pietro Acquafredda
Accingendoci a rileggere tutti gli scritti 'musicali' di Alberto Moravia, fin qui reperiti - i suoi testi, cioè, che parlano direttamente di musica: nella gran parte riflessioni o brevi saggi - non sembri superfluo liberare subito il campo da qualche equivoco che alcuni di essi potrebbero generare, a causa dei titoli, ma solo per quelli, mutuati da celebri melodrammi; mentre sulla musica in questi testi non si legge una sola parola.
Aggiungiamo che i testi di
argomento musicale di Moravia sono in numero assai modesto, per nulla
paragonabili a quelli sul cinema e sul teatro, ma anche sulla pittura
- ai quali pure accenneremo - settori che lo scrittore padroneggiava
con sicurezza e professionalità, avendo al cinema ed al teatro,
accanto a quella di romanziere, dedicato parte consistente della
propria attività, senza che ciò debba, affrettatamente, farci
concludere su una sua sostanziale estraneità e totale indifferenza
al mondo della musica.
Avremmo
potuto affrontare l'argomento più generale, 'Moravia e la Musica',
anche prendendo in considerazione le musiche che hanno accompagnato
i numerosi spettacoli teatrali scritti direttamente dallo scrittore -
che dichiarava un suo particolar sforzo ed interesse a ricondurre la
scrittura narrativa ad uno stile teatrale - o tratti dai suoi
romanzi, se in esse fosse stato possibile leggere, anche in
filigrana, un 'intervento d'autore' dello scrittore, pur limitato
alla scelta dei musicisti. Ma si sa che, in linea di principio, la
musica, come gran parte degli altri elementi che costituiscono uno
spettacolo teatrale, sono da ricondurre direttamente sotto la
responsabilità del regista; e, inoltre, le locandine dei suoi
spettacoli teatrali sono lacunose, sotto il profilo delle 'musiche
di scena'.
Le uniche notizie forniteci dai repertori che, invece, contemplano
anche gli autori delle musiche, ci dicono
dell'ingaggio
di Fiorenzo Carpi ( per La
Mascherata,
regia di Giorgio Strehler), di Sergio Liberovici ( per
L'intervista,
regia di Roberto Guicciardini) e di Benedetto Ghiglia ( per La
cintura,
regia di Guicciardini): musicisti di nome per spettacoli di qualità
di un autore all'apice del successo; e, infine, di Davide Pennati,
attivissimo sulla piazza milanese nel campo della canzone d'autore,
che scrisse le musiche per la riduzione de La
noia, a
cura di Mario Leone, il cui 'motivo conduttore' intitolato 'Moderno
Blues' , di soli cinque righe di musica, senza accompagnamento,
manoscritto, è conservato nell'archivio Moravia.
La
nostra indagine, poi, alla lettura di alcune dichiarazioni dello
stesso Moravia, rese in diverse occasioni ed a diversi interroganti,
ha rischiato una brusca interruzione, fra cui quella resa ad
Alessandro Gennari, e ripresa recentemente nella vivace e singolare
biografia, formato 'mini', dello scrittore, da Giorgio Dell'Arti (
Alberto
Moravia, sono vivo sono morto,
Edizioni Clichy): “ La musica mi piace molto, lo sai che una volta,
per gioco, ho detto a Barilli, il critico musicale: vuoi vedere che
scrivo una recensione musicale uguale alla tua? Gliel'ho scritta su
un tavolino del bar, in pochi minuti, lui l'ha letta e poi l'ha
pubblicata con la sua firma” che attesterebbe una sua particolare
sensibilità musicale ma anche una sua capacità intuitiva e
facilità di scrittura; che, però, viene messa in dubbio, se letta
parallelamente ad un'altra dichiarazione in cui affermava che il suo
programma preferito in tv era il canale Videomusic; e, rispondendo a
Antonio Debenedetti, che gli faceva notare che ci sentiva poco: vedo
i colori...” . Ma lo scrittore scherzava o diceva il vero? Il
dubbio resta.
Ci
hanno convinto, alla fine, a proseguire nell'indagine alcuni
interventi propriamente musicali, via via scoperti e che
costituiscono l'ossatura di questo lavoro, ma anche le rassicurazioni
di Dacia Maraini - compagna dello scrittore per molti anni - sulla
sensibilità musicale, frutto di un certo interesse per la musica
stessa, di Moravia, e la cui intervista pubblichiamo, in appendice, a
conclusione e coronamento di qusto studio.
Il
quale procede in siffatta maniera. Dopo un rapido accenno
all'attività di critico teatrale e cinematografico di Moravia,
libereremo il campo dagli equivoci nei quali potrebbero indurci i
titoli, tratti da celebri melodrammi, di alcuni racconti;
proseguiremo con l'esame del Moravia librettista e autore di testi
per canzoni; entreremo nella Casa/Museo dello scrittore, per dare
un'occhiata alla biblioteca ed alla discoteca, per terminare con
l'illustrazione dettagliata dei suoi scritti di contenuto musicale.
In appendice, il libretto dell'opera di Gino Negri, Vieni
qui Carla,
da Gli
indifferenti, inedito,
ed i testi delle due
Canzoni per Laura Betti,oltre ad un testo di presentazione del
Festival di Spoleto, apparso nel numero unico della prima
edizione(1958) del festival di Menotti, introvabile e difficile da
reperire.
Teatro e cinema.
Ma anche pittura
L'attività
teatrale di Moravia, come autore, ha radici lontane - è del 1948 il
suo primo testo teatrale, Gli
indifferenti,
dall'omonimo romanzo - ed arriva fino agli anni Ottanta, 1986, con La
cintura - come
anche quella cinematografica, per la quale, senza considerare che dai
suoi romanzi sono stati tratti molti film con il suo stesso concorso,
giova ricordare che il suo primo testo cinematografico, inedito, in
veste di soggettista e sceneggiatore, Billo,
risale al 1938; e che la critica cinematografica è stata una
costante della sua attività: nel 1945-46 per la La
Nuova Europa
e Libera
Stampa;
dal 1950 al 1954 per L'Europeo,
e dal 1957 al 1989 per L'Espresso
(una selezione degli articoli di critica cinematografica de
L'Espresso
è stata pubblicata da Bompiani nel 1975, con il titolo Al
cinema, 148 film d'autore).
Si
possono leggere anche altrove sue riflessioni sul cinema e teatro,
disseminate in vari scritti, saggi e interventi, come quelli usciti
sul mensile Documento
nel corso del 1942. Il primo, dal titolo Letteratura
e cinema,
sul numero doppio (nn.7-8, luglio-agosto 1942) della nota rivista ;
il secondo, dello stesso anno, ma sul numero, anch'esso doppio
(nn.11-12, novembre-dicembre 1942) dal titolo Teatro
e cinema;
ambedue i contributi destinati a numeri 'speciali', monografici di
Documento,
sul cinema l'uno, sul teatro l'altro.
Moravia ha
scritto molto anche di pittura, presentando o recensendo mostre di
pittori, taluni anche suoi amici; di tale interesse resta traccia
nelle importanti opere presenti nella sua casa/museo.
Rigoletta, Serva
padrona, Don Giovanni
Si accennava ai testi, il
cui titolo potrebbe far ipotizzare qualche rapporto con la musica -
che invece non c'è. Tre racconti in tutto, pubblicati in epoche
diverse.
Il primo, La
serva padrona (
in Nuovi racconti romani,
1959, Bompiani) ha in comune con l'omonima celeberrima opera di
Pergolesi, nient'altro che il titolo, e la storia di una serva che
diventa padrona; in circostanze, nei due casi, differenti.
Nel secondo, Rigoletta
( in Nuovi racconti romani,
1959, Bompiani) Moravia prende spunto dal deforme personaggio
protagonista della celebre opera verdiana, Rigoletto,
per il nomignolo da affibbiare ad una ragazza, protagonista del
racconto, che si crede tanto bella da non riuscire neanche a vedere i
propri difetti fisici, anche se non ha la gobba come il personaggio
verdiano.
Il terzo, infine, Serata
di Don Giovanni, pubblicato in coppia
con Due cortigiane
dalla casa editrice L'Acquario, 1945, con illustrazioni di Mino
Maccari, ( in Alberto Moravia. Opere/2. Romanzi e Racconti 1941-1949.
A cura di Simone Casini. Bompiani. Classici 2002), come gli altri,
nulla ha da spartire direttamente con il celebre libertino
mozartiano, mito ricorrente della letteratura, ad eccezione della
storia del protagonista, di nome Giovanni. Il suo rapporto con le
donne - fra le quali c'è anche una certa Elvira, come l'altro
personaggio dell'opera di Mozart - nasce, si legge, da “una
curiosità di collezionista che desideri possedere tutta la serie di
oggetti di cui fa la raccolta”, che ci fa venire in mente il
catalogo “delle belle che amò il padron mio”, cantato da
Leporello. Del suo collezionismo 'femminile', il Giovanni di Moravia
dà una spiegazione psicologica all'amico curioso di sapere come e
dove egli trascorra sere e notti. ”E' il risultato - si giustifica
- del mio desiderio di rimanere libero... Lo ero di meno quando amavo
una sola donna e questa mi tradiva... quella volta mi accorsi quanto
sia amaro e umiliante aver messo tutto se stesso nelle mani di una
persona... e non aver nulla in riserva su cui ricadere nel caso che
questa persona non apprezzi un amore così esclusivo”.
