ALBERTO MORAVIA. IV di Pietro Acquafredda
Al consueto rituale
celebrativo degli anniversari non poteva sfuggire il recente
centenario della nascita di Alberto Moravia
(Roma, 28 novembre
1907-1990). Convegni, mostre, articoli sui maggiori quotidiani e
settimanali, riedizioni ‘critiche’ delle sue opere, anticipate
negli ultimi anni da alcune raccolte di racconti sparsi, e
l’immancabile inedito, tenuto in caldo fino all’atteso momento
celebrativo. Fra i giornali, il ‘Corriere della Sera’ è quello
che ha rivelato a più riprese, in questi ultimi mesi, un’anima
‘moraviana’. Ha dato, per primo, notizia della scoperta e dell’
imminente uscita del romanzo ‘I due amici’ per i tipi di
Bompiani, anticipandone qualche brandello e, subito dopo, ha
ospitato un intervento dello storico Luciano Canfora ( Corriere della
Sera, 16 ottobre 2007), il quale invitava i lettori a ricercare le
origini teoriche di quel romanzo riscoperto, in un libriccino di
Moravia, stampato nel 1944 da ‘Libraio Documento Editore’, dal
titolo ‘La speranza, ossia Cristianesimo e Comunismo’. Così
Canfora: “ Il 20 maggio del 1944 una piccola tipografia romana,
per conto del “Libraio Documento Editore” ( più esattamente:”
Documento Libraio Editore” ndr) finiva di stampare uno
straordinario saggio di Alberto Moravia, intitolato: La
speranza, ossia Cristianesimo e Comunismo.
L’opuscolo, di 52 pagine, era il numero 1 della nuova collezione di
saggi, diretta dallo stesso Moravia, intitolata con felice scelta ‘
Il moto perpetuo’”.*1
A leggere Canfora,
troppo frettoloso sull’editore romano che stampò il saggio di
Moravia, la cui impresa editoriale egli definisce senza evidente
cognizione di causa ‘una piccola tipografia romana’,verrebbe da
supporre che lo scrittore si fosse rivolto ad un piccolo occasionale
stampatore, desideroso soltanto di veder uscire quel suo testo. Ma
le cose non andarono così, perché ‘Documento’ non era certo
una semplice comune stamperia o tipografia, bensì una casa editrice
e neppure tanto piccola; perché i rapporti di Moravia con
quell’editore saranno di lunga durata e ben saldi anche dopo la
Liberazione ( ‘Documento’ pubblicò nel 1944, anche ‘Agostino’
rifiutato - a causa della censura - da Bompiani); e perché il
fondatore, proprietario e direttore di quella multiforme ed
attivissima casa editrice, Federigo Valli, era persona ben nota a
Moravia, oltre che suo amico, come dimostra il fatto che i rapporti
tra i due continuarono ancora per anni, anche a guerra finita. E
l’amicizia fra i due era estesa anche alle rispettive famiglie,
come sembra raccontare una foto ricordo della primavera del 1947, in
occasione della Prima Comunione dei figli dell’editore Valli, nella
quale sono ritratti assieme ai coniugi Valli, anche Moravia e sua
moglie Elsa Morante.
Il semplice elenco, che
riproduciamo più avanti, degli scritti di Moravia usciti presso le
edizioni ‘Documento’ ( val la pena ricordare sin d’ora che
Federigo Valli, utilizzava anche altre sigle per le sue edizioni)
lo dimostra in tutta evidenza.
Già alcuni anni fa ,
toccammo l’argomento ‘Documento’ mensile, nato all’interno
dell’omonima casa editrice, per un nostro studio pubblicato da
questa stessa rivista, riguardante Alberto Savinio’ critico
musicale del mensile.*1bis.
Su ‘Documento’,
mensile, constatammo che avevano trovato ospitalità – sarebbe il
caso di dire ‘asilo’ ed ‘accoglienza’- le più belle penne e
menti dell’ Italia dei primi anni Quaranta; salvo poi a voler
rinnegare (o occultare) quei legami da parte di alcuni, a liberazione
avvenuta. Cosa che fece, secondo le nostre conclusioni, Alberto
Savinio, colpevolmente assecondato nel tempo da tutti i curatori dei
suoi scritti musicali, per l’Editore Einaudi.
E già in
quell’occasione, mentre su molti giornali si discuteva dei
rapporti di Moravia con il Fascismo e della sua inibizione, mai del
tutto osservata, a pubblicare scritti e racconti presso chicchessia,
osservammo come sul mensile ‘Documento’, Moravia avesse
continuato a pubblicare racconti e saggi, nel triennio 1941-1943,
firmandosi con il proprio nome d’arte: Alberto Moravia – il suo
nome di battesimo è, invece: Alberto Pincherle- con le semplici
iniziali ( A.M.), ma anche con altri pseudonimi meno noti ma
ugualmente sfruttati, come ‘Pseudo’ e ‘Tobia Merlo’. C’è
addirittura un numero di quel mensile, dedicato interamente al
‘teatro’, in concomitanza della Biennale di Venezia ( Anno II
N. XI-XII Novembre- Dicembre 1942), nel quale compaiono due suoi
scritti, di tono saggistico ambedue, firmati rispettivamente: Alberto
Moravia e ‘Pseudo’.
Per farsi un’idea dell’
assiduità di Moravia, nei fascicoli del mensile Documento ( in tutto
venticinque, di cui tre numeri doppi, in concomitanza con il periodo
estivo o di fine anno, ed uno addirittura triplo , nei primi mesi -
febbraio/marzo/aprile - del 1943), con racconti e saggi, basterà
notare che ben tredici, di varia dimensione, recano la sua firma,
ponendolo al fianco di due altre personalità fra le più presenti
nella rivista, Alberto Savinio in capo a tutti, e la scrittrice
Gianna Manzini.
Di Savinio scoprimmo che
molti dei suoi scritti erano andati perduti, nella foga di occultare
il più possibile quella sua collaborazione ‘musicale’. Li
raccogliemmo, e di alcuni riuscimmo a ricostruire genesi e forma
originaria, ripubblicandoli come appendice di quel nostro precedente
studio apparso su ‘Nuova Storia Contemporanea.
Quanto a Moravia, autore
per il mensile ‘Documento’, le nostre speranze di scoprire più
di un inedito come già per Savinio, sono andate via via riducendosi,
man mano che, negli ultimi anni, Bompiani veniva dando alla luce
raccolte di narrativa moraviana ‘minore’, cioè a dire di
racconti brevi. Per fortuna, l’ultimo computo, ci ha riservato
qualche piacevole sorpresa, allorchè abbiamo scoperto che tre
‘saggi’, apparsi su ‘Documento’, non sono stati ancora
riediti dall’editore moraviano; autorizzandoci perciò - ottenuto
l’assenso della ‘Associazione Fondo Alberto Moravia’ e degli
eredi dello scrittore, che ringraziamo - ad allegarli al presente
studio, come preziosa appendice celebrativa.
Di conseguenza, il nostro
primo interesse nei confronti dell’ intensa attività di Moravia
per l’editore ‘Documento’ – alla quale, finalmente, negli
ultimi tempi, gli studiosi dello scrittore, hanno dato un certo
rilievo*2 - si è via via convogliato nella volontà di raccogliere
tutte le notizie possibili sulla ben nota rivista, oggi introvabile,
per rilevarne alla fine identità e valore letterario, come anche
sulla omonima casa editrice e sul suo proprietario ed animatore,
Federigo Valli.
Ci è venuto in aiuto un
documentatissimo saggio – l’unico esistente sulle Edizioni
Documento e sull’omonima rivista – di Gioia Sebastiani, *2a, nel
quale, però, l’autrice incorre in qualche inesattezza non
trascurabile, come quando dice che l’ultimo numero di ‘Documento’
mensile uscì nel maggio del 1943, mentre uscì anche il numero di
giugno 1943, che chiude la collezione della rivista, sul quale fra
l’altro, apparve anche il racconto di Moravia ‘Il
cavaliere’*3 .
Dunque il mensile
‘Documento,Periodico di attualità politica,
letteraria, artistica’, edito da ‘Anonima
Documento Editrice’ uscì a Roma dal gennaio 1941 al giugno 1943,
diretto da Federigo Valli, che ne era anche l’editore.*4
Che mensile era
‘Documento’? Se si dovesse dar credito totale all’editoriale
del primo numero - dal titolo ‘Pensiamo ai soldati’ –
verrebbe da rispondere: foglio di propaganda; nonostante il formato
( 42X30), il tipo di carta ed il ricco corredo fotografico -il
quale, tuttavia, alla guerra faceva riferimento in molti casi, in
ragione del profilo professionale ed ideologico del suo editore e
direttore, legato al regime. Se, invece, si voglia leggere
quell’editoriale alla luce della trasformazione che nei tre anni di
vita, ma a cominciare già dal primo, avrà ‘Documento’, il
profilo e le finalità della rivista si rivelano sotto diversa
prospettiva. Non possono non colpire l’eleganza del mensile, il
suo costo abbastanza alto per l’epoca ( 10 lire al numero) ed il
livello dei suoi collaboratori. *5 In particolare: il formato
tabloid, la carta pesante, il colore, le foto a tutta pagina e di
ottima qualità, le riproduzioni di opere grafiche e pittoriche e
gli articolisti di gran nome inducono a pensare che quell’editoriale
ed il corredo fotografico dei primi numeri, troppo smaccatamente
‘propagandistici’ per essere presi in seria considerazione,
servissero da copertura e lasciapassare per far partire un’impresa
editoriale di qualità che con la guerra ed il regime non aveva molto
da spartire, in ragione dei contenuti, se non marginalmente ed
occasionalmente. Ciò spiegherebbe la presenza di tanti ed illustri
scrittori, intellettuali ed artisti su quel mensile. Come era
riuscito il Valli, fascista dichiarato, a cooptarli ? Inoltre, cosa
sperava di ottenere attraverso la loro presenza? E, infine, il
regime medesimo cosa si attendeva da quel mensile che esso stesso
finanziava attraverso il suo fidatissimo editore?
La Sebastiani,
constatata l’evidente anomalia di ‘Documento’, ipotizza
comunque che tutte quelle presenze , a suo dire ‘libere’,
servivano a dare alla rivista una sorta di imprimatur culturale,
ideologico; ma di quale imprimatur poteva necessitare ‘Documento’
che, dopo i primi numeri, rivelerà il suo vero volto: né foglio di
propaganda, nè megafono del regime? Non sarà che l’impresa in cui
Valli era riuscito fu quella di schierare tutta la ‘cavalleria’
fascista in difesa del regime, dando per scontato perciò che tutti
gli scrittori di Documento avessero dichiarato, in un modo o
nell’altro, la loro adesione – vogliamo dire: ‘simpatia’,
oppure ‘non ostilità’ - al regime?