Moravia librettista per
Peragallo
Due
sono le occasioni in cui lo scrittore affida in prima persona un suo
testo alla musica. Tralasciando il caso delle due canzoni per Laura
Betti, di cui ci occupiamo dettagliatamente più avanti, il primo e
più consistente, vede Moravia 'librettista' occasionale del
musicista Mario Peragallo ( non sappiamo se lo scrittore in prima
persona, o il compositore, autonomamente, in base all'economia della
musica, con il successivo, scontato placet dello scrittore ),
operando una riduzione consistente - più che una riscrittura
dell'originale, con la sola aggiunta del brevissimo 'Quadro terzo'
conclusivo, 'corale' - di un suo racconto breve, datato 1945, che
l'autore in una lettera (8 ottobre 1953) definisce 'novella'( “...a
Milano si daranno due cose mie: La
mascherata
al Piccolo Teatro e un'opera in un atto del maestro Peragallo tratta
dalla mia novella Andare
verso il popolo
insieme con un'altra opera di Menotti...”) e intitolato Andare
verso il popolo
(in Alberto Moravia. Opere/2. Romanzi e Racconti 1941-1949. A cura
di Simone Casini. Bompiani. Classici, 2002),
che
nell'opera
di Peragallo, assumerà il titolo La
gita in campagna (libretto
in Alberto Moravia. Teatro Vol. II. A cura di Aline Nari e Franco
Vazzoler. Bompiani,Tascabili 2004),
andata in scena alla Scala il 24 marzo 1954.
La
gita in campagna
debuttò assieme a due altri atti unici: La
figlia del diavolo,
esordio operistico di Virgilio Mortari, su testo di Corrado Pavolini;
e Amelia
al ballo di
Giancarlo Menotti, scritta nel 1937, con alle spalle un successo
consolidato , che ebbe il compito di concludere positivamente la
serata che con l’opera di Peragallo/Moravia aveva toccato il suo
punto più contrastato.
Per
la cronaca, il direttore del trittico di opere contemporanee fu Nino
Sanzogno; e, nel caso dell’opera di Peragallo/Moravia, la regia fu
di Enrico Colosimo; i bozzetti per scene e costumi di Renato
Guttuso, e direttore dell’allestimento fu Nicola Benois.
L’opera
racconta di una coppia di giovani, Ornella e Mario, che in una
‘Topolino’ girano per la campagna romana, nell’inverno del
1944. La loro macchina è in panne, serve acqua per il radiatore, e
Mario pensa di andare a prenderla in una capanna poco distante;
approfitterà anche per condurre le sue indagini di cronista sulle
condizioni del popolo, a guerra appena finita. Giungono alla capanna
- nel corso del cammino Ornella, prima riluttante, si fa baciare da
Mario - dove vive in miseria una famigliola. La contadina, di nome
Leonia, dà a Mario un recipiente e gli indica il pozzo, dove
attingere l’acqua; là c’è suo marito, Alfredo. Leonia, restata
sola con Ornella, la deruba di tutto, lamentando l’assoluta
mancanza di ogni cosa. Quel poco che aveva la sua famiglia glielo
hanno portato via i tedeschi. Medesima sorte toccherà a Mario, il
quale con Ornella, ambedue quasi nudi, raggiungono la macchina per
far ritorno a Roma. Prima di partire circondano la topolino altri
contadini e ragazzi che chiedono la carità, perché a loro volta
furono derubati di ogni cosa dai tedeschi. Per fortuna la macchina
riparte, mentre il gruppetto li insegue invano, gridando ‘la
carità, fateci la carità…’.
Con
l’opera di Peragallo/Moravia, la cronaca fece irruzione nel
melodramma, come aveva già fatto nel cinema neorealista italiano,
che tanta influenza ebbe nello sviluppo della cinematografia
mondiale.
Nel
presentare l’opera, sul programma di sala della Scala, Massimo Mila
accennava alle difficoltà in cui si dibatteva l’opera lirica che
attendeva ancora chi avrebbe raccolto il testimone di Mascagni,
Giordano, Zandonai, mentre allora contavano i nomi di Pizzetti,
Casella, Malipiero i quali avevano percorso strade proprie ed
alternative rispetto alla tradizione. A Peragallo, che già aveva
dato al teatro altri titoli prima della Gita,
si guardò come a colui che poteva ripetere i successi dell’ultima
grande scuola italiana del melodramma. Che era poi anche la segreta
speranza dello stesso Peragallo il quale dopo i successi delle sue
precedenti opere ( Ginevra
degli Almieri, 1937;
Lo stendardo di San Giorgio,1941),
e dopo un periodo di crisi compositiva, tacendo quasi del tutto, ora
si rimetteva all’opera, forte di alcune prove strumentali ben
accolte. Sulla sua sincerità, nell’assoluta autonomia del nuovo
linguaggio musicale, era pronto a scommettere lo stesso Mila, che
sottolineava: ”il particolare biografico che Peragallo non abbia
alcun bisogno dei diritti d’autore per condurre una vita più che
passabile, cessa di essere una futile indiscrezione e diviene invece
elemento da tenere in conto come indice della sua assoluta sincerità,
anche in questa prima fase di attività artistica”. Insomma, voleva
dire Mila, Peragallo è ricco e quindi se intraprende una strada
nuova, abbandonando quella passata che gli aveva meritato un bel
successo, non lo fa per guadagnarsi da vivere con i diritti d’autore,
puntando sulla novità per la novità, e dunque va considerato
sincero e meritevole di fede ed attenzione, nonostante che nello
specifico si fosse avvicinato alla dodecafonia. Egli che, a
differenza di molti compositori dell’avanguardia musicale
dell’epoca che avevano amoreggiato anche con la dodecafonia, veniva
dal teatro tradizionale ottocentesco. Peragallo aveva cioè lasciato
il certo per l’incerto e per il difficile: deciso ad andare per la
propria strada, mentre parallelamente era già spuntato il partito di
chi aveva smesso di scrivere musica per i critici e i colleghi ed
aveva ‘tentato di stabilire intorno a sé un contatto umano’ (
antenati dei cosiddetti neoromantici, neomelodici, neotonali?).
Peragallo sta lontano dall’uno e dall’altro schieramento, quando
scrive La
gita in campagna,
come annota Mila, nella presentazione dell’opera: ”Peragallo si è
accostato nuovamente all’opera musicale, con la volontà di farsi
capire e seguire, e nello stesso tempo di non abdicare a quella
decenza di stile cui dovrebbe restar fedele ogni musicista onesto.
Proprio nella difficoltà di tale tentativo, concludeva Mila, va
cercata la ragione per cui Peragallo s’è mantenuto nel ristretto
cerchio dell’atto unico, meno rischioso, rientrando nel mondo
dell’opera quasi in punta di piedi; ha voluto lanciare un segnale
nella speranza che qualche altro musicista lo colga, evitando,
perfino, di raccogliere ‘le insinuazioni di amarezza sarcastica'
che erano implicite nel racconto di Moravia”.
Luigi
Pestalozza su Il
Verri
( n.4, dicembre 1958), scriverà anni dopo, a seguito della ripresa
romana, per l'Accademia Filarmonica (26 febbraio1958, al Teatro
Eliseo)
dopo
che l’opera era stata ben accolta all’estero, che La
gita in campagna ha
rappresentato l’unico tentativo serio della musica italiana di
inserirsi, e di prendere posizione, sulle questioni di fondo, sui
conflitti umani che segnano i nostri giorni…”. E ancora, che
Peragallo “ha saputo conciliare l’engagement sociale con
l’avanguardismo musicale, ed è approdato ad un risultato di
comunicazione, di espressione, di stile e dunque di originalità”,
il che - spiega - vuol dire che Peragallo ha compiuto “un
tentativo, fuori d’ogni demagogico semplicismo di ricondurre la
nostra musica, il nostro teatro musicale ad una tematica realistica”.
Di
parere diverso Guido M. Gatti: “La
gita in campagna suscita
ilare stupore e fiere proteste. Vuole 'épater le bourgeois' per
l'emancipazione del racconto alla brava di Alberto Moravia che celia
alla sua maniera spericolata su misere cose di una misera gioventù
d'oggi. La musica di Peragallo si fa sempre più avventurosa e
spiccia dacché ha lasciato la via intrapresa agli inizi”( ne Il
teatro alla Scala.1778-1958.
Pag. 453).
Invece
Fedele d'Amico mette la croce sulle sole spalle di Peragallo, cui si
deve la scelta dell'argomento ed ancor più del libretto: ”Il
difetto di quest'opera è nel libretto, che ricalca passivamente la
novella nell'illusione che un dialogo possa sostituire un'azione
scenica; la quale dovrebbe invece avere un suo ritmo. Specie in un
assunto comico, è difficile fare a meno d'una sceneggiatura che
conduca coscientemente la dinamica degli affetti.... E tuttavia il
bilancio dell'opera (considerando soprattutto l'elemento musicale,
ndr.) mi pare largamente in attivo, nonostante il suo clamoroso
insuccesso presso gli abbonati della Scala”, il cui pubblico,
d'Amico bolla senza mezzi termini, quando scrive che il comportamento
da questi tenuto durante la rappresentazione “giustifica ancora una
volta la sua fama di essere, senza confronti, il pubblico più
villanzone del mondo”. (Fedele d'Amico, I
casi della musica,
Il saggiatore, pagg.18-19). Di opposto parere è Massimo Mila che, in
occasione della ripresa romana del 1958, scriverà che “il testo è
uno dei più stimolanti che si possano incontrare nel teatro
lirico... proprio in ragione della estrema intelligenza del testo,
musica ce n'è relativamente poca...” ( L'Espresso,
9 marzo 1958)
Fin
qui i pareri e le reazioni degli addetti ai lavori. E il pubblico?
Ci
vengono in aiuto alcune cronache autorevoli di quei giorni milanesi.
Pasquale Festa Campanile (La
Fiera Letteraria)
va a sentire lo stesso Moravia, che di lì a pochi giorni, il 14
aprile, avrebbe assistito a quello che egli considerava il suo vero
debutto drammatico, con Commedia
tragica (da
La
mascherata),
regia di Strehler, al Piccolo Teatro di Milano. E ne scrive nel suo
pezzo, intitolato Due
ciabatte a teatro.
“E’
andata malissimo - gli disse tranquillamente Moravia - peggio di così
non poteva certamente andare. Debbo dire, comunque, che quello della
Scala è un pubblico provinciale. Esso si è comportato male perché
è venuto a teatro con l’idea preconcetta di far giustizia
sommaria. Hanno tirato due ciabatte sul palcoscenico: quindi le
ciabatte se le erano portate da casa. Forse su questo comportamento
hanno influito le idee politiche e le scene di Guttuso per esempio.
Forse è stata l’irritazione per un argomento sgradevole,
neorealistico direi. La presenza di due poveri sulla scena ha fatto
pensare che si trattasse di un’opera di sinistra, mentre era
semplicemente un grottesco. A mio avviso non c’era motivo per una
protesta così violenta e, in ogni caso, si poteva aspettare la fine
dello spettacolo. A me personalmente la musica dodecafonica di
Peragallo è piaciuta come del resto è piaciuta a tutti coloro che
se ne intendono”.
Per
la cronaca della serata, Festa Campanile annotò: “ Fu forse la
presenza sulla scena di una macchina vera - una Topolino A. balestra
lunga ( e alla Scala non s’era mai vista una cosa del genere) - a
sconcertare il pubblico fin dall’inizio. Oppure fu l’apertura
sociale intravista
da qualcuno e sottolineata dalle scene di Guttuso; o, in effetti, la
musica di Peragallo. Certo è, per la cronaca, che alla fine dello
spettacolo il pubblico mostrò i pugni tesi agli autori e si mise a
scandire ‘Buffoni, buffoni’. Sul palcoscenico arrivarono perfino
due ciabatte, lanciate dal loggione. Il giorno successivo, in sede di
resoconto, un quotidiano spingeva la sua critica, al punto di
scrivere:’Quanti milioni sarà costato l’allestimento di
quest’opera alla Scala? A proposito di aperture sociali, non
sarebbe stato meglio offrirli,
per esempio, al
soccorso invernale?”.
Certamente
quanto accadde quella sera alla Scala non incoraggiò successivamente
Moravia a intrecciare altre volte la sua opera al melodramma; ma,
forse, più semplicemente nella sua attività di scrittore si sentiva
estraneo al mondo dell’opera lirica, che pure ammirava, come
dichiarò in seguito: “ per me l'opera lirica ha il valore che
poteva avere cento o duecent'anni or sono... la particolare
esperienza culturale e artistica dell'opera lirica... non è
cambiata, ed è insostituibile e inconfondibile...”. (Sipario,
1964, n.224)
Ma
forse una qualche colpa dell’esito disastroso della serata l’ebbero
i dirigenti scaligeri, come faceva notare, in una acuta recensione
della serata, fin dal titolo: Un
trittico forzoso,
Emilia Zanetti, ancora dalle pagine de La
Fiera Letteraria .
“Concentrare
tre primizie in una sola serata - come ha fatto la Scala per il
secondo ed ultimo spettacolo di novità liriche offerte dal
cartellone di quest’anno - è cosa alquanto inusuale quando non si
tratti di festivals e di stagioni d’eccezione. Ma ci permetteremo
di considerare ottimistica quella interpretazione che ha esaltato il
procedimento come una sorta di giustizia economica a beneficio dei
compositori contemporanei. Continuando questi a preferire l’atto
unico è anche spiegabile che gli organizzatori finiscano col
provvedere per proprio conto ad associarli in una rappresentazione di
durata normale. Quanto al vantaggio che ne ricaverebbero i
compositori stessi è più esatto negarlo, sia per la difficoltà che
incontra la preparazione artistica, sia per la ricettività del
pubblico messa a troppo dura prova dal contrasto di stili e di
tendenze che, intrinseco alla situazione operistica di oggi, non può
non sottolinearsi quando si mettano tre autori a contatto di gomito”.
Proseguendo:
“Del clamoroso rifiuto che gli ha opposto il pubblico della Scala,
si è sufficientemente letto sui quotidiani per tornare a riferirne.
Pittoresco a vedersi e candidamente sproporzionato alla portata del
fatto, esso ha inoltre molte probabilità di venire smentito in altre
sedi meno ‘storiche’ o un po’ più spregiudicate ed ospitali
alle voci d’oggi. Il che non significa che vogliamo dipingere
Peragallo nelle spoglie dell’agnello innocente…”.
E,
infatti, quando nel 1958 l'opera di Peragallo/Moravia fu ripresa a
Roma (trasmessa anche alla radio), per iniziativa della Accademia
Filarmonica, al Teatro Eliseo, in un ambiente molto più consono alle
dimensioni 'cameristiche' dell'opera, valutata alla stregua di un
antico 'intermezzo' - e non più davanti ad un pubblico come quello
della Scala, considerato tradizionalista e provinciale - l'opera fu
accolta bene, come del resto era già accaduto nelle numerose riprese
che si ebbero, dopo la Scala, in Germania e America. A Roma l'opera
fu diretta da Bruno Bartoletti, sul podio dell'Orchestra della RAI di
Roma, ed ebbe la regia di Luigi Squarzina. Fra il pubblico: Alberto
Moravia, Giorgio De Chirico, Lorin Maazel, Elsa Morante, Palma
Bucarelli, Goffredo Petrassi, Guido Turchi, Piero d'Orazio, Toti Dal
Monte, Massimo Mila, Elsa Respighi tra gli altri.
Da
allora (e fino ad oggi) non si ricordano altre riprese.
Opere
da romanzi di Moravia
Due
i casi. Il primo è del 1956 e riguarda il romanzo d'esordio di
Moravia, Gli
indifferenti
del 1929, dal quale ( un episodio di seduzione avviato nel cap.VI,
che si sviluppa nei capitoli seguenti e termina nel X, ) Gino Negri
trasse il libretto della sua opera 'in un atto e due personaggi':
Vieni
qui Carla,
per soprano, baritono e dieci strumenti, data al Piccolo Teatro di
Milano, giovedì 29 novembre 1956, davanti ad un pubblico di
invitati. Sulla partitura, edita da Suvini Zerboni, si precisa che “
il libretto, scritto dallo stesso compositore, è stato tratto, col
permesso dell'autore, dal romanzo di Alberto Moravia, Gli
indifferenti (edizioni
Mondadori)”.
Da
una lettera di Moravia, senza data, conservata nel Fondo 'Gino Negri'
della Biblioteca dell'Università di Milano - che ce l'ha
gentilmente fornita - in risposta ad una, di molto anteriore, del
compositore, apprendiamo della richiesta di un incontro che quasi
certamente non avvenne:
” Gentilissimo
signor Negri,
Io
sono in colpa verso di lei che mi scrisse tanto tanto tempo addietro.
Mi voglia scusare ma per qualche motivo che non so, la sua lettera
che avevo messo da parte per rispondervi andò a nascondersi sotto
certe carte e soltanto oggi con costernazione io l'ho ritrovata. Dico
costernazione perché mi sono accorto del tempo passato da quando la
ricevetti. Io non so a che punto sia adesso la sua impresa di
musicare Gli
Indifferenti.
Spero che il mio silenzio non l'abbia scoraggiato. In tutti i casi
le scrivo per dirle che sono ben contento che lei l'abbia fatto e che
mi interesserebbe sempre moltissimo incontrarla e parlare con lei
della cosa. Insomma se lei viene a Roma, mi farà molto piacere
telefonandomi, alla mattina, al numero 380.287. Con tanta cordialità,
mi creda il suo, Alberto Moravia”.
Moravia,
dunque, si scusa con il compositore, si dichiara felice che un'opera
venga tratta dal suo romanzo e si dice disposto, nel caso di un suo
viaggio a Roma, ad incontrarlo, pregandolo di avvertirlo,
telefonandogli, ma 'alla mattina'.
Dalle
cronache giornalistiche dell'epoca apprendiamo che all'opera (della
durata di una cinquantina di minuti circa) Gino Negri vi avrebbe
verosimilmente cominciato a lavorare all'indomani del debutto alla
Scala della Gita
in campagna di
Mario Peragallo; e che era pronta da più di un anno (alcuni giornali
scrissero 'due anni') prima del suo debutto al Piccolo, dove pare, a
detta dei giornali, che l'autore l'abbia fatta rappresentare a sue
spese, con il contributo della casa editrice e di qualche
sostenitore. La lunga attesa è da addebitare certamente alla
difficoltà per l'autore di 'piazzare' il suo lavoro, a causa
dall'argomento 'scabroso' - una scena di seduzione, dall'inizio alla
fine: ”un episodio del più brutale realismo amoroso: una lunga
scena di seduzione con un finale che non è da riferire”, scrisse
il critico de La
notte,
e altrettanto non mancarono di sottolineare tutti i giornali, in
coro. Osiamo, perciò, ipotizzare che quella lettera 'tardiva' di
risposta di Moravia a Gino Negri potrebbe anche non essere dello
stesso anno del debutto, ad inviti, al quale Moravia non assistette (
in quel periodo era a Roma e stava rivedendo la versione definitiva
de La
ciociara,
che uscì l'anno dopo), mentre folta fu la rappresentanza del mondo
culturale e musicale dell'epoca (presenti: Franco Donatoni, Aldo
Clementi, Giorgio Federico Ghedini, Efrem Casagrande, Alberto
Soresina, Eugenio Montale, Beniamino Del Fabbro, Caty Berberian,
Ornella Vanoni, Orio Vergani, Fiorenzo Carpi, Maderna Koepnich
ecc...).