La studiosa arriva ad
ipotizzare, a proposito del Valli, del quale elenca le benemerenze
nei ranghi dell’editoria fascista, che ‘Documento’, a
differenza di tutte le altre pubblicazioni cui avrebbe dato vita nel
tempo, fosse frutto di una sua iniziativa personale, volendo
assecondare i suoi interessi letterari ed editoriali, supponendo che
i fondi per la pubblicazione giungessero all’editore Valli da
quegli inserzionisti pubblicitari ‘di guerra’: industria degli
armamenti e aeronautica in particolar modo, che Valli conosceva bene
per la sua direzione di ‘Ala d’Italia’, organo quindicinale
di informazione, diretta emanazione del Ministero dell’Aeronautica.
Tale supposizione
dovrebbe farci ipotizzare che il regime assistesse pian piano alla
evidente trasformazione di quel foglio - divenuto un covo di
oppositori - senza muovere ciglio, soltanto perchè per essi
garantiva un fedelissimo, spingendosi persino a sollecitarne
l’imitazione, dato l’alto livello culturale.*6
Già nel primo anno di
vita, 1941, ‘Documento’ fa una virata nella direzione che poi
terrà per gli altri due anni di uscita ( gennaio 1942- giugno 1943),
trasformandosi da rivista di attualità politica oltre che letteraria
ed artistica, in una vera e propria rivista letteraria ed artistica,
con un interesse particolare via via crescente, verso il mondo dello
spettacolo*7. Alle foto di guerra e del regime si sostituirono pian
piano foto di costume o di stelle del cinema e del teatro; le
pubblicità del mondo dello spettacolo ( cinema e teatro più di
tutti) presero il posto di quelle ‘belliche’; le presenze di
artisti, in veste di specialissimi e preziosi illustratori delle
pagine del mensile, si fecero ancora più intense, diventando una
preziosa costante del mensile.*8
Ma “ ciò che più
sorprende nei fascicoli di ‘Documento’ – non può far a meno di
annotare la Sebastiani – è la consistente presenza della narrativa
contemporanea: nel suo primo anno la rivista pubblica racconti di
Corrado Alvaro, Luigi Bartolini, Arrigo Benedetti, Tommaso Landolfi,
Gianna Manzini, Giuseppe Mesirca, Alberto Moravia, Alberto Savinio”.
Iniziative editoriali
parallele, pur rade, l’editore di ‘Documento’, assume già dal
primo anno di vita del periodico. Fatto non irrilevante, per smentire
quanti pensano che all’attività di editore di libri, Valli si sia
rivolto soltanto una volta terminata la sua esperienza di editore e
direttore di periodici ; mentre soltanto la sua terza parallela
attività, quella di gallerista, è posteriore alla cessazione di
‘Documento’ *9
Nel numero di agosto
1941 di ‘Documento’, si annuncia l’uscita del primo volume di
una collana intitolata ‘Artisti d’oggi’, dedicato a Tamburi e
scritto da Severini, molto curato editorialmente e graficamente, come
farà sempre il Valli .*10
Nel secondo anno di
pubblicazioni(1942), Documento, si è ormai trasformato in un
mensile di arte , cultura , letteratura e spettacolo tout court. Le
illustrazioni riguardanti la guerra ed il regime sono ormai poche ed
ininfluenti. Documento raddoppia - con l’uscita quindicinale
della versione tedesca e si allarga, aggiungendo nuove rubriche -
come ‘Usi e costumi’, rubrica di moda e mondanità, affidata a
Maria del Corso.
Per comprendere con
chiarezza il nuovo percorso di Documento, nel 1942 appaiono due
numeri ( il numero doppio di luglio –agosto, interamente dedicato
al cinema, copertina di Usellini, in occasione della X Mostra di
Arte cinematografica di Venezia; e il secondo numero doppio del 1942,
novembre-dicembre, ancora un’illustrazione di Usellini in
copertina, dedicato interamente al teatro.
Il 1943, Documento esce
in quattro fascicoli, da gennaio a giugno incluso, uno dei quali (
febbraio-marzo-aprile ) triplo, nelle cui pagine, che superano
ampiamente il centinaio,si leggono racconti e saggi di un numero
considerevole di scrittori ed autori, ben venticinque e tutti di gran
nome . Poi con la caduta del fascismo, Documento come molte altre
riviste finanziate dal regime cessano le pubblicazioni. Ma non per
questo, Valli cessa la sua attività di editore. Infatti anche dopo
l’arrivo degli americani continuerà a pubblicare libri, e a fare
mostre nella sua galleria di via Bissolati, aperta nel frattempo (
già nel dicembre del 1943) circondato dagli stessi artisti e
scrittori che avevano lavorato con lui anche negli anni di Documento.
Ed ora torniamo alla
domanda iniziale di questo breve studio? Il fatto che Valli,
attraverso i suoi appoggi politici, godesse di finanziamenti del
regime, e che ulteriori entrate riuscisse a procurarsi attraverso la
pubblicità , può bastare a giustificare la presenza di tutti
quegli scrittori ed artisti sul mensile Documento?*11
Secondo una vecchia,
non più sostenibile opinione, tutti quegli scrittori lo facevano
solo per fame, dato che Valli era tra i pochissimi che in quei tempi
assai duri riusciva a dispensare le pur magre finanze, a sua
disposizione ( Goffredo Petrassi ce lo confermò a voce una volta,
avendo anch’egli frequentato, negli anni di Documento, il Valli,
che pubblicò la prima sua biografia scritta da Lele D’Amico, nel
1942), senza però abiurare alle loro idee, ostili al regime. Valli
avrebbe passato gli alimenti procuratigli dal regime ad un covo di
oppositori, tutti cospiratori, semplicemente per tenerseli buoni, e
magari anche per un secondo fine: instillare, cioè, nei medesimi
oppositori, l’idea che il regime non era poi tanto crudele verso la
cultura. E’ stato ormai dimostrato che molti di quegli scrittori
ed artisti che dopo la Liberazione vollero presentarsi in società
come homines novi, in realtà avevano aderito al fascismo, anche se
non apertamente. Comunque non possono essere considerati uomini di
sinistra ‘mimetizzati’ o ‘in sonno’, tutti quegli autori ed
illustratori che,
appena qualche mese dopo
la cessazione di Documento, lavorarono su una nuova rivista di
opposto orientamento, leggendo l’elenco dei collaboratori di
Documento non come lista di proscrizione bensì come cursus honorum.
Mentre, invece, Federigo Valli e molti degli scrittori che avevano
pubblicato sul suo mensile o presso le sue edizioni, cambiato il
vento, avrebbero smesso la divisa fascista per vestire -
impunemente - quella di uomini di sinistra. Solo che a Valli ed a
pochissimi altri, quel cambio di casacca fu fatto pagare.
Infine. A proposito delle
edizioni di Documento, la Sebastiani fa notare come certe date di
pubblicazione di alcuni libri ( marzo-aprile 1944) siano volutamente
state anteposte dall’editore per poter successivamente vantare,
egli e gli autori pubblicati, meriti patriottici e culturali.
Impossibili quelle date, nei mesi immediatamente precedenti la
Liberazione, quando a tutt’altro si pensava che a cercare carta ed
a stampar libri. Quei libri furono in realtà stampati verso la fine
del 1944, conclude la Sebastiani. (Nei primi mesi del 1943, mesi non
più facili di quelli del 1944, Valli riusciva a stampare e
pubblicare regolarmente il suo Documento mensile, e per i mesi di
febbraio/marzo/ aprile 1943, riuscì a far uscire un numero triplo,
anche nelle pagine - oltre cento- del suo ricco mensile e di grande
formato, nonostante la penuria di carta).
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*1. Così un avviso
pubblicitario delle Edizioni Documento 1944. “Moto Perpetuo” .
Collezione di saggi a cura di Alberto Moravia.’ Saranno raccolti in
questa collezione saggi critici e informativi intesi ad illuminare in
una maniera nuova tutti i maggiori e più vitali problemi che
l’umanità dovrà al più presto risolvere per uscire dalla
terribile crisi in cui si dibatte, e quelle testimonianze
dell’intelligenza atte a scoprire e chiarire al lettore personaggi
e opere di tutti i tempi’ . E’ uscito: n.1 Alberto Moravia: La
Speranza ossia Cristianesimo e Comunismo. In
corso di stampa: Guglielmo Peirce: L’impressionismo
e Cezanne; Guido Piovene: Gli
ideali della paura; Mario Praz:
La filosofia dell’arredamento; Alberto
Moravia: Diario politico; Giuseppe
Ungaretti: Saggio su
Leopardi; Bruno Zevi:
Verso un’architettura organica. Volumi in
32°, stampati su carta uso a mano rilegati alla bodoniana, con
impressioni a colori, L.50. Documento, Editore Libraio in Roma. Dei
volumi sopra elencati , in corso di stampa, uscì soltanto il volume
di Mario Praz, che ebbe molta fortuna, ristampato poi in lussuosa
veste da Longanesi.
*1bis. Nuova Storia
contemporanea. Anno VI n.6 Novembre-Dicembre 2002. “ Il
‘Documento’ rimosso di Alberto Savinio”.
Pagg. 61-90 ).
*2.Alberto Moravia.
Opere/2. Romanzi e Racconti 1941.1949. A cura di Simone Casini.
Classici Bompiani 2002. Il curatore, nelle note ai testi, compie un
approfondito esame dei rapporti di Moravia con l’editore
‘Documento’, partendo dal saggio della Sebastiani, citato nella
nota successiva( *2a).
*2a. Gioia Sebastiani: “
Editori a Roma dopo la Liberazione: le
Edizioni Documento” in “ Gli
archivi degli editori. Studi e prospettive di ricerca”
a cura di Granfranco Tortorelli, Patròn Editore, Bologna 1998. In
tale saggio della Sebastiani, da tener sempre presente, anche dove
non è esplicitamente citato nel corso del nostro studio, è elencata
tutta l’attività editoriale di Valli , consistente
complessivamente in una sessantina di volumi distribuiti in 11
collane.Tutto ciò in pochi anni, specialmente in quelli a cavallo
della Liberazione, in cui la casa editrice di Valli è sottoposta ad
un vero e proprio tour de force editoriale. Fra i volumi, fuori
collana, “XXII Sonetti di Shakespeare scelti e tradotti da Giuseppe
Ungaretti”, e ‘Gott mit Uns’ di Renato Guttuso( 24 tavole in
nero e a colori con una nota introduttiva di Antonello Trombadori).