Il
secondo, recentisimo, con l'opera Le
due donne,
tratta dal romanzo La
ciociara (1957)
- già fonte di ispirazione di un celebre film di Vittorio De Sica
(1960) con Sofia Loren, che in America aveva mutato il titolo in Two
Women
- commissionata a Marco Tutino dall'Opera di San Francisco ed andata
in scena nel giugno 2015, coprodotta con il Teatro Regio di Torino,
dove approderà nella stagione 2016-17. Il libretto reca la firma
dello stesso compositore e di Fabio Ceresa. Ma prima di arrivare alla
stesura del libretto, Tutino si è rivolto ad uno sceneggiatore
cinematografico, Luca Rossi, al quale ha chiesto una sceneggiatura
vera e propria del romanzo, dalla quale gli è parso più agevole
ricavare il libretto dell'opera. Del romanzo, oltre la storia, si
sono presi i dialoghi, ma adattandoli a 'libretto' e poi si sono
aggiunte alcune canzoni popolari romane, oltre a quella che De Sica
aveva già introdotto nel suo film: Una
strada nel bosco.
Tutino ha dichiarato, a proposito:"Si
può immaginare un'opera con un tenore (Dimitri Pittas) che ama un
soprano (Anna Caterina Antonacci) senza che un baritono (Mark
Delavan) cerchi di prevaricarlo?". Perciò, " un'opera
basata su un libro, o anche su un film, diventerà necessariamente
un'altra cosa.... Mi resi conto subito che il libro di Moravia, a
dispetto delle sue tantissime qualità, non si prestava a essere
trasformato in un intrigo operistico. La sua novella è troppo
realistica, poca trama, manca di personaggi negativi. Per questa
ragione prima di cominciare a lavorare sul libretto con Ceresa
chiedemmo a Luca Rossi, sceneggiatore cinematografico di mestiere, di
cominciare col libro di Moravia ma di scrivere una storia
differente".
Canzoni
per Laura Betti
Moravia
scrisse anche canzoni, in due casi, gli unici conosciuti. Si trattò
della risposta, in certo modo obbligata, ad una richiesta di Laura
Betti che Moravia ed altri scrittori (tra i quali Flaiano, Arbasino,
Mauri, Parise) e musicisti (Peragallo, Carpi, Gino Marinuzzi jr. de
Banfield, Maselli, Negri) amici o conoscenti, non poterono rifiutare,
anche perchè la proposta si sposava alla determinazione di alcuni
intellettuali dell'epoca di rinnovare la canzone, alzandone i
livelli, quantomeno dei testi. Laura Betti, con Filippo Crivelli,
aveva voluto uno spettacolo di canzoni, dal titolo Giro
a vuoto
( la cui prima edizione/versione è del 1960; ma ebbe diverse altre
edizioni/versioni negli anni seguenti, con nuove aggiunte ), una
delle quali,
Mi butto! (in
Alberto Moravia. Teatro. Vol.II. A cura di Aline Nari e Franco
Vazzoler. Bompiani, Tascabili 2004)
toccò
scriverla a Moravia, e musicarla a Gino Marinuzzi jr.
Il
testo, 'inzuppato' nella noia di vivere, cantava:
Mi
butto!
Automobili,
motoscafi
ville
al mare e in montagna,
pranzi,
cocktails, tè,
viaggi,villeggiature:
a
soli vent'anni ho finito
dove
gli altri hanno appena incominciato;
così
ripeto a mio marito:
“Mi
annoio, mi butto, mi butto!”.
Ogni
finestra mi tenta,
ogni
davanzale mi attira:
la
vita non è che noia, ma la noia non è vita.
Se
solo mio marito
un
giorno mi dicesse: “Buttati!”.
Ma
lui naturalmente è buono
e
non lo dice mai, così
mi
annoio da morire e ripeto:
“Mi
butto, mi butto, mi butto!”.
Crede
all'amore mio marito.
Che
orrore l'amore, che orrore!
Così
se mi parla d'amore, rispondo:
“Mi
butto!”.
Annoiarsi
sarebbe anche il meno
se
non mi annoiassi d'annoiarmi.
La
noia da sola è già brutta,
ma
la noia della noia è peggiore,
quindi
è certo che un giorno mi butto!
Mi
butto! Mi butto! Mi butto!
La
seconda, Santa
Seicento (
in Alberto Moravia. Teatro Vol.II. A cura di Aline Nari e Franco
Vazzoler. Bompiani, Tascabili 2004)
Moravia
la scrisse per Potentissima
signora,
altro spettacolo di Laura Betti, del 1964, con la regia di Mario
Missiroli, andato in scena al Teatro Duse di Bologna, il 7 dicembre
1964. Di questa seconda canzone non siamo venuti a capo del nome del
musicista. Ed anche il volumetto pubblicato da Longanesi con i testi
dello spettacolo, non ne fa menzione. Ecco il testo:
Santa
Seicento
portabagagli
tergicristallo
carburatore
fari
abbaglianti
prega
per noi.
Dacci
il bagno
a
Ostia
la
scampagnata
ai
Castelli
lo
struscio
a
via Veneto.
Dacci
i gelati
al
Pincio
la
sbornia
fuori
porta
l'indigestione
a
Monte Mario.
Dacci
la donna
per
la strada
col
bacio
al
volante
e
l'amore
a
cento all'ora.
Chi
ti possiede
è
rispettato
ammirato
privilegiato
anche
se è solo
un
impiegato.
Tu
sei la vera
rivoluzione
sei
il sole
dell'avvenire
dal
socialismo
vaticinato.
Santa
Seicento
quattro
portiere
monocolore
superbenzina
cortemaggiore
decappottabile
prega
per noi.
Libri
di musica e dischi di Moravia
Se
si rileggono i testi di contenuto musicale di Alberto Moravia, il
primo datato 1934 (Il
melodramma),
l'ultimo 1984 (Caro
Pianoforte,
una brevissima riflessione sulla musica, pubblicata dalla rivista di
musica Piano
Time)
ci si rende conto che tutti, ad eccezione dell'ultimo e di un
secondo, degli anni giovanili, Varietà
(apparso
la prima volta nel 1935 sulla
Gazzetta del Popolo,
ripreso nel 1942 su Documento)
riguardano il melodramma o i suoi autori più noti (Rossini, Verdi,
Puccini) ai quali, per circostanze diverse, lo scrittore dedica
riflessioni originali.
Ma
prima di esaminarli singolarmente, un particolare assai curioso ci
viene di sottolineare: l'assenza, nella sua vasta biblioteca, di un
qualche titolo che possa rimandare a letture frequenti, preparatorie,
dello scrittore su detti autori. Manca perfino - ma forse in questo
caso la regalò, o prestò dopo averla letta - la biografia di
Puccini ( Puccini,
Rizzoli 1976) scritta da Enzo Siciliano, che Moravia recensì con un
lungo articolo, in terza pagina, sul Corriere
della Sera,
all'indomani della sua uscita. Non c'è un solo libro su Rossini, e
neppure su Verdi ; mentre sono numerosi i titoli di questi autori
presenti nella sua non vasta discoteca, nella quale, in generale, i
titoli del melodramma sono prevalenti, anche con incisioni di pregio.
Tuttavia
non mancano del tutto libri di argomento musicale, in numero ridotto;
i quali inducono a pensare ad interessi momentanei e passeggeri
dello scrittore per argomenti e personaggi sulla cresta dell'onda;
oppure, in alcuni casi, a spiegarsi semplicemente come omaggi di
case editrici o regali di amici scrittori. Nulla in ogni caso che
attesti un'attenzione particolare per gli argomenti affrontati nei
pur rari saggi di argomento musicale. E non è neppure ipotizzabile
che fra i moltissimi libri letti da Moravia, quelli di argomento
musicale - solo quelli? - siano volati via nei diversi cambi di
domicilio romani, perché non ve ne furono: dal 1962 egli abitò,
fino alla fine dei suoi giorni, 26 settembre 1990, a Lungotevere
della Vittoria, n. 1, dove ora ha sede la
Fondazione/Casa/Museo/Archivio che porta il suo nome.
Dai
suoi non numerosi libri di argomento musicale - fra i quali, ad
esempio: Puccini.
La fine del bel canto di
Giuseppe Tarozzi; Giuseppe
Verdi, la vita e le opere
di Frnacis Toye ( Longanesi 1950);Mahler
di
Ugo Duse, e, sempre su Mahler, di Gianfranco Zaccaro, Mahler.
Studio per un'interpretazione;
Ravel
di Jankelevitch; Le
Coq et l'Arlequin
di Jean Cocteau; Per
gli uccelli, colloqui
con John Cage - sfogliandoli, nulla si riesce a dedurre leggendovi ed
interpretandovi sottolineature ed appunti, del tutto assenti le une e
gli altri, sebbene su alcuni si possano notare segni di
'utilizzazione', come ad esempio l'Introduzione
alla sociologia della musica di
T. W. Adorno ( Einaudi 1971).
A
differenza dei libri, la collezione di dischi di Alberto Moravia, che
conta alcune centinaia di titoli, è assai varia e rappresenta in
qualche modo la summa di conoscenze musicali di un uomo di cultura,
seppure non interessato specificamente alla musica.
Vi
compaiono tutti i grandi autori, da quelli strumentali del
Sei-Settecento italiano (fra le tante, è presente una registrazione
Archiv de L'estro
Armonico'di
Vivaldi, con la dedica di Elsa Morante, regalo di compleanno per
Moravia, con la data 28 novembre 1965) a Beethoven (presente con
tutte le
Sinfonie
e con il Fidelio
diretto
da Fricsay,
ma
anche con i Concerti per pianoforte, Quartetti e Sonate per
pianoforte);
e poi Mozart ( Il
flauto
magico, Le nozze di Figaro, Il ratto dal serraglio, Don Giovanni,
Concerti
per pianoforte, Sinfonie, Serenate, Divertimenti); Bach ( Musica
strumentale, Suite per violoncello;
Passione secondo Matteo, Messa in si Minore, Brandeburghesi,
Clavicembalo ben temperato);
Schubert (Musica da camera), ed anche Mahler (
Sinfonie,
dirette da Haitink; Das
Lied von der Erde,
direttore Klemperer; Kindertotenlieder,
Karajan). Wagner è del tutto assente, ad eccezione di una selezione
di Walkiria,
Bruno Walter direttore; mentre numerose le presenze dei grandi
operisti italiani, da Rossini ( Semiramide,
Il barbiere di Siviglia, Ouvertures,
sulla
cui copertina compaiono le note illustrative scritte da Moravia,
Petite messe solennelle) a
Verdi ( La
Traviata, Rigoletto, Il Trovatore, Ernani, Luisa Miller, Macbeth, Un
ballo in maschera, Messa da requiem,
diretta da Toscanini); Donizetti e Bellini con appena un titolo
ciascuno (Don
Pasquale
e Norma)
mentre
di Puccini nessuno.
Ed
allo stesso tempo colpisce il fatto che nella discoteca di Moravia
trovassero posto opere moderne od antiche che non appartengono certo
al grande repertorio, e che sono solitamente poco presenti se non
del tutto assenti nella programmazione delle istituzioni musicali. Ad
esempio: l'Orfeo
e i Vespri (1610)
di Monteverdi, Jephte
di Carissimi, Boris
Godounov di
Musorgksy, Orfeo
e Euridice
di Gluck, Pelléas
et Melisande
di Debussy, Lulu
e Wozzeck
di Berg, Petruska,
Sinfonia di salmi, Histoire du soldat, Il bacio della fata, Carriera
del libertino
di Strawinsky; di Richard Strauss Elektra;
Pierrot lunaire di
Schoenberg e perfino Il
prigioniero
di Luigi Dallapiccola, come anche Le
marteau sans maitre
di Boulez ed alcune opere sperimentali di Stockhausen.
Per
l'opera barocca, invece, di Pergolesi figurano nella discoteca La
serva padrona, Lo frate 'nnamorato, Stabat mater; di
Cimarosa, Matrimonio
segreto ecc...
Agli
ultimi anni di vita di Moravia appartengono acquisti discografici,
pochissimi in verità, che potrebbero attestare altri nuovi,
sopraggiunti interessi musicali, forse indotti, o suggeriti dalla
sua ultima compagna, Carmen Llera, che sposò nel 1986; o, forse
nient'altro che semplici segni del suo passaggio da casa Moravia,
come Concert
di Keith Jarrett (1982), Miles
Davis
(1988) e le musiche di Peter Gabriel per il film di Scorsese,
L'ultima
tentazione di Gesù,
1989.
C'è
infine un ultimo capitolo che merita di essere segnalato nella
discoteca dello scrittore, ed è da mettere in diretta relazione con
i suoi numerosi viaggi in terre lontane, e cioè quello della musica
etnica, presente con registrazioni musicali di popolazioni africane
od asiatiche.
Da
quegli stessi viaggi proviene anche l'unico strumento musicale,
piccolo di dimensioni, della famiglia degli 'idiofoni', uno
strumento 'a pizzico' (dal nome Mbira
o
Sansa,
in uso presso i Banti, ma anche presso altre popolazioni di quel
continente) presente nella casa dello scrittore. Lo strumento é di
origine africana (Africa sub-sahariana; della prima metà del sec.
XX), accompagnava la danza e di esso si legge in Appunti
di viaggio,
pubblicati postumi nel 1999, pag.118).
Moravia
scrittore di musica
Caro
Pianoforte
Breve
riflessione sulla musica, destinata al mensile Piano
Time
e pubblicata sul numero di gennaio del 1984 della ben nota rivista
musicale ( anno II, n.10, gennaio 1984) nella rubrica Caro
pianoforte
- una lettera immaginaria inviata al pianoforte, cui la rivista era
principalmente dedicata - alla quale contribuirono numerosi
scrittori e poeti italiani. Il Caro
pianoforte
di Moravia fu fornito direttamente da Andrea Andermann, il quale
dietro personale sollecitazione della direzione di Piano
Time,
l'aveva richiesto allo scrittore. Andermann lo consegnò alla
redazione su foglio dattiloscritto con qualche correzione a mano.
Rileggendolo
oggi, dopo trent'anni, viene da rilevare che il testo di Moravia per
Caro
pianoforte
, benché forse il più breve fra tutti, ed uno dei pochissimi che
non rispettasse le modalità 'epistolari' alle quali Caro
pianoforte si
ispirava, è forse fra i più acuti e personali apparsi nella
rubrica.
Ecco
il testo, che riproduciamo integralmente.
“
Il
mio rapporto con la musica è duplice, di ascolto e di riflessione.
Si dirà che questo avviene con tutte le arti. E invece no. Nella
musica c'è un potere di suggestione e di identificazione, almeno per
me, che esclude una contemporanea riflessione critica la quale viene
invece dopo, a musica ascoltata.
Ne
segue che per un visivo come me, ascoltare musica è in qualche modo
come sospendere in parte e del tutto le facoltà razionali che invece
restano sveglie e attive nella contemplazione della pittura.
Tutto
questo spiega forse perchè esiste la melomania e non la pitturamania
e la letteraturamania. E spiega pure un altro mio particolare
fenomeno: che mi è sempre piuttosto difficile trovare il momento
adatto per ascoltare musica. Adatto dal punto di vista esistenziale.
In
quale momento della vita bisogna ascoltare Bach e in quale Beethoven,
in quale Strawinsky e in quale Ravel, in quale Wagner e in quale
Verdi?
Questo
per dire che la musica è un'arte diversa da tutte le altre i cui
confini con la nostra sensibilità non sono troppo visibili”.
Il
melodramma
Di
carattere e tono storico-saggistico è questo testo apparso sulla
Gazzetta
del
Popolo,
il 9
novembre 1934 (ripreso nello stesso anno da La
rassegna musicale),
con il semplice titolo Il
melodramma,
e che va considerato il primo testo di contenuto musicale di un ancor
giovane scrittore, ventisettenne, che all'epoca poteva godere già
del successo de Gli
indifferenti,
suo romanzo d'esordio, uscito nel 1929. Questo testo, di contenuto
musicale, non è stato mai più ripubblicato integralmente da allora,
prima della recente ripresa sul bimestrale Music@,
(Anno
V, n.19, luglio/agosto 2010 ).
Il melodramma, scrive Moravia, è uno dei fiori 'più
delicati e perituri' del Settecento: “delicato perché il
melodramma, caso più unico che raro, è la combinazione equilibrata
e feconda di più arti; perituro perché questa combinazione fu
legata fin da principio ad una società e ad una maniera di
intendere la vita affatto temporanee e contingenti”. E caso ancor
più raro, il melodramma “più che un genere d'arte con leggi
proprie ed evoluzione indipendente, come per esempio la commedia, fu
un crocevia: le strade maestre del teatro, della musica, della poesia
e del costume, venendo ciascuna da lontananze divergenti, si
incrociarono un momento e produssero l'Opera”. E, di conseguenza,
annota lo scrittore, “era fatale che dovessero separarsi di nuovo,
dopo eccessi e infatuazioni che le avrebbero impoverite e ridotte a
sentieri incerti e pericolosi”.
Il
Settecento, per regalarci l'Opera, seppe trasformare, rinnovandolo,
quello che gli era toccato in sorte del secolo precedente, e cioè,
“una poesia artificiosa e aggraziata nella quale la parola tendeva
ad evadere da ogni significato e a diventare musica; un teatro in cui
il dramma allontanatosi dagli impegni della virtù e della violenza
delle passioni non riusciva più che a mettere concetti logici in
bocca a personaggi togati coturnati ed esanimi: una musica virtuosa
fatta per divertire i banchetti e le corti”, “ un mondo sterile,
tutta forma e niente sostanza, difficilmente rinnovabile” che il
Settecento, al contrario, seppe rinnovare. Perché il Settecento,
“contrariamente alla leggenda, non fu un secolo frivolo e
decrepito, bensì robustissimo e giovanile”. Ed aggiunge una
annotazione: “ Leopardi misurava la forza delle civiltà dalla
capacità alle illusioni. E gli uomini del settecento... erano pieni
di illusioni gentilissime e vaghissime”.
Gli
ingredienti del melodramma si ritrovano tutti nel Candide
di
Voltaire.
Ma
il melodramma ha molti nemici che lo “accusano di falsità e
incoerenza. Tanto è vero che in tempi insinceri e veramente propizi
a tutte le falsità, la parola melodramma è passata a significare un
genere di situazione nella quale le espressioni tragiche e
magniloquenti coprano, senza nasconderla, la più meschina delle
realtà. Ma in origine il melodramma fu invece una cosa seria, almeno
altrettanto seria che il cinema moderno”. Leggansi quindi
altrimenti “ le situazioni inverosimili, gli stracci e i personaggi
irreali che stavano lì a significare la potenza di un'immaginazione
liberissima da ogni freno materiale e avida di armonie sovrumane e
meravigliose...”. Fu proprio tale immaginazione a far fiorire i
sentimenti più delicati che la musica e il canto “serissimi e
verissimi” seppero esprimere. Perché anche quando i personaggi e
gli ambienti erano falsi e inumani, come nella commedia, “gli
accenti dell'orchestra e dei cantanti andavano dritti al cuore degli
spettatori, rapivano i loro animi”. Non meravigli, perciò,
esemplifica Moravia, che “ vicende assurde come quelle del Flauto
magico,
secchi intrighi come quelli del Matrimonio
segreto
riuscivano a commuovere la gente più raziocinante e artificiale
che sia mai esistita al mondo”.