*3.‘Documento’, giugno
1943: una delle rarissime copie ancora in circolazione, è
conservata presso la Biblioteca Comunale di Ferrara, che ringraziamo
per la cortese collaborazione. Nella stessa svista della Sebastiani
– che ferma le pubblicazioni di Documento a maggio del 1943,
incorre anche Simone Casini nelle note ai testi ( vedi nota
precedente, *2), salvo poi a correggersi parlando del racconto in
questione per il quale annota con esattezza il numero di Documento
sul quale era stato pubblicato.
*4. La redazione di
‘Documento’ era a Roma, prima in Via Principessa Clotilde 5, a
due passi da Piazza del Popolo, e, successivamente in Via di San
Valentino 21, ai Parioli, nel contempo, sede delle edizioni.
*5 . Il lungo elenco dei
collaboratori di ‘Documento’, che riproduciamo in seguito
accanto ai titoli dei relativi contributi, mette sul chi va là
chiunque volesse comunque liquidare ‘Documento’ come periodico di
propaganda ( nobilitato per così dire dalle illustri presenze che,
di conseguenza, facevano il tifo per il regime, più o meno
convinte).
*6. Riprendendolo da
‘Bibliografia fascista’ Febbraio 1942-XX , ‘Documento, ( aprile
1942, pag. 36), riproduce il seguente avviso. Doc-Agenzia
Internazionale di Stampa- Via Principessa Clotilde 5 -
Rappresentanze a Berlino, Budapest, Parigi.” Piacerebbe veder
accolti e diffusi anche dai nostri grossi giornali i notiziari della
nuova agenzia internazionale di stampa ‘DOC’, tutti dedicati a
materie per solito trascurate dalle altre numerose grandi agenzie
italiane e straniere. I notiziari DOC trattano delle lettere, delle
arti, dell’editoria, della filatelia, delle scienze, del teatro.
Sarà perciò che noi non li vediamo abbastanza ben accolti? Grave
torto: grave errore. Sono ricchi di notizie che interessano il buon
lettore più di tante cosiddette false e ridicole curiosità”.
Dalla costola di Documento mensile, l’editore Documento, aveva
fatto nascere anche un’agenzia Documento (DOC) con i medesimi
interessi e sugli argomenti medesimi dell’omonimo mensile. I
responsabili dunque di ‘Bibliografia Fascista’ non si sarebbero
accorti della evoluzione nella direzione contraria al regime sia del
mensile che della nuova agenzia che facevano capo al medesimo
editore, un tempo ‘fedelissimo’, ed ora abiuro.
Alla Sebastiani, nel
citato saggio, non sfugge la notizia: “ Un’altra iniziativa della
casa editrice è la costituzione dell’Agenzia Internazionale di
stampa DOC, con rappresentanza a Berlino, Budapest, Parigi e la
pubblicazione di bollettini, in seguito addirittura quotidiani, in
quattordici edizioni, in lingue diverse, con servizi fotografici
periodici e in esclusiva. I notiziari dell’Agenzia, si legge nella
rivista, trattano delle lettere e delle arti, dell’editoria, della
filatelia, delle scienze e del teatro; tra le attività della DOC
rientra ovviamente anche il bollettino ‘Cine Doc’”.
*7. Dai primi numeri
ricorrono le seguenti rubriche fisse. Libri
di Antonio Falqui (in un secondo tempo, la rubrica si intitolerà
Lettere, assumendo in
ambo i casi, assai spesso le dimensioni di un vero e proprio saggio);
Musica di Alberto
Savinio; Belle arti di
Luigi Bartolini ( in un secondo momento, di Libero De Libero);
Spettacoli di Arrigo
Benedetti; Usi e costumi
di Maria del Corso ( e non di Irene Brin, come erroneamente scrive
Gioia Sebastiani nel suo saggio)
*8.Savinio, De
Chirico,Guttuso, Capogrossi, Maccari, Bartolini,, De Pisis,
Tamburi,Mastroianni, Ponti, Gentilini, Omiccioli, Sironi, Purificato,
Afro, Fazzini, Mirko, Mazzacurati, Purificato, Zancanaro, Cantatore,
Santomaso, Sassu, Migneco, Pirandello, Scialoia, Saetti, Viviani,
Monachesi, Clerici, Scipion…per citare i più noti. Sul numero di
Gennaio 1942, il mensile avverte:” I disegni e le tavole a colori
pubblicati in Documento sono in vendita. Rivolgersi alla nostra
Amministrazione, Via Principessa Clotilde 5, Roma”. Di particolare
interesse i due saggi, di carattere teorico, a firma di due noti
pittori ( Carrà e De Chirico), dai rispettivi titoli :”Prolegomeni
pittorici” e “ Discorso sul meccanismo del pensiero” - saggio
filosofico- usciti nel 1943. Successivamente De Chirico, girerà –
per galanteria?- la paternità di questo saggio a sua moglie.
Una sola eccezione fra
tante celebrità. Sul numero di Marzo 1942 di Documento, a pag. 32,
vengono riprodotti due acquerelli di un dilettante speciale, Adolf
Hitler, rispettivamente dal titolo:’Posto di medicazione a
Fromelles’ e ‘Rifugio a Fournes’. Con la seguente dettagliata
didascalia: “ Adolfo Hitler acquarellista. Non a tutti è noto che
Adolfo Hitler, semplice soldato di collegamento della fanteria
durante la guerra 1914-1918, pur partecipando attivamente al corso
delle operazioni belliche e seguendone di persona le vicende sul
fronte francese, non rinunziava tuttavia a fermare sulla carta i
rapidi panorami che di quando in quando si presentavano alla sua
attenzione di acquarellista. Si tratta di numerosi scorci e schizzi
che riproducono con diligente fedeltà di linee i tranquilli angoli
già attraversati dal cammino della guerra. ‘Documento’ pubblica
qui due di queste singolari testimonianze di un silenzioso periodo
della vita del Capo della Nuova Germania”.
*9. La
galleria-libreria di Valli si trovava in Via Bissolati 12, di fronte
al Palazzo dell’Ina. Si chiamava ‘La margherita’, l’insegna
l’aveva disegnata Savinio, la dirigeva Gaspero Del Corso e vi
lavorava anche Irene Brin. Subito dopo la liberazione, negli anni
1944-1945, ‘La margherita’ ospitò mostre di De Chirico ( luglio
1944); Severini ( settembre 1944); Francesco Guardi e Pietro
Longhi,’Disegni e tempere di pittori veneziani del 700’ ( ottobre
1944); Tamburi ( novembre 1944); Vespignani ( gennaio 1945);
Gentilini , presentato da Giorgio De Chirico( febbraio 1945); Savinio
( aprile 1945); De Chirico , ‘ duecento disegni, presentazione di
Jean Cocteau ‘(luglio 1945).
*10. Sul numero di Ottobre
–Novembre 1941 di Documento, si dà notizia dell’avvenuta uscita
del volumetto dedicato a Tamburi, messo in vendita a Lire 12 “ con
32 riproduzioni in nero ed una tricromia, rilegato in mezza tela”.
E si aggiunge: Sono in corso di stampa: Petrassi di Lele D’Amico (
il volumetto rappresenta la prima monografia dedicata all’insigne
musicista ancor giovane); Cantatore di Sergio Solmi; Guttuso di
Cesare Brandi; Paulucci di Albino Galvani; Fazzini di C.E. Oppo;
Pirandello di Emilio Cecchi. Tra il 1941 e 1942 della collana vennero
efffettivamente pubblicati, oltre i volumi dedicati a Tamburi e
Petrassi, anche quelli di Sergio Solmi su Domenico Cantatore e di
Albino Galvano su Enrico Paulucci
*11. Stando alle
testimonianze di Maurizio Fagiolo dell’Arco, raccolte in occasione
della mostra romana ‘ Sotto le stelle del 1944’. Storia, arte e
cultura dalla Guerra alla Liberazione’ e pubblicate nel relativo
catalogo di Zefiro Editore 1994 ( pagg. 63 e segg.), Federigo Valli
che ‘in quei periodi di magra aveva dato a molti artisti una
boccata d’ossigeno?. E più avanti, secondo le dichiarazioni di
Gaspero del Corso, direttore assieme a Irene Brin della
Galleria/Libreria ‘La margherita’ di Valli: “ I quadri si
vendevano, anche durante il periodo dell’occupazione ( c’erano
gli speculatori, i nuovi ricchi)”.
Moravia
e il mensile ‘Documento’
Sui venticinque numeri
complessivi della rivista, Moravia pubblicò 13 scritti, fra
racconti e saggi, il primo sul primo numero (gennaio 1941), e
l’ultimo sull’ultimo numero ( giugno 1943). Sui primi numeri,
fino a febbraio 1941 incluso, si firmerà Alberto Moravia; da marzo
41 - per effetto del divieto del regime a pubblicare con il suo nome
su riviste e giornali - e fino a maggio 43 ricorrerà, invece, sempre
alle iniziali o a due pseudonimi ( ‘Tobia Merlo’, Pseudo) per
firmare i soli racconti; nel caso , invece, di saggi, come quelli
dedicati al Cinema ed al Teatro ( seconda metà del 1942), tornerà
a firmare con il suo nome per intero. Una semplice curiosità,
nell’ultimo numero del 1942, Moravia pubblica uno dei due saggi
appena menzionati ‘Teatro e Cinema’ firmandolo con il proprio
nome, ma nello stesso numero ne pubblica anche un secondo ‘Varietà’,
e questo lo firma con lo pseudonimo ‘Pseudo’. Nel 1943,
sull’ultimo numero di Documento (giugno), ricompare il suo nome per
esteso, per il racconto ‘Il cavaliere’.
Di tutti gli scritti
di Moravia per il mensile Documento, non sono stati di recente
ripubblicati soltanto tre saggi, rispettivamente ‘America
inquieta’, ‘In margine di una vecchia letteratura’, ‘Varietà,
i quali tutti riproduciamo in appendice al seguente studio.
Altri due saggi,
intitolati rispettivamente, ‘Letteratura e cinema’ e ‘Teatro e
Cinema’ sono stati , invece, ripubblicati di recente nei Quaderni
della Fondazione Moravia. Il primo , in Quaderni 1998( n.2,
pagg.101-106); il secondo, in Quaderni 1997( n.1 pagg.139-142).