Per
esistere, perciò, al melodramma occorreva “un mondo convenzionale
e artificioso, non mitico e allegorico, di un'ispirazione
sentimentale e giocosa, non morale e filosofica, di una concezione
architettonica e sociale, non lirica e soggettiva”. E così riuscì
a durare per il tutto il Settecento e fin quasi a tutto l'Ottocento.
Ma “quando, crollata la società che l'aveva prodotto, si volle
adeguarlo ai tempi nuovi e renderlo interprete di sentimenti che
sotto l'apparenza di una maggiore complessità e vastità celavano
una povertà, una rozzezza, un'intenzionalità effettive,
invece di rinnovarlo si ammazzò. Tale fu il risultato
della riforma wagneriana”, conclude Moravia.
Nel 1964, richiesto
dalla rivista Sipario
(
Anno
1964,
n. 224) che al melodramma dedicava un intero numero, di un breve
parere sul ' Perchè l'opera oggi', Moravia tornò a parlarne ma
semplicemente per sottolineare che l'opera lirica ha ancora ragioni
per esistere come altre grandi produzioni teatrali del passato:
”Per me l'opera
lirica ha il valore che poteva avere cento o duecent'anni or sono. E'
vero che sembra essere morta o quasi, dal momento che si scrivono e
si rappresentano pochissime opere liriche nuove oggi; ma è anche
vero che la particolare esperienza culturale e artistica dell'opera
lirica è sempre quella e non è cambiata ed è insostituibile e
inconfondibile. Con questo voglio dire che l'opera ha le sue ragioni
d'esistenza eterne e sempreverdi come la tragedia greca o il dramma
elisabettiano; e che chiunque riesca a 'vivere' a fondo queste
ragioni, non può non trovarsi a suo agio nell'atmosfera dell'opera
lirica”.
Festival di Spoleto
Fedele d'Amico in un
resoconto sulla prima edizione del Festival
dei due Mondi di
Spoleto, fondato da Giancarlo Menotti, segnalava l'insolita presenza
sul 'numero unico' di quella prima edizione, di uno scritto di
Moravia.“In Italia - scriveva il noto critico in un memorabile
acutissimo articolo del luglio1958 - nessun maggio e nessun autunno
era mai riuscito a mobilitare tanti intellettuali, tante contesse,
tanta stampa. L'articolo introduttivo al suo 'numero unico' è stato
dettato da Alberto Moravia in persona”. Quello scritto,
dimenticato e sfuggito ai solerti curatori della sua opera, riusciamo
a trovarlo bussando a 'Casa Menotti' - l'istituzione/archivio voluta
e sostenuta alla famiglia Monini, l'unica che conserva oggi la
memoria del Festival di Menotti, ospitata nella casa del musicista
che si affaccia su Piazza del Duomo; mentre l'associazione e la
fondazione che, dopo l'uscita di scena dei Menotti, gestiscono il
festival non hanno archivio.
L'articolo, cui si
riferisce d'Amico, fu scritto da Moravia, su invito del musicista
fondatore, e pubblicato con il titolo Le
arti a Spoleto,
come apertura del 'numero unico' - introvabile - della prima edizione
del festival.
Pur non trattandosi di un testo di argomento musicale,
ci è parso utile includerlo fra quelli musicali, dandone
sommariamente notizia, perché si riferisce ad un festival, fra i più
antichi d'Italia, che ha inciso sulla storia e sul costume musicali
del nostro Paese.
Moravia esalta la provincia dove sono ancora possibili
simili imprese e non per ragioni esclusivamente turistiche, ma
perché, nonostante la industrializzazione, le piccole città sedi un
tempo di splendide corti, offrono alle arti una cornice di
grandissimo interesse. La provincia che nell'Ottocento fu un luogo
dove “la vita della cultura giungeva di riflesso, debolmente e
indirettamente, e sempre con grande ritardo”...verso il principio
di questo secolo ritrova la “nostalgia delle corti, ossia del
mecenatismo illuminato e aristocratico, risveglia le piccole città
con i festival e le altre celebrazioni artistiche”, diventando
improvvisamente “in più e più luoghi altrettanto moderna che la
metropoli, anzi più moderna perché lontana dalle folle, più
rarefatta socialmente e più selezionata artisticamente... La società
della metropoli si dà convegno in provincia”.
Moravia esalta le attrazioni paesaggistiche,
architettoniche, perfino climatiche che solitamente formano
“l'incanto delle antiche città medievali, e che Spoleto può
offrirlo in soprammercato agli spettacoli del festival”. E
sottolinea che Menotti scegliendo Spoleto ha fatto conto su queste
attrazioni “profondamente intime ed esclusivamente psicologiche dei
luoghi lontani dalla vita moderna, conservati intatti dalla gelosia
della storia, i quali chiedono al viaggiatore soltanto una
disposizione d'animo contemplativa”.
Per concludere:
“Spoleto certamente non si aspettava di diventare sede di un
festival per opera di Giancarlo Menotti; lo stesso Menotti e coloro
che accoglieranno il suo invito non si aspettavano fino a poco tempo
fa di trovarsi a Spoleto per un festival. Da queste due situazioni
impreviste e sorprendenti senza dubbio scaturirà il successo
dell'impresa”.
A margine, una
annotazione. Moravia invitato da Menotti a scrivere il saggio di
apertura per il 'numero unico' del Festival di Spoleto, alla prima
edizione, in seguito non fu mai invitato a rappresentarvi sue opere,
nonostante che diverse ormai si erano viste sui palcoscenici
italiani. Ad eccezione di un solo caso, e per iniziativa diretta di
Enzo Siciliano, il quale, nel 1985, assieme ad un suo lavoro, ne
presentò altri tre, rispettivamente di Sciascia, Ginzburg e
Moravia ( che scrisse per l'occasione L'angelo
dell'informazione),
sotto il titolo ' Album teatrale italiano'.
(Le
arti a Spoleto.
Il testo integrale in Appendice)
Gioachino
Rossini
Nel
1959 la RCA americana (Radio Corporation of America) pubblicò un LP
(LM-2318) contenente la registrazione di alcune 'Ouvertures' delle
opere di Rossini ( La
Scala di Seta, Il signor Bruschino, Il barbiere di Siviglia, La gazza
ladra
e
La cenerentola),
dal titolo Rossini
Overtures
con la Chicago Symphony diretta da Fritz Reiner. Le note che
accompagnavano la registrazione, riprodotte sulla custodia del disco
recavano la firma di Alberto Moravia (Rossini
by Alberto Moravia,
in lingua inglese, nella traduzione di Anthony Winner), del quale,
poi, in calce si forniva qualche cenno biografico.
Al
Gabinetto Vieusseux di Firenze, di quelle note esiste la versione in
lingua italiana, manoscritta, da ritenersi quella originale, che il
Fondo Moravia ha fornito e, dietro autorizzazione, è stato
pubblicato già su Music@
(
Anno VI, novembre/ dicembre 2011, n. 25. Bimestrale edito dal
Conservatorio 'Casella' dell'Aquila), con il titolo, non originale,
Rossini
il pigro,
giacché una 'singolare' pigrizia Moravia segnala nel ritmo di
produzione del musicista.
“Nel
carattere di Gioacchino Rossini - esordisce Moravia - c'è una
contraddizione significativa e, a ben guardare, soltanto apparente:
il genio musicale italiano più estroso e brillante, più incalzante,
più gaio e insomma più mobile ed attivo fu al tempo stesso un uomo
di profonda ed incorreggibile pigrizia”. In occasione di questa
incisione, prosegue Moravia, “verrebbe voglia di spiegare il suo
genio in termini psicologici con questa famosa pigrizia, ma
estendendone il significato fino a farne una dimensione addirittura
dello spirito”. Che è ciò che poi fa. La pigrizia di Rossini, a
differenza di altre presenti in letteratura (Moravia cita quella di
Oblomov), non è simbolica, ma ”del tutto reale... quella stessa
della natura materna profonda e misteriosa che non fa salti, ha
bisogno di lunghi riposi e fuori dall'oscurità del letargo fa
esplodere a intervalli le più luminose e brillanti primavere... A
questa pigrizia tutta terrestre... si deve il miracolo preromantico
della musica di Rossini, impetuosa, limpida, incalzante e allegra
come i torrenti della primavera”. E gli errori e le opere non
riuscite come si conciliano con la pigrizia del compositore che se
fosse stato buon calcolatore avrebbe fatto solo cose 'necessarie e
sicure', mentre egli, nel corso della sua carriera, fu “attivo,
anzi attivissimo che non ha paura di sbagliare, e sbaglia assai
spesso”? Nota Moravia: “ C'è insomma in Rossini la pigrizia
generosa della natura stessa la quale attraverso successivi abbozzi
tentativi e errori riesce ogni tanto ad esprimersi in qualche
creatura perfetta e ineffabile. In questo Rossini assomiglia al suo
contemporaneo Stendhal, negligente e trascurato ma sempre personale e
affascinante anche nelle sue opere mancate e capace alla fine di
scrivere un capolavoro in quaranta giorni”.
Ma
allora di quale singolare pigrizia si tratta? Di “una specie di
abbandono alle qualità naturali, una pigrizia tutta mentale e
intellettuale, disposta ad aspettare senza impazienza il momento
dell'ispirazione e intanto generosamente fertile in errori e prove
mancate”. Il virtuosismo che in Rossini, spiega Moravia, è
“surrogato dell'ispirazione che serve a mantenere alto il nome
anche nei momenti di opacità”. A differenza di certi moderni nei
quali il virtuosismo vuole addirittura sostituirla, l'ispirazione.
E'
dalla sua pigrizia che scaturisce “l'umorismo rossiniano nel quale
si esprime una concezione pigra dell'umanità, ossia indulgente,
gaia, leggera, prova di ambizioni etiche o filosofiche ma
supremamente vitale”. Per ribadire, nel contempo, che anche
l'umorismo di Rossini “è l'umorismo stesso della natura, che è
allegria della vita nel momento del suo massimo rigoglio”.
“Le
Ouvertures di Rossini sono piene di meravigliose promesse: poi il
sipario si alza sulla nostra ammirazione e la nostra curiosità”,
conclude Moravia.
Giuseppe
Verdi
Nel
1963, quando ricorrevano i centocinquant'anni dalla nascita di
Giuseppe Verdi (e di Richard Wagner, ndr), Moravia scrisse sul grande
musicista italiano un breve saggio, intitolandolo La
“volgarità” di Giuseppe Verdi.
Di esso non conosciamo al momento la primitiva destinazione;
sappiamo solo che venne pubblicato l'anno appresso, in una raccolta
di saggi ( in L'uomo
come fine e altri saggi,
Bompiani 1964).
Moravia
esordisce stigmatizzando la particolarità dell'ottocento italiano,
secolo 'borghese', ma di una borghesia che, a differenza di quella
di altri Stati (Francia, Inghilterra), era “paurosa, prudente,
gretta, la quale strisciava davanti ai nobili e si prosternava ai
piedi del clero”. E, del resto, anche il nostro Risorgimento, fu
cosa meschina in Italia, specie se lo si confronta con gli altri
paesi ed ancor più “con la grandiosità del passato italiano”. E
giù, con l'accusa: “gli uomini del Risorgimento sono dei borghesi
di provincia nei quali nazionalismo e liberismo mescolati producono
una miscela a gradazione alcolica molto bassa. Con le loro ebbrezze
romantiche essi preludono alle sbornie retoriche del fascismo, alla
camomilla piccolo borghese democristiana”.
Tale
situazione è esemplificata anche dall'architettura cittadina della
provincia italiana, dove “accanto ai palazzi di pietra e di ferro
medievali, alle gigantesche fabbriche del rinascimento, ai casoni del
settecento, ecco, si annidano le casette in stile neoclassico
dell'ottocento borghese, meschine, fredde, ristrette, progettate, si
direbbe, dai maestri di disegno delle scuole elementari”. Tale
panorama dà la precisa sensazione che l'Italia ha mutato i suoi
“vizi grandiosi e le sue virtù poco convenzionali in un decoro
nel quale tutto, dalla religione all'arte, dalla morale alla
letteratura, è ridotto al livello di una società timorata e
provinciale”. Ma non è raro il caso che quei grandi palazzi
nobiliari siano oggi abitati da artigiani ed operai, che ne rivelano
la decadenza. Eppure fra i popolani che abitano oggi quei palazzi
decaduti e i nobili che li fecero costruire, c'è un “rapporto
misterioso ma indubitabile”; che invece è del tutto assente
laddove quei palazzi, restaurati, sono stati suddivisi in tanti
piccoli appartamenti per borghesi in cerca di ambienti 'storici'.
E
Giuseppe Verdi? In un simile panorama di provinciale pochezza, Verdi
“rassomiglia un poco alla presenza di quei palazzi illustri ma
decaduti nel centro delle città imborghesite della nostra
provincia”. E per questo, in un secolo meschino e povero, la sua
personalità “sanguigna, passionale, robusta, esplosiva, appare
incredibile”, al punto che, paragonato ad altri uomini
dell'Ottocento, egli risulti “non soltanto un'eccezione ma anche un
anacronismo”.
Moravia, di cui si apprezza, qui come in altri casi, la
precisa volontà che definiremmo didattica ed educativa, cita i casi
di altre due eminenti personalità del medesimo secolo, di artisti
non certo inferiori a Verdi: Manzoni e Leopardi, che “vengono dalla
classe dirigente italiana, ambedue nobili di provincia”, mentre il
Verdi è di origine contadina.
Manzoni, della società cui appartiene accetta ed
esprime la meschinità; Leopardi la respinge, ma ambedue “portano
il segno di ciò che è stato accettato o respinto”: di prudenza in
Manzoni, di disperazione in Leopardi. Ambedue, infine, sono artisti
'moderni' ossia “perfettamente inseriti nella cultura della loro
epoca... due artisti di gusto impeccabile, rigoroso, aristocratico”.
Niente di tutto questo in Verdi “che, di origine, non è né
nobile, né borghese ma contadino”. L'arte di Verdi “esuberante,
esplosiva, passionale, non è mortificata da alcuna prudenza né
sviata da alcuna rivolta; tutt'al più è sorretta da una
eccezionale, animalesca astuzia artigiana”. E, proseguendo nel
paragone con gli altri due grandi artisti suoi contemporanei,
conclude: Verdi è “volgare”. “E detta 'volgarità' è
l'aspetto più misterioso e più problematico” della sua
personalità.
Nella
sua intenzione di spiegare il concetto di 'volgarità' in Verdi,
Moravia prende ad esempio due altri grandi artisti, nel caso francesi
, come Stendhal e Balzac; il primo non è mai volgare, il secondo lo
è. Ma questo ha una spiegazione: “ fra l'uno e l'altro c'è stato
un rivolgimento sociale profondo e conseguentemente un cambiamento di
stile”, che in Italia non ci fu.
La
'volgarità' di Verdi - prosegue Moravia - non somiglia neppure alla
volgarità dei romantici, “per esempio di un Hugo” e ne spiega le
ragioni, fornendo una serie ricchissima ed articolata di elementi.
Verdi
si distingue anche dai romantici, perché “ non crede nella storia
né come ricostruzione né come evasione...i suoi personaggi sono
fuori della storia anche se sono in 'costume'. La concezione della
storia di Verdi è immobile, statica, umanistica, plutarchina. E
infatti i personaggi di Verdi ci interessano tutt'oggi, appunto
perché sono prima di tutto uomini e poi uomini del medioevo e del
rinascimento”.
Cosa
è, dunque, questa 'volgarità' di Verdi, si chiede Moravia: ”è
il palazzo illustre e antico andato in malora e abitato ormai da
artigiani e operai... è la concezione umanistica del nostro
rinascimento abbandonata e tradita dalla classe dirigente italiana
dopo la controriforma, ma conservata dalle plebi e scaduta a
folklore”. Così Moravia spiega la differenza con Manzoni e
Leopardi e la somiglianza con “Garibaldi, anche lui uomo di altri
tempi; e le analogie fra lui e Shakespeare”.
Il
parallelo con Shakespeare, assai ricorrente, Moravia lo trova giusto,
e lo spiega:
“Ritroviamo
in ambedue la stessa idea dell'uomo, la stessa prodigiosa conoscenza
del cuore umano, lo stesso amore della vita, la stessa mirabile
capacità di scindersi, scomparire dietro innumerevoli personaggi, di
disarticolare la propria autobiografia in mille esistenze fino a
renderla irriconoscibile”. Se questi sono i punti di contatto fra i
due, non va taciuta anche qualche differenza, di rilievo. Shakespeare
non è mai volgare, mentre Verdi resta sempre un plebeo; Shakespeare
è un uomo del suo tempo, esattamente come Manzoni e Leopardi; e il
“genere di bellezza che egli crea non ha niente di popolare, di
rustico, di ingenuo: è una bellezza aristocratica e colta”.
Verdi
è un plebeo nel quale “sopravvive, con modi folkloristici, la
cultura di un'epoca defunta”, quella del rinascimento che egli
riceve non dalla borghesia, ma dalle plebi della valle del Po, le
quali ancora oggi conservano “nella loro vitalità sanguigna ed
esuberante, un riflesso dell'antica Italia di prima della
Controriforma: figuriamoci al tempo di Verdi”. E più precisamente:
“ Verdi è parente stretto dei contadini che sapevano a memoria le
ottave dell'Ariosto, dei gondolieri che recitavano le strofe del
Tasso. Con lui si spegne la grande Italia e ciò che l'Italia ha dato
di meglio e di più suo al mondo: l'umanesimo”. Verdi, perciò, è
il “nostro Shakespeare folkloristico, plebeo, contadino, ossia
'volgare'”.
Riportando
poi una affermazione attribuita a Stravinskij: avrei dato gran parte
della mia opera pur di aver scritto la
donna è mobile
verdiana, Moravia riafferma il parallelo con Shakespeare: “per la
collocazione fulminea e la forza evocativa, quelle note equivalgono
al soliloquio famoso di Macbeth”. E simili cose è inutile cercarle
presso i romantici dell'Ottocento che pur aspirando a tanto, non ci
riuscirono mai.
Perché
allora tanto interesse oggi nei riguardi di Verdi, 'uomo del
Rinascimento', come lo definisce Moravia? Il suo ritorno oggi “è
basato sopra un fondamentale malinteso: quello di ricercarne e
rivalutarne la modernità. Verdi, conclude, non è moderno, affatto;
era già un anacronismo nell'ottocento, lo è a maggior ragione oggi.
La sua attualità è quella della poesia; ma parlare di un suo
ritorno fa un curioso effetto; sarebbe, appunto, come parlare di un
ritorno di Shakespeare”.