Infine, a proposito
del terzo saggio che pubblichiamo in appendice, dal titolo ‘Varietà’,
va ricordato che con analogo titolo Moravia aveva pubblicato già un
più breve articolo nel 1935, sulla ‘Gazzetta del Popolo’ del 19
aprile. Ma l’esame di quel precedente articolo ci ha fatto
concludere che seppure uguale sia il titolo e l’argomento, ed i due
scritti abbiano passaggi comuni, si tratta di due scritti molto
differenti; e che quello di ‘Documento’ non è una semplice
variante del precedente.
Moravia
su Documento mensile
Anno 1941
Numero
Titolo Firma
-Gennaio. ‘Otello,
ovvero l’equivoco’ Alberto Moravia
-Febbraio.
’L’intimità’ Alberto Moravia
-Marzo. ‘America
inquieta’ A.M.
-Maggio. ‘La solitudine
è più forte di me’ Pseudo
-Agosto. ‘Il canto
del cuculo’ Pseudo
-Dicembre. ‘La rosa’
Tobia Merlo
Anno 1942
-Marzo. ‘Visita
mattutina, ovvero il pozzo’ Tobia Merlo
-Maggio. ‘Fosco
Aprile’ Tobia Merlo
-Luglio-Agosto.
‘Letteratura e cinema’ Alberto Moravia
-Novembre-Dicembre ‘Teatro
e cinema’ Alberto Moravia
‘Varietà’ Pseudo
Anno 1943
-Feb.Mar.Apr. ‘In
margine di una vecchia letteratura’ A.M.
-Giugno. ‘Il
cavaliere’ Alberto Moravia
Moravia
e le edizioni Documento
Moravia nei mesi
immediatamente prima e dopo la Liberazione, lavorò quasi
esclusivamente per l’editore Documento. Ne è convinto e lo
scrive, orami senza più reticenze, anche Simone Casini, studioso
moraviano e curatore delle edizioni dello scrittore per
Bompiani:”Moravia sembra essere la personalità più attiva tra i
collaboratori di Valli …Oltre a pubblicare suoi importanti testi
narrativi, Moravia dirige la collezione saggistica ‘Il moto
perpetuo’, che ospiterà il suo saggio ‘La Speranza ossia
Cristianeismo e Comunismo’….Si può insomma affermare che una
delle principali attività di Moravia nel primo periodo della
Liberazione, se non la principale, fu il lavoro per Documento, più
ancora che il lavoro di sceneggiatore e giornalista. E’ naturale
perciò che ‘Agostino’ venisse pubblicato nelle edizioni
dell’amico Valli.” *12
Moravia
per Documento Edizioni
1. La cetonia. Racconto di
Alberto Moravia. Acquaforte di Luigi Bartolini. Serie ‘La
margherita’. Gennaio 1944. 55 esemplari numerati e firmati.( pagg.
14+2)
2. Agostino. Romanzo di
Alberto Moravia. Due litografie di Renato Guttuso. Edizioni
Documento. 500 copie. Febbraio 1944 ( pagg. 96+4) Moravia per
Documento Edizioni
3. La speranza ossia
cristianesimo e comunismo. Saggio di Alberto Moravia Collana di
saggi‘Il moto perpetuo’, curata da Alberto Moravia. Documento
Libraio Editore. Maggio 1944.
(Pagg. 52+4)
4. L’epidemia –
Racconti di Alberto Moravia. Documento Libraio Editore 1944 (
pagg.206+ 2)
5. Due cortigiane e Serata
di Don Giovanni di Alberto Moravia. Una tavola firmata di Mino
Maccari L’Acquario Editore 1945 ( pagg. 170+2).
( N.B.Le
edizioni Documento, negli anni di attività che vanno dal 1941 al
1946, pubblicano con alcune differenti sigle:
-Edizioni di Documento
dell’Anonima Documento Editrice;
-Documento Libraio
Editore;
-Edizioni A.D.E (
Anonima Documento Editrice);
-Nuovi Editori Riuniti
‘Documento’;
-Edizioni La
Margherita;
- Edizioni L’Aquario,
-Edizioni D.O.C.
*12. Vedi nota precedente
2 op. cit. pag.1872
Tutti
gli scrittori di Documento mensile
1941. ANNO PRIMO
N. 1 Gennaio 1941
‘Lavoro’
Racconto Corrado Alvaro
‘Otello ovvero
L’Equivoco Racconto Alberto Moravia
N.2 Febbraio 1941
‘Angelo’
Racconto Alberto Savinio
‘L’intimità’
Racconto Alberto Savinio
‘L’imperialismo
nella letteratrura
inglese’ Saggio Salvatore Rosati
N.3 Marzo 1941
‘La guerra è arrivata a
“B”’ Racconto Giovanni Artieri
‘Vola -Vola’
Racconto Gianna Manzini
‘America inquieta’
Saggio A.M.
‘La coscienza imperiale
nella cultura tedesca
Saggio Adriano Thilger
N.4 Aprile 1941
‘Il caso del tenente L’
Racconto Giovanni Artieri
‘Peste’
Racconto Raffaele Carrieri
‘Vittorio’(Cronaca
brigantesca) Racconto Tommaso Landolfi
‘ Lettere a Luisa’
Di ‘Piccolo mondo
antico’ Saggio Piero Nardi
‘Don Oreste
Ovvero la vocazione
eccessiva’ Racconto Ennio Di Michele
‘La coscienza imperiale
nella cultura giapponese’
Saggio Nicola Vitali
‘Attualita’ del
Romanticismo tedesco’
Saggio Leone Traverso
N.5 maggio 1941
‘Nascita di Hollywood’
Saggio Giacomo Valenti
‘E’ più forte di me
ovvero La solitudine’
Racconto Pseudo
‘Riflessioni
sull’Italia’ Saggio Adriano Tilgher
‘Inquietudine’
Racconto Giuseppe Mesirca
‘Visita a un pittore ‘(
Picasso) Racconto Guglielmo Pei
‘Il colosso di Rodi’
( Cecil Rhodes) Racconto O.P.
‘Quattro gatti ‘
Racconto Gianna Manzini
N.6. Giugno 1941
‘Il ballo del prefetto’
Racconto Alberto Arduini
‘ Sul deserto’( I-
Commiato) Racconto Giovanni Artieri
‘Anna Stickler e la
Ghilf’ Racconto Luigi Bartolini
‘Una difficile
confessione’ Racconto Arrigo Benedetti
‘La caricatura’
Elzeviro Enrico Galluppi
‘La concubina fragrante’
(Gli amori di un
imperatore) Racconto Yi – Ying
‘Galline e mutande in
guerra’ Racconto Enrico Emanuelli
N.7 Luglio 1941
‘Le arti nell’avvenire
d’Italia’ Editoriale Giò Ponti
‘La Siria tra Francia e
Inghilterra’ Saggio Alessandro Lesiona
‘’Lo svaligiatore di
banche’
(Inferno americano)
Racconto Giuliano Salla
‘Casa “ La Vita”’
Racconto Alberto Savinio
‘Pomeriggio di scolaro’
Racconto Gianna Manzini
‘India antica in veste
moderna’
( leggi sante della
famiglia indiana) Saggio Yi-Ying
N.8 Agosto 1941
‘Morte fra due ombre’
(Lenin fra Trotzski e
Stalin) Saggio Manlio Lupinacci
‘Una fucilazione’
Racconto Giovanni Artieri
‘Il canto del cuculo’
Racconto Pseudo
‘Lettere d’amore’
Saggio Enrico Galluppi
‘Confidenze di una spia’
Racconto Casildo Moves
N.9 Settembre 1941
‘Cronaca vera’
Saggio Manlio Lupinacci
‘Il padrone delle
ferriere’ Saggio Marco Cesarini
‘Giorni in collegio’
Racconto Giuseppe Mesirca
NN.10/11
Ottobre-Novembre 1941
‘L’eterno problema
russo’ Saggio Giulio Colamarino
‘Hugo von Hofmannsthal
e la poesia’
Saggio Leone Traverso
‘D’Annunzio e noi’
Saggio Enrico Falqui
‘Estate’
Racconto Gianna Manzini
‘Referendum sulla
bellezza femminile’
Saggio Anton Giulio Bragaglia
N.12 Dicembre 1941
‘Miliardi e pezzenti in
guerra’ Saggio Enrico Emanuelli
‘Gente di Odessa’
Racconto Massimo David
‘Storia negli
almanacchi’ Saggio Vittorio Gorresio
‘Anima o della Fantasia’
Saggio Enrico Galluppi
‘Italia e Tradizioni’
Saggio Rodolfo De Mattei
1942. ANNO SECONDO
N.1 Gennaio 1942
‘Generali e generali in
guerra’ Saggio Enrico Emanuelli
‘Flora’ ( I)
Romanzo breve Alberto Savinio
‘Napoleone a Sant’Elena’
(I) Diario Francesco Antonmarchi
N.2 Febbraio 1942
‘Donne e Fiori in
guerra’ Saggio Enrico Emanuelli
‘La pittura dei Candidi’
Saggio P.M.Bardi
‘La mostruosa Lady’
Racconto Arturo Tofanelli
‘Ritratto di Ante
Pavelic’ Saggio Curzio Malaparte
‘Flora’ ( II)
Romanzo breve Alberto Savinio
‘Margherita’
(Le gioie-gioielli di
Margherita) Racconto L. d. L.
‘Napoleone a
Sant’Elena’(II) Diario Francesco Antonmarchi
N.3 Marzo 1942
‘Un viaggio in Paradiso
nel secolo VII’
Saggio Gabriele Pepe
‘Visita Mattutina
ovvero Il pozzo’
Racconto Tobia Merlo
‘Flora’ (III)
Romanzo breve Alberto Savinio
‘Napoleone a
Sant’Elena’(III) Diario Francesco Antonmarchi
N.4 Aprile 1942
‘Un precursore.
Sismondo de’Sismondi’
Saggio Giuseppe Santonastaso
‘Racconto d’inverno’
Racconto Enrico Galluppi
‘Studio di nudo’
Racconto Gianna Manzini
Napoleone a
Sant’Elena’(IV) Diario Francesco Antonmarchi
‘Deledda minore’
(Lettere giovanili
inedite) Saggio Riccardo Mariani
N.5 Maggio 1942
‘Sa de Miranda’
Novatore della lirica
portoghese Saggio Salvatore Battaglia
‘Fosco Aprile’
Racconto Tobia Merlo
‘Giovanni Vancicalupi de
Getis
Antenato di Goethe?
Saggio F.A.