Giacomo
Puccini
Nel
1976 Enzo Siciliano, amico fraterno di Moravia ed anche suo
collaboratore nella rivista Nuovi
argomenti dal
1966, pubblica presso Rizzoli una biografia di Giacomo Puccini.
Alberto Moravia la recensisce sul 'Corriere della sera', in data 12
dicembre. Cortesia verso l'amico e l'editore, o reale interesse
verso il musicista, magari spinto dalla singolare angolazione dalla
quale Siciliano affrontava l'argomento? Semplice cortesia verso
l'amico, siamo indotti a pensare, a voler giudicare dalla estrema
scarsità di testi di argomento musicali di Moravia ( il precedente,
su Giuseppe Verdi, risale a 13 anni prima). Tuttavia Moravia volge la
recensione su un terreno, che ha radici ovviamente nella biografia di
Siciliano, e che è per lui di particolare interesse - come
suggerisce già il titolo del suo articolo Giacomo
Puccini o la nevrosi borghese.
Il
tema della borghesia, Moravia l'aveva già affrontato sia nel saggio
dedicato al melodramma ( Il
melodramma,
1934), sia in quello verdiano ('La
“volgarità” di Giuseppe Verdi',
1963). Ora, cogliendo il suggerimento della biografia di Siciliano,
torna sul tema della 'consapevolezza culturale degli artisti', per
approfondirlo - al punto da dedicargli buona parte della recensione
- premettendo che tiene fuori da detta analisi gli scrittori, i quali
giocando con la parola che illustra un pensiero, non possono esserne
estranei del tutto; ma con una attenzione particolare agli artisti
italiani che, pur appartenenti ad una “cultura di grande
tradizione”, per il fatto che essa è ormai “scontata e
inoperante”, mostrano “consapevolezza sempre più scarsa”.
Annota Moravia che
tale constatazione risulta evidente e perciò lamentiamo la
'mediocrità' di un artista, qual che sia il campo della sua attività
dalla pittura alla musica, quando si cimenta con la parola, come nel
caso di Puccini: “artista di straordinaria finezza e complessità,
molto moderno anzi attuale, nel quale, accanto all'espressione della
ferale e struggente insufficienza vitale che è propria del
decandentismo europeo e che lo mette allo stesso livello di un Alban
Berg, di un Debussy, di un Ravel, si accompagna, come dice Siciliano,
l'appartenenza ad 'un ceto che ancora non sa quale sia il suo futuro:
non più legato alle proprie origini contadine o mercantili: non è
ancora borghesia e forse non lo sarà mai: è un grumo di esigenze e
di velleità disposte a tutte le avventure dell'emigrazione come
della politica'...un artista che sembrerebbe dotato come pochi per
prendere coscienza di se stesso e del mondo in cui si trova a vivere.
E invece non è così”.
E'
il cuore del problema suscitato da Siciliano, condiviso in pieno da
Moravia. Nel Puccini uomo tale consapevolezza manca del tutto. Ecco
perché senza la musica egli appare “come un piccolo borghese
toscano... malato della malattia del secolo ma non lo sa”, come
buona parte dei piccolo borghesi italiani; e la esprime in “maniera
'sentimentale' cioè appunto con un massimo di comunicatività ed un
minimo di consapevolezza culturale, come qualche cosa di privato e di
meramente individuale” . Più precisamente, “non tanto nei
contenuti che sono per lo più deplorevoli (Siciliano: “Puccini si
è impantanato nel peggior romanzo per signorine”), quanto nella
resa formale, perché Puccini, come non si stanca di dirci Siciliano,
è un musicista molto moderno, cioè inquietante ed inquieto, capace
di
trasmutare
tecnicamente in melodia le rimozioni, le inibizioni, i blocchi della
nevrosi”.
Puccini vuole, come
ogni artista, 'commuovere', come voleva commuovere Verdi e tutti gli
artisti dell'Opera italiana; ma lui vi aggiunge la consapevolezza di
essere
“l'ultimo
musicista ad esprimersi con l'Opera”.
Tutto ciò non
spiega ancora perché il musicista abbia espresso nelle sue opere
tante cose di cui l'uomo non era consapevole. Perché?
Tentiamo di
spiegarlo con una ipotesi esterna all'arte - scrive Moravia, il quale
prende le mosse da una affermazione di Siciliano. “Puccini, con
tutta la su tecnica, è stato un oggetto e non un soggetto della
storia”. Come del resto molti artisti suoi contemporanei, dai più
grandi: Wagner e D'Annunzio, ai meno grandi: Boecklin e lo stesso
Puccini. Cosa si intende per 'oggetto' e non 'soggetto' della
storia? Spiega Moravia “vuol dire, secondo me, essere onirico,
cioè vivere in un sogno determinato da inconsce pulsioni sociali e
culturali. Gli artisti oggetti della storia sognano anche quando
credono di tenere gli occhi bene aperti... costretti dalle
circostanze a sognare ad occhi aperti delle cose che non stanno in
piedi se prese alla lettera...”. E' stato sempre così? Artisti
oggetti della storia sono esistiti in tutte le epoche, perfino nel
medioevo? Sì, ma con la sostanziale differenza che i 'sogni' degli
artisti medievali “stanno in piedi” benissimo. All'epoca di
Puccini non sognano solo gli artisti, sognano anche i politici e le
masse. Altrimenti come altro spiegare il fascismo (un sogno romano),
il nazismo (un sogno ariano), il franchismo (un sogno
controriformistico), sogni culturalmente deteriori?
“Alla
luce di questa forse parziale ma non arbitraria interpretazione,
Puccini si rivela un borghese italiano proprio qualsiasi, cioè come
ce n'erano tanti nella categoria dei cosiddetti 'professionisti'...
vive la sua nevrosi dentro i limiti angusti di una professione
liberale, e così approda, inevitabilmente, in maniera inconsapevole,
anche se sinceramente vissuta e sofferta, alla disperazione
borghese”. “ La cui originalità consiste soprattutto nell'essere
incomunicabile”. Cos'altro vuol dire e può significare il
“prosciugamento della vocalità” in Puccini, se non la
incomunicabilità e afasia borghesi che esprimono oggi artisti come
Antonioni e Bergman, nel cinema?
Moravia
conclude rilevando libertà e felicità della biografia/saggio
dell'amico che derivano a Siciliano dall'oggetto, lontano dalle sue
più assidue preoccupazioni, ed anche dalla novità, per lo
studioso, e cioè: “ l'esplorazione illuminante dell'oscuro
rapporto nevrotico tra Puccini uomo e Puccini artista”.
Varietà
Nella
produzione di Alberto Moravia, risalente agli anni trenta e quaranta,
troviamo due scritti recanti il medesimo titolo Varietà,
uno dei quali, uscito su Documento,
era firmato Pseudo:
nome di fantasia con cui si firmava per non incorrere nella censura
del regime fascista, che gli aveva proibito di continuare a scrivere
sui giornali (un secondo nome di fantasia che ricorre, sempre su
Documento,
era Tobia
Merlo).
Il
primo, pubblicato sul quotidiano Gazzetta
del Popolo
(19 aprile 1935); il secondo sul mensile Documento
( Anno
II, n. 11-12, novembre/dicembre, 1942).
I due scritti, sia pure identici nel titolo ed anche in numerosi
passaggi, in altri altrettanto numerosi si allontanano, risultando
due scritti distinti e differenti, e perciò quello apparso su
Documento
- cui facciamo riferimento e che abbiamo letto attentamente - non è
semplice variante del precedente.
Tale
saggio, mai pubblicato in seguito nelle varie raccolte di scritti
dello scrittore edite da Bompiani, è stato ripubblicato in epoca
recente, al cadere del centenario della nascita di Moravia, dal
bimestrale Music@
(
Anno III, n. 8, maggio/giugno 2008)
e, prima, dal bimestrale Nuova
Storia contemporanea,
come appendice di un lungo saggio, dal titolo Moravia
e il ' Documento' mensile
( Anno
XII, n.1 gennaio/febbraio, 2008).
In questo scritto
che si riferisce ad un genere di spettacolo che nella musica ha uno
degli elementi importanti, Moravia non parla mai della musica,
ritenendola - nelle forme più comuni che lo spettacolo ha assunto
nel tempo - di importanza secondaria. Si sofferma, invece,
sull'attrazione principale di detto spettacolo: le danze, can can in
cima, e le ballerine, le cosiddette girls. Le quali, nel mondo
anglosassone dove ebbe origine, con il nome di 'music hall', quando
ebbe attraversata la Manica e si chiamò 'café concert', trasformò
le girls da “battaglione di ragazze bionde, dai visi indifferenti,
dai petti sforniti e dalla magre gambe bianche” quali erano in
principio, nella ”vittoria di una femminilità esperta ed adulta”
che si esprimeva soprattutto nel can can.
Moravia,
in questa sua precisa ricognizione sulle mutazioni intervenute nel
genere di spettacolo, una volta smesse le sembianze nazionali,
anglosassone o francese, per assumerne altre internazionali ed anche
diverso nome, 'varietà', si sofferma a delinearne il costume ed
anche le tipiche atmosfere che si respirano nei luoghi che lo
ospitano. La musica, divenuta secondaria, in questo quadro e secondo
questa prospettiva, risulta del tutto assente dalla sua analisi.
Che
si conclude, notando che il favore di cui gode oggi il varietà è
testimoniato anche dalla quantità di film sull'argomento, a
cominciare da Varieté,
film tedesco di Jannings. Mentre, invece, la sua stagione d'oro, per
“nobiltà di 'contenuto artistico' risale ai primi decenni del
secolo”, e lì si è conclusa.
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