‘L’inverno scorso a
Vichy’ Racconto Corrado Sofia
‘Piccola memoria del
1936’ Racconto Guglielmo Peirce
‘Napoleone a
Sant’Elena’(V) Diario Francesco Antonmarchi
N.6 Giugno 1942
‘Spiriti europei
del Risorgimento italiano’
Saggio Giuseppe Santonastaso
‘Cronaca nera’
Racconto Vittorio Gorresio
‘Notte di Giugno’
Racconto Gianna Manzini
‘Tremila Carmen’
( Su Emma Calvè interrete
di Carmen) Saggio Antonietta Drago
‘Maggio Fiorentino’
(Il maggio a Firenze)
Racconto G.M.
‘Napoleone a Sant’Elena
(VI) Diario Francesco Antonmarchi
NN.7/8 Luglio/Agosto
1942
‘Cinematografia
fascista’ Saggio Alessandro Pavolini
‘Le architetture di un
giorno’ Saggio P.M. Bardi
‘Letteratura e cinema’
Saggio Alberto Moravia
‘Didone abbandonata’
Soggetto di ballata
cinematografica Saggio Alberto Savinio
‘Beltà italiane sullo
schermo’ Saggio Eugenio Giovanetti
‘Costumi e costumisti’
Saggio Enrico Fulchignani
‘Cinema e documentario’
Saggio Giampiero Pucci
‘Appunti sull’ingenua’
Saggio Ercole Patti
‘Il bestiario di
Fabrizio Clerici’ Saggio L.d.L.
‘Primavera fiorentina’
Appunti per un
cortometraggio Saggio Gianna Manzini
‘Paesaggio italiano nel
cinema’ Saggio Umberto De Franciscis
‘Cose dette e taciute’
La 23 Biennale Ven. ( arti
figurative) Saggio Libero de Libero
‘Cinecittà’
Saggio Luigi Freddi
N.9 Settembre 1942
‘Ombre’
Racconto Gianna Manzini
‘Il Socialismo,
l’Internazionale
e la guerra’
Saggio G. Perticone
‘La giornata di una
cinese elegante’ Racconto Bianca Laureati
‘Il principe di Homburg’
di Enrico Kleist
Saggio Leone Traverso
‘La chioma di berenice’
Racconto Riccardo Mariani
‘Napoleone a
Sant’Elena(VII) Diario F. Antonmarchi
N. 10 Ottobre 1942
‘Isadora’ ( Duncan)
Saggio Alberto Spaini
‘Gli odori’
Saggio Lorenzo Magalotti
‘’Marsilio da Padova’
Primo tecnico dello Stato
moderno Saggio Giuseppe Santonastaso
‘Napoleone a
Sant’Agata’( VIII) Diario F.Antonmarchi
NN.11/12
Novembre/Dicembre 1942
‘Il teatro ital.
contemporaneo’ Saggio Mario Apollonio
‘Circo equestre’
Saggio Luigi Bartolini
‘Varietà’
Saggio Pseudo
‘Ricordi del teatro
lirico’ Saggio Nivasio Dolcemare
‘Teatro e cinema’
Saggio Alberto Moravia
‘Vicende del radioteatro
ital.’ Saggio Andrea Gritti
‘Teatro per tutti’
Saggio Mario Corsi
‘’Manierismo moderno
nella scenografia’
Saggio Libero De Libero
‘L’Organino’
Stroncatura fine secolo’
Saggio Niccolò Tommaseo
‘Le libertà teatrali’
Saggio Arrigo Benedetti
‘Spettacoli. Un colpo di
pistola
(film)
Saggio Arrigo Benedetti
‘Ribalta rivoluzionaria’
Saggio Manlio Lupinacci
‘Del Teatro Italiano
futuro’ Saggio M. A.
‘Verità e fantasia del
film storico’ Saggio Mario Missiroli
1943. ANNO TERZO
N.1 Gennaio 1943
‘I piaceri del malumore’
Racconto Vitaliano Brancati
‘La Pianessa’
Racconto Alberto Savinio
‘Spettacolo.Le amabili
contraddizioni’ Saggio Arrigo Benedetti
‘La difesa dell’Italia’
Saggio Mario Missiroli
‘Gente nuova al Corso’
Racconto Corrado Sofia
‘Una lettera inedita di
Carlo Dossi Saggio Beniamino Dal Fabbro
‘’William Faulkner
e il Naturalismo
Saggio Salvatore Rosati
Nn.2/3/4
Febbraio/Marzo/Aprile 1943
‘Casanova in
Inghilterra’ Memorie Giacomo Casanova
‘Primo amore.
Dal diario di una ragazza’
Racconto Elisa Mago *13
‘’Le voci’ ( Dolci ,
Voti) Saggio Alberto Savinio
‘Il processo Cagliostro’
Una documentazione inedita
Saggio Mario Missiroli
‘Paesane che giocano a
dama’
(pagine di un diario
invernale 1923) Saggio Luigi Bartolini
Spettacoli. ‘Lacrime e
Riso’ A.B.
‘Sottoterra come semi’
Saggio Enrico Emanuelli
‘La poltrona inquieta’
Racconto Ennio Flaiano
‘Tabacchiera’
Racconto G. Pei
‘ Cora’
Racconto Vasco Pratolini
‘La mamma’
Racconto Romano Bilenchi
‘L’apodittica rosa’
Racconto Antonietta Drago
‘Vilfredo Pareto’
Saggio Giuseppe Santonastaso
‘Il suo nome’
Racconto Alberto Savinio
‘Un’intervista
mancata’ Racconto Corrado Sofia
‘La noia’
Racconto Gino Vicentini
‘’Un terribile
naufragio’ Racconto Casildo Moves
‘La miracolosa
industria-
Codice americano’
Saggio Margaret Case Harrimann
‘Una donna all’inferno’
Racconto Arrigo Benedetti
‘In margine di una
vecchia
Letteratura’
Saggio A.M.
‘La partenza di Giorgio’
Racconto Giuseppe Mesirca
‘Lo scaffale tarlato.
Capuana senza riserve’
Saggio Celestino
‘Prolegomeni pittorici’
Saggio Carlo Carrà
‘Tra campagna e
fattoria’ Saggio Carlo Linati
‘Istanbul’
Saggio P.A.Quarantotti Gambini
‘Family Court’
Codice americano
Saggio Leonard Q. Ross
N.5 Maggio 1943
‘Discorso sul meccanismo
del pensiero’
Saggio filosofico Giorgio de Chirico
‘Conclusioni su Isabella
d’Este’ Saggio Maria Bellonci
Spettacoli ‘ Giacomo
l’idealista’ Saggio Ar. Be.
‘Gente di Biella’
(1918.1922) Saggio Enrico Emanuelli
‘Quattro soldi’
Racconto Anna Banti
‘Maccari’
Saggio Libero De Libero
‘Voci’(Agonia,
Apollinaire,
Nevrastenia, Etimologia,
Civiltà alimentare)
Saggio Alberto Savinio
‘La nebbia nel film’
Saggio Gilberto Altichieri
‘L’arte fiamminga e la
scultura
di Anna Cottrau Fokker’
Saggio Curzio Malaparte
‘Il cavaliere Leopoldo’
Racconto Irene Brin
‘Scaffale tarlato: La
bocca del lupo’ Saggio Celestino
N.6 Giugno 1943
‘La politica di
Machiavelli’ Saggio Giuseppe Santonastaso
‘Il tempio del “potente
io sono”
ossia Ti salutiamo Arturo
Racconto Leonard Q. Ross
‘Ringiovanire i
classici’ Saggio Anton Giulio Bragaglia
‘Il cavaliere’
Racconto Alberto Moravia
‘La nuvola’
Racconto Anna Maria Ortese
‘Voci’ :Volontà,
Pudore,
Imballaggio’
Saggio Alberto Savinio
*13.Sotto lo pseudonimo di
Elisa Mago si celava in realtà la moglie di Federigo Valli, Maria,
che ebbe anche un trascorso di scrittrice e poetessa. L’ultimo
libro pubblicato dalle edizioni ‘Nuovi Editori Riuniti
‘Documento’, prima di cessare completamente l’attività nel
1946, era di Maria Valli, autrice sotto lo pseudonimo di Elisa Mago,
dal titolo “ Primo amore”, finito di stampare nell’aprile del
1946, con la sovraccoperta illustrata da una linoleografia di Mino
Maccari.
APPENDICE
Tre
saggi di Alberto Moravia
usciti su
Documento ( 1941-1943) e mai più ripubblicati
L’autore del
presente studio e la direzione di Nuova Storia Contemporanea
desiderano ringraziare le eredi dello scrittore nonchè il Fondo
Moravia per l’autorizzazione a ripubblicare in questa sede i tre
scrtitti di Alberto Moravia usciti su Documento e mai più
riproposti in tempi recenti.
N.B. nel riprodurre
questi scritti di Alberto Moravia si è conservata per nomi comuni e
propri la grafia originale dello scrittore, così come appare nelle
pagine di ‘Documento’ mensile
Documento
Anno I n.3 marzo 1941
America inquieta
La
moderna letteratura americana testimonia il malessere crescente che
pervade il paese a misura che certi problemi volontariamente lasciati
insoluti dalla società liberistica e mercantile si fanno acuti e
impellenti.
L’attuale
fortuna della letteratura americana ripropone nuovamente la questione
se negli Stati Uniti esista una cultura o per lo meno una letteratura
originale e indipendente da quella inglese. In altre parole s gli
Stati Uniti abbiano in questo campo qualcosa di nuovo da dire.
Che
la letteratura americana sia qualche cosa di diverso da quella
inglese e in genere da quella europea, è un fatto ormai da tutti
riconosciuto. Ma i giudizi discordano assai sulla natura e il valore
di questa letteratura. Letteratura coloniale? Alessandrina?
Periferica? Oppure originale e tale da rinnovare la letteratura del
mondo come già fece la letteratura russa nell’ultimo secolo?
Io
credo che l’imbarazzo dei critici derivi in sostanza dal fatto che
all’ origine della letteratura americana non sono i primitivi come
in quelle europee; e che essa manca del pari di quel ceppo umanistico
da cui tutte le letterature europee traggono vigore e nobiltà.
Insomma, la letteratura americana sarebbe, fin
dalle origini, una
letteratura decadente. Si immagini una letteratura francese che
cominciasse con Rimbaud o con Baudelaire. Non esagero. La letteratura
americana comincia con Poe, Melville, Hawthorne etc.etc.
Altro
fatto che pone in imbarazzo i critici è la mancanza di uno sviluppo
formale, stilistico, coerente. L’ispirazione degli scrittori
americani non è mai determinato da tradizioni e preferenze
culturali,bensì da fatti crudamente autobiografici. La patologia in
Poe, il contrasto tra l’uomo e la natura in Melville, il rigore
protestante in Hawthorne, la vita in seno alla natura in Thoreau
etc.etc. la letteratura americana è refrattaria a qualsiasi anche
indiretto umanismo. Il blando classicismo di Poe è tutto di
maniera, un “pastiche”,
allo stesso modo che il “ colonial
style” è un
“pastiche”
del Palladio. La letteratura americana è essenzialmente romantica.
Ho
detto che la letteratura americana è fin dall’inizio decadente.
Aggiungerò che questo è il suo massimo titolo di nobiltà. Una
letteratura decadente è la sola che convenga ad un paese nuovo
eppur vecchio, composto di mille razze, sincretistico quanto alla
cultura e alle religioni come l’America. Verranno mode
neoclassiche, europeizzanti seguite con fedeltà dai paesi balcanici
e levantini. L’America resterà decadente.
Il
Padre della letteratura americana è Poe, in apparenza il più
europeo, nella sostanza il più americano degli scrittori d’oltre
oceano. C’è già in Poe, anche tralasciando i terrori e la
patologia, quel senso crudo, macabro, meccanico, un po’
melodrammatico, incolto della realtà che poi ritroveremo in altri
autori posteriori. Nè bisogna dimenticare che Poe è l’inventore
di quel genere letterario tra tutti americano che è il racconto
poliziesco. Americano è altresì è il gusto di Poe per le
sistemazioni scientifiche; quell’idea della scienza come solo fatto
positivo e in certa misura trascendente in un mondo guasto e
estenuato. Poe infine è bene americano perché all’origine della
sua opera non rinveniamo un fatto letterario ( Racine e Hugo e Poe
stesso all’origine di Baudelaire) bensì le sue tare, la madre
morta, la necrofilia etc.etc. Più o meno questa mancanza di radici
umanistiche è ritrovabile in tutti gli autori americani. Donde il
bric-a-brac in cui cadono ogni qualvolta cercano di darsi una patina
letteraria aulica europea, da Poe su su fino al moderno Thornton
Wilder.
L’America
è il paese del “pastiche”e
della contraffazione oppure del realismo più grezzo. Lo stile vi è
raggiunto di rado.
La
letteratura negli Stati Uniti si può, “grosso modo”, dividere in
tre periodi. Uno iniziale che per comodità chiameremo coloniale
sebbene già da tempo gli Stati Uniti non fossero più colonia; un
secondo vittoriano; un terzo infine attuale. Del primo abbiamo già
accennato; del secondo non mette conto, ai fini di questa nota, di
parlare, nonostante le grandi eccezioni di Whitman, di Mark Twain, di
Emerson, di James. Veniamo al terzo.
E’
dei paesi coloniali la vita grassamente mercantile, il concetto tutto
materialistico dei valori, l’esasperazione della cosiddetta lotta
per l’esistenza che è poi lotta per il denaro. Nelle colonie si va
per arricchirsi abbandonando come un vano ingombro le civili
tradizioni dei paesi di origine. Il pioniere è leggero nel suo
bagaglio spirituale seppure pesante di avidità ambiziosa. Popi
passata l’epoca dei pionieri rimane nel paese il loro materialismo.
Questo materialismo americano, ultimata la conquista del West,
costruite le grandi ferrovie e soprattutto sancita con la fine della
guerra civile la supremazia del Nord industriale e liberista sul Sud
agricolo e schiavista, andò crescendo fino a raggiungere il suo
colmo nella cosiddetta “ prosperity”
del dopoguerra. Fu quella l’epoca dell’industrialesimo e del
compromesso vittoriano un po’ dappertutto; ma particolarmente in
America che non aveva nulla da opporre in sede ideale o culturale a
tanto travolgente ondata di ipocrisia e di filisteismo. Fu l’eoca
in cui si concretò il mito dei miliardari, re senza corona di
qualche prodotto industriale, l’epoca delle guerre cosiddette del
dollaro, di Teodoro Roosevelt assertore dell’imperialismo
americano. Scrittore tipico degli anni a cavallo tra ottocento e
novecento fu non già l’anglicizzato Henry James bensì Edith
Wharton rivelatrice alle folle americane dei misteri della vita
elegante.
Ci
voleva la crisi del 29, crisi prima di tutto finanziaria e economica
per destare la letteratura americana dal suo letargo conformista.
Come sempre l’avvio ad u n rinnovamento letterario era dato agli
Stati Uniti da un fatto extraartistico.
La
crisi oltre che economica anche morale, era stata annunziata da una
letteratura sociale e realistica tutto sommato ancora provinciale.
Uomini come Upton Sinclair, Sinclair Lewie, Dreisler e anche Dos
Passos interessano a conti fatti soltanto l’America. Ritroviamo in
loro la consueta brutalità e schiettezza americana ma sempre, dove
più dove meno, anche una superficialità e convenzionalità che
derivano in gran parte dal fatto che in questi scrittori, epigoni del
naturalismo europeo, il rifiuto dei costumi americani era più
estrinseco che profondo, e che essi partecipavano più che non
sembrasse dei pregiudizi che mostravano di voler combattere. In altri
paesi tale critica sembrerebbe esterna. Ma, occorre ripeterlo, in
America il valore di un libro è spesso in diretta correlazione con
la sincerità e violenza della sua ispirazione. Facit
indignatio versum;
mai come in America questo detto, difficilmente applicabile ad altre
letterature, fu giusto e illuminante. Tuttavia bisogna che quegli
scrittori sgombrarono la via a quelli che venivano dopo; e che senza
di essi la nuova letteratura americana non sarebbe stata possibile.
La
questione sociale era, dal punto di vista dell’arte, impraticabile.
Bisognava scendere nel profondo dell’uomo, ritrovare la tradizione
di Poe, di Hawthorne, di Melville, di Whitman. Il primo che
intraprese questa discesa nell’umano fu Sherwood Anderson.
Sensuale, lirico, sensibile oltremodo a tutto ciò che v’è
nell’uomo di incosciente e di irrazionale. Anderson non impaccia di
problemi di alcun genere e tende piuttosto a svelare quanto di
decadente si muove sotto la rispettabile ed alacre apparenza della
vita americana. “ Winesburg
Ohio” si può
definire l’epica di una piccola città in cui gli abitanti menano
tutti una doppia vita, quella esteriore normale e quella interna
anormale e frenetica. Per primo, ancora, Anderson parla dei negri,
senza piagnistei e senza convenzioni, con una specie di nostalgica
simpatia. “ Dark
Laughter” propone
per la prima volta quella tentazione negra, fatta di indolenza, di
fantasia primitiva e di sensualità che poi diventerà così
universale negli anni del dopoguerra. Ad Anderson si deve risalire
per comprendere il largo posto che hanno le determinazioni
patologiche nell’ultimo romanzo americano.
Andersobn
fu un’avanguardia. Con Hemingway siamo già in pieno rinnovamento.
Gertrude Stein nella sua “Autobiografia
di Alice Toklas” si
vanta di aver messo Hemingway sulla buona strada quanto allo stile.
Non c’è dubbio che Hemingway si giovò molto delle esperienze
cubistiche dell’immediato anteguerra. Lo stile di Hemingway,
piatto, lineare, volutamente giornalistico, è un esempio notevole di
semplicità sapientemente manipolata. Nei suoi romanzi e nelle sue
novelle quasi sempre svolti in prima persona, Hemingway attraverso un
ritmo narrativo molto cadenzato riesce a comunicarci il suo umore
avventuroso, a comporre un ritratto assai riconoscibile di se stesso.
Si sta con Hemingway sempre ad un pelo dalla cosa vista, dal diario,
dall’autobiografia. Scarsa è in lui la fantasia; si direbbe che
la sua prosa no n abbia che una sola dimensione. Comunque la sua i
influenza è stata notevole. Scrittori come Cain, Caldwell, Saroyan
di cui parleremo più sotto derivano da lui.
Di
Faulkner qualcuno ha scritto che i suoi romanzi sono un connubio del
fato greco con il romanzo poliziesco. Il giudizio non pare esatto,
soprattutto a causa della scarsa organicità dei suoi libri; ma
indubbiamente egli ha saputo ricreare qualcosa che molto assomiglia
alla tragedia. Faulkner stabilisce fin da principio un clima
violento, dei contrasti insanabili. Faulkner è u n moralista
pessimista, per lui il male preesiste all’uomo e lo danna senza
rimedio. Il male è nella razza, nella struttura sociale, nella
situazione familiare, nel caso, nella corrotta volontà umana. Nei
romanzi di Faulkner, con non inconsapevole sadismo, gli innocenti
vengono puniti e i malvagi si salvano. Si pensa talvolta ad un
Flaubert barbarico. In “ Sanctuary”,
probabilmente il suo libro migliore, Faulkner ci ha dato la tipica
tragedia americana. Si confronti questo libro con il romanzo di
Dreiser che porta appunto il titolo “ Una
tragedia americana”
e si vedrà di quanto maggiore libertà e magistero artistico si
giova il Faulkner nei confronti del suo predecessore.
Romanzi
sulla malavita se ne sono scritti in parecchi in America; ma pochi
hanno raggiunto come Faulkner il fondo dannato della fatalità, là
dove vittime e carnefici sembrano accomunati da una stessa impotente
e crudele pietà. In “ Light
in august” Faulkner
affronta la tragedia del sangue. Il negro danzante e spensierato di
Anderson diventa con Faulkner tragico e maledetto. Contro di esso con
la stessa implacabilità sta la fatalità del sangue come già la
fatalità del vizio contro l’innocente Temple di “ Sanctuary”.
Appare in questo libro quello che poi nei susseguenti sarà il
massimo difetto di Faulkner: la sua incapacità costruttiva, il suo
caotico romanticismo. I fatti si ingarbugliano, lo stile si fa
ansimante e aggrovigliato, i particolari soffocano le linee
principali. LO stile di Faulkner oscilla tra un realismo brutale e
quasi documentario e un tono evocativo oltremodo torbido e denso. La
sua prosa, piena di incisi e di digressioni, crea il personaggio
piuttosto con approcci e annotazioni di “ atmosfera” che con
tratti di carattere. Ma spesso si ha la sensazione che Faulkner
annaspi incapace di dominare la ribelle e tenebrosa materia.
Ma
Faulkner, pur con la sua confusione resta sempre scrittore di prima
mano. Le sue tragedie sono genuine, fin troppo. Con Steinbeck e Cain
siamo già nella imitazione. Steinbeck tira dapprima alla patologia
in “ Man and Mices”,
poi abbandonando questa ispirazione, con una versatilità
superficiale, volge al racconto di colore, finalmente con il noto
“Furore”
entra nella polemica sociale ricalcando situazioni e metodi non
troppo nuovi; talchè addirittura si è parlato per lui di Victor
Hugo. Lo stile di Steinbeck è quello solito del realismo americano,
efficace e diretto, ma ormai scaduto a meccanico procedimento. Più
sottile e artista è Cain.
C’è
nel Cain una grande abilità manipolatrice. Egli mette nei suoi
romanzi un pizzico di un po’ di tutto: patologia e questione
sociale, esotismo ed estetismo, sesso e arte. Il Cain esordì con “
The postman allway
rings twice” in cui
la situazione ricordava Faulkner e lo stile Hemingway. Nei libri
seguenti Cain o ricalcò quel primo fortunato romanzo come
nell’”Assicuratore”
oppure compose divertenti quanto superficiali macchine narrative,come
” Serenade”.
Il Cain non indietreggia neppure lui di fronte alle anormalità e
alle perversioni; ma così queste sue preferenze come lo stile
desunto, come è stato detto, da Hemingway, sanno di maniera.
Nella
maniera ha dato molto presto anche Saroyan, mettendosi a rifare se
stesso con stucchevoli e compiaciute stilizzazioni. Saroyan, armeno,
porta nella letteratura americana il decorativismo lineare,
l’affabulazione simbolica, il senso del meraviglioso che sono
propri alla novellistica orientale. Certe storielle di facchini, di
barbieri, di poveracci di Saroyan ricordano assai le minori novelle
delle Mille e una Notte. IL suo più volte proclamato disprezzo per
la letteratura e per ogni tradizione culturale si capisce se si tiene
conto del fatto che Saroyan è un asiatico trapiantato di fresco nel
gran bazar razziale degli Stati Uniti. Il Saroyan però con questo
suo disdegno di ogni apporto culturale è stato presto costretto a
rifare se stesso, come è stato detto, a non contare che sul proprio
leggero bagaglio sentimentale.
Con
Cadwell siamo daccapo nell’ America più genuina, quella del “
poor whites” dei poveri lavoranti bianchi del Sud. Il Cadwell ha in
proprio un umorismo assai pittoresco, sanguigno, pagano si vorrebbe
dire. La pesante materia in lui si alleggerisce fino ad un
contrappunto avventuroso, quasi picaresco. Greve invece e torbido,
con evidenti influssi dello Joyce di Ulysses, è Miller, descrittore
nel “ Tropic of
Cancer” della
malavita americana a Parigi.
E’
stato detto dal Cecchi nella sua “America Amara” che questi
scrittori e gli altri affini potrebbero con la loro violenza e il
loro gusto per le passioni sfrenate rappresentare un nuovo
romanticismo che attende un classicismo ordinatore. A un dipresso
quello che fu il teatro elisabettiano prima che venisse Shakespeare a
farne materia di grande arte. Soltanto ci pare che manchi all’America
quel fondo umanistico che permise alla rovente esperienza
elisabettiana di farsi con Shakespeare poesia. L’America è
immobile per barbarie meccanica e moderna come tutti i paesi
dell’Asia per antica sfiducia nell’uomo. Tutto vi si ripete, a
sazietà, ma poco vi si sviluppa.
Toppo
poca letteratura nuoce al romanzo americano almeno quanto nuoce a
quello europeo troppa letteratura.
Semmai,
fuori da ogni indagine estetica, sarebbe interessante notare fino a
che punto la crisi che travaglia gli Stati Uniti si rispecchi nella
letteratura di questi ultimi anni; e in quale misura la stessa crisi
abbia esercitato una influenza sugli scrittori. Lawrence in un suo
notevole saggio accennò al carattere molto contingente e, diremmo
noi, “contenutistico” della letteratura americana. E benché ciò
esorbiti dai limiti della critica strettamente intesa, non si può
fare a meno di avvertire soprattutto nel romanzo degli Stati Uniti
un carattere programmatico e per così dire augurale. In altre parole
la letteratura americana attuale potrebbe con la sua violenza e la
sua insistenza su certi argomenti preludere a rivolgimenti storici
importanti. Allo stesso modo che la letteratura illuministica
francese annunziò la rivoluzione dell’ottantanove e quella russa
della seconda metà dell’ottocento e la rivoluzione bolscevica.
Osservata
da questo punto di vista la letteratura americana è rivelatrice. Nel
campo sociale e anche politico l’America è un paese in stato di
natura. Poche leggi per un ristretto gruppo di persone, e tutto il
resto vi cresce con esuberanza e indisciplina come la vegetazione di
una jungla. La moderna letteratura americana testimonia il malessere
crescente che pervade il paese a misura che certi problemi
volontariamente lasciati insoluti dalla società liberistica e
mercantile si fanno acuti e impellenti.
I
problemi dell’America non sono i nostri problemi. L’Europa
avrebbe gli stessi problemi degli Stati Uniti soltanto ove le
barriere nazionale cadessero e i diversi popoli si confondessero. Le
letterature europee rispecchiano lo sforzo di conservare
l’originalità nazionale e nello stesso tempo adeguarla ad una
cultura sopranazionale, europea, universale. Per l’America
quest’esigenza non esiste. Essa cominciai dove gli europei
finiscono. La sua letteratura testimonia semmai una fusione già
avvenuta o in via di avvenire delle diverse razze che la compongono.
In Europa non esistono egemonie culturali se non temporanee, secondo
le fortune politiche e militari. In America fin da principio si
stabilì l’egemonia culturale anglosassone. La questione per
l’America non è di vedere quale cultura debba riportare la palma
bensì di fare assorbire e digerire alla cultura anglosassone tutti
gli elementi estranei che i milioni di emigranti hanno portato seco
oltreoceano. In questo senso l’esperimento non interessa soltanto
gli Stai Uniti ma il mondo intero. Dal suo successo si vedrà se la
cultura anglosassone abbia capacità tali di assorbimento da passare
dal piano provinciale e nazionale a quello sopranazionale ed
universale.
Per
orala letteratura americana attuale testimonia soltanto, come è
stato già detto, il malessere di questa difficoltosa digestione.
L’America dopo la crisi del 1929 si è scoperta ad un tratto non
più inglese bensì cosmopolita. Certi fenomeni sociali che hanno
trovato larga eco nella letteratura, quali il banditismo, la
questione negra, il proibizionismo etc.etc. sono il risultato diretto
di questa difettosa e disagiata trasformazione. Che ci dice per
esempio il romanzo americano dei vari Faulkner,Cain, Steinbeck,
Anderson, Dos Passos etc.etc. ? Che l’America sente i suoi latini,
slavi, negri, ebrei, indiani come elementi ancora estranei e tuttavia
già indispensabili alla sua futura e imminente formazione; che
l’etica puritana, nel gran naufragio delle vecchie culture e
religioni europee, è insufficiente a masse così sprovvedute e
informi e che la carenza spirituale, il turbine vuoto che può da un
momento all’altro provocare il ciclone, cresce ogni giorno; che la
legislazione elaborata dai padri settecenteschi durerà soltanto
quanto durerà l’”opportunity” ossia lo spirito
individualistico e la possibilità di far rapidamente fortuna; che,
infine, soltanto l’immobilità può mantenere l’instabile attuale
equilibrio degli Stati Uniti; una guerra, n rivolgimento interno,
qualsiasi atto insomma che coinvolga le masse americane potrà
portare a radicali seppure forse incruenti cambiamenti.
L’America
ha dei problemi da risolvere; e chi non ne ha? Soltanto i suoi
problemi riguardano più da vicino che tanti altri l’avvenire del
mondo. La forza degli Stati Uniti sta in quest’angoscia non nella
sua industria o nel suo oro e nel numero dei suoi abitanti.
Di
questa forza, di quell’angoscia, la presente letteratura americana
è, con la sua tensione, uno dei testimoni più eloquenti.
A.M.
******
Documento.
Anno II nn.11-12 Novembre-Dicembre 1942
Varieta’
Varietà,
parola internazionale, di stile liberty, scintillante e falsa come i
diademi delle sue ballerine. Ma nel paese che l’ha creato il
varietà si chiamò dapprima “music-hall”; e in quello che l’ha
adottato per primo, “ cafè-concert”, o se si preferisce la
brevità popolaresca “cafè-conc.”. Parole ambedue più profonde
e antiche del novecentesco varietà; la prima rievocante il profano
settecento inglese delle stampe di Hogarth; la seconda impennacchiata
e borghese come tutto ciò che fu creato al tempo del secondo impero.
Ho detto che il “ cafè-concert”è di importazione inglese;
bisogna tuttavia aggiungere che una volta passata la Manica fece
prestissimo a diventare francese anzi mediterraneo. Così che adesso
il “ café-concert” fa subito pensare ai velenosi aperitivi
all’assenzio o al nero tabacco caporal; e non possono non venire in
mente le sale fumose dai tavolini gremiti di uomini sanguigni ed
esigenti e le ballerine senza scrupoli e senza malinconie che si
esibivano davanti a queste assemblee, donne dai petti ridondanti e
dalla pelle bruna, animali robusti e accorti, educati alla dura
scuola delle peregrinazioni in Levante e in Sud-America, teste di
commercianti e di risparmiatrici. Tutto diverso era invece il
“music-hall” anglo-sassone. Se al “ cafè-concert” trionfava
una sensualità decisamente meridionale, questa era al tutto bandita
dal “music-hall”. Il “music-hall”, in America come in
Inghilterra, era un luogo di vizio che conservava quasi sempre le
apparenze della rispettabilità. Nel “ cafè-concert” si beveva
forte e si stava allegri; nel “ music-hall” il sentimentalismo
nordico faceva degenerare l’ubriachezza in malinconia o furore. Del
resto per apprezzare il valore di questa differenza basta pensare al
balletto così tipicamente inglese delle girls.
In Inghilterra esso fu e rimase un pezzo, un disciplinato battaglione
di ragazze bionde, dai visi indifferenti, dai petti sforniti e dalle
magre gambe bianche;
girls, ossia
fanciulle e tali erano spesso nel senso più corrente della parola.
In Francia, invece, le girls
dovettero parere insipide, ci furono molti adattamenti, alfine il
genio nazionale trionfò nel cancan: amplissime gonne nere roteanti
intorno una spuma di trine candide, gambe calzate di seta nera,
legacci rossi , cosce nude. Altro che girls.
Il cancan era la vittoria di una femminilità esperta e adulta. Forse
per indicare che non sarebbero mai stati capaci di tanta arditezza,
gli inglesi lo chiamarono il “ french cancan” ossia, non senza
dispregio, il cancan francese.
Il
“ music-hall” e il “cafè-concert” erano ancora l’espressione
di gusti nazionali ben definiti, giacchè in quei tempi lontani il
cosmopolitismo democratico del nostro secolo era ancora da venire e
ancora esisteva un folclore urbano non meno genuino e originale di
quello rurale. Ma con il novecento, tutto, come si dice, si
“organizza”. Intervengono le agenzie internazionali, gli
impresari, l’industria dello spettacolo. E tanto il “music-hall”
come il “cafè-concert” pian piano si trasformano nello
stereotipato varietà. Prima dell’attuale guerra , qualsiasi
viaggiatore che volesse passare una serata al varietà, sapeva in
anticipo quello che ci avrebbe trovato; e poco importava se la città
in cui era capitato fosse Parigi o Berlino, Milano o Madrid, Nuova
York o Buenos-Ayres. Sapeva quel viaggiatore che nella sala più o
meno decorata, sul solito palcoscenico, avrebbe visto i soliti
“numeri” ormai d’obbligo: la stella matura che tirandosi dietro
qualche metro di strascico discende regalmente, tra due siepi di
belle ragazze seminude, i gradini scintillanti di una scala
artificiale; gli acrobati esotici, filippini o boemi, dagli strumenti
sfavillanti di nichelio, dalle acrobazie impeccabili e noiose; i
corpi di ballo troppo numerosi, “inflazionati” di venticinque,
cinquanta, cento ragazze, tutte uniformemente sorridenti e
sgambettanti, specie di millepiedi in delirio; i prestigiatori in
frak, dalle facce verdastre e dalle mani fatate; i melensi
ammaestratori di scimmie, ani, asinelli e di ogni altra bestia mite e
paziente;la danzatrice “artistica”, greco-romana oppure
negro-orientale, prodiga in gesti alati, in slanci eroici, in
flessuosità e contorsioni allarmanti; e in breve tutte quelle
“attrazioni” che il progresso delle comunicazioni permetteva agli
impresari di diffondere in tutto il mondo senza troppo preoccuparsi
di variarle e adattarle ai gusti locali. Un varietà senza alcuna
varietà, mi si perdoni il bisticcio, anzi spaventosamente uniforme.
E’ un po’ come avviene nel cinema, ma in misura molto maggiore,
i nomi esotici annunziati con sfoggio tipografico sui cartelloni
nascondevano quasi sempre gli stessi personaggi per nulla
sorprendenti. Ci furono, è vero, dei tentativi per rinnovare il
languente varietà; ma furono quasi tutti compiuti in una direzione,
diciamo così, “contenutistica” , nel vicolo cieco del nudo e
della pornografia. In America il “burlesque”, varietà locale
molto ardito, non trovò di meglio che fare intervenire sul
palcoscenico qualche bellissima ragazza la qual, davanti ad un
pubblico congestionato di vecchi e di giovanetti, si toglieva con
studiata lentezza un panno dopo l’altro fino all’ultima
mutandine, in un silenzio tragico e rituale molto simile a quello che
di solito accompagna il “ salto della morte” e altrettali
esercizi. Alla fine la brava ragazza restava completamente nuda,
l’orchestra si risvegliava con un rullo di tamburi e il pubblico
entusiasmato batteva le mani reclamando un bis. Ci fu chi pensò di
far passeggiare la ragazza, dopo che si era spogliata, sopra una
pedana, tra le poltrone della platea. Oggi, credo che il “burlesque”
sia proibito agli Stati Uniti.
Per
conto nostro, abbiamo presto disertato le grandi sale, le costose
poltrone di prima fila dei varietà internazionali; e se vogliamo
ancora divertirci ad uno spettacolo di arte varia, scegliamo le sale
popolari, i cinema della periferia, i teatrini provinciali. Si
tratta, beninteso di un divertimento affatto speciale, agro e
ironico, di specie moralistica; quale appunto si può provare davanti
ad uno spettacolo come quello nel quale l’umanità grezza e
involontaria degli attori supera di gran lunga in interesse e “
attrazione” i loro maldestri esercizi. La cantante diplomata a
Milano dal petto sviluppatissimo, dalla larga faccia bianca e rossa
sotto i riccioli neri, vestita sgargiantemente, la quale canta
tenendo una mano sollevata e l’altra premuta sul cuore e finito di
cantare fa un mezzo giro della ribalta mostrando al pubblico un
crollante deretano tutto fasciato di seta ed ornato di nastri, certo
non mi affascina con il suo canto; ma in compenso mi fa sorridere e
mi piace come immagine. Le otto ragazze che compongono il corpo di
ballo sono tutte disuguali, neppure a farlo apposta, alcune
giovanissime e altre mature, quali bionde e quali brune, la prima
altissima e magra, la terza piccola e rotonda, ma che importa? Ai
loro corpi sgraziati non chiedo di eccitarmi con la procacità delle
forme e di stupirmi con la regolarità meccanica dei movimenti, bensì
di raccontarmi una storia. Il vecchio dicitore in frak, che cerca
invano e senza molto impegno di dominare il pubblico ribelle con le
sue antiche spiritosaggini e se ne esce inchinandosi sfrontatamente
ai fischi come se fosse applausi, è ben lontano dal brillante
personaggio che avrebbe dovuto rappresentare; ma incompreso la
vecchiaia, la miseria, l’antiquato repertorio, lo scetticismo e gli
acciacchi, gli hanno composto una parte che inconsapevolmente recita
a meraviglia. E che dire dei due equilibristi spettrali e affamati,
dai muscoli flosci e dai costumi miserabili che consultano con
occhio inquieto il trapezio dal quale debbono slanciarsi; e quando,
riuscito il salto, ricadono su due piedi con un inchino, non si sa se
provano più sollievo loro o il pubblico? Seppure per motivi diversi,
essi sono più emozionanti dei loro levigati colleghi delle platee
europee e americane.
Del
resto non sempre il piacere si alimenta soltanto di ironia e di
squallore. Seppure di rado, capita talvolta di scoprire sui
palcoscenici più impensati figure intere e poetiche, fuori da ogni
compenso di curiosità di compassione. Come avvenne a me, in quella
cittadina provinciale, durante un freddo inverno in un cinema
affollato di ragazzi e di coscritti. Finito il film, il pianoforte
attaccò uno sgangherato ballabile, quattro lampade si accesero alla
ribalta, e su quel minuscolo palcoscenico comparve una ragazza. Era
molto giovane con una gran zazzera crespa, gli occhi neri, le labbra
rosse. Non aveva addosso in quell’aria gelida che uno stiracchiato
reggipetto e una specie di fascia girata tra le gambe e intorno ai
fianchi; ma il suo corpo bruno, adombrato per le gambe e le braccia
di una rude peluria non pareva risentirsene e anzi infondeva calore a
chi lo guardava. Cominciò a cantare con voce limpida e sonora,
cercando nello stesso tempo di fare con le braccia dei gesti di
accompagnamento e di accennare con le anche e le gambe dei passi di
danza. A vederla muoversi con tanta ingenua goffaggine, veniva fatto
di pensare che da poco tempo avesse barattato la sottana e la
camicetta di ragazza povera con il costume provocante di
canzonettista. E questa idea, non sapevo perché, dava alla sua
nudità una credule aria di verginità violata e recente, come
davvero fosse stata la prima volta quella sera che ella esponeva il
corpo alla indiscrezione della platea. Cantò male; ossia senza
curarsi degli effetti, come avrebbe cantato, operaia, in una
fabbrica, o contadina, in un campo, con foga, abbandono e malinconia,
commovendosi probabilmente ella stessa alle stupide parole della
canzone; e finito di cantare scappò via in fretta, senza aspettare
gli applausi del resto scarsi e contrastati. Poi per quella sera non
comparve più sul palcoscenico.
Tali
modeste sorprese noi chiediamo al varietà; poco più in fondo, di
quanto ci aspettiamo alla comune umanità che incontriamo per le
strade o nelle case. Ma venti o trent’anni fa, auspice certa moda
decadente, al varietà saremmo andati per trarre ispirazione e
collezionare immagini. Correvano allora gli anni migliori del
varietà, non parlo dello spettacolo che è rimasto su per giù lo
stesso, parlo del favore e della curiosità che riscuoteva il
varietà tra gli artisti, pittori, scrittori, poeti. I primi, a dire
il vero, erano stati gli impressionisti e post impressionisti
francesi; la loro pittura aveva reso noti e popolari gli aspetti più
fantomatici, insoliti, e patetici dell’arte varia. Quanti
equilibristi, dopo Picasso; quante canzonettiste, dopo Toulouse
Lautrec; quanti pagliacci, arlecchini, danzatrici, domatori, soliste,
cantanti, etc. etc. L’impressionismo si trovava a suo agio in
questo mondo in cui un gesto, un riflesso di lampada, uno
svolazzamento di veste parevano fermare senza residui, il momento
culminante di quella vita effimera; ad altri credo che il varietà si
appellasse coi costumi, tanto più pittoreschi dei soliti costumi
borghesi. Poi, sulle tracce della pittura, tutta una letteratura
divagò sul varietà. Fu una letteratura di respiro breve, intenta
anch’essa a fermare taluni aspetti “metafisici” oppure
semplicemente trasognati del varietà. Ancora adesso certuni parlano
del varietà come di un soggetto “bellissimo”. Riconoscete in
loro gli ultimi epigoni di quella moda. Buon ultimo, il cinema, dopo
Varieté,
film tedesco con Emil Jannings, ci ha dato una quantità di film
sull’argomento. Il varietà continuerà certo a esistere e a
prosperare; ma la sua nobiltà di “contenuto” artistico , risale
ai primi decenni del secolo.
Forniamo
queste ragioni anche per giustificarci di non aver composto un
“pezzo” sul varietà. Ma il nostro lirismo e, forse, anche quello
del secolo si sono fortemente allontanati dal varietà come da tanti
altri fallaci aspetti della vita moderna. In fondo il varietà è
crepuscolare e decadente; non se ne può discorrere che in falsetto.
Continueremo dunque ad andare al varietà; ma ne parleremo sempre
meno.
PSEUDO
*********
Documento.
Anno III. nn.2-3-4 febbraio-marzo-aprile 1943
IN MARGINE
di
una vecchia letteratura
Il
dopoguerra, anche nel campo delle lettere è restato nella memoria
delle folle un colore fosco. Anzi per certi aspetti la letteratura
più di ogni altra arte parve risentirsi del gigantesco turbamento
della lunga guerra combattuta per quattro anni da tutto il mondo. Si
sa che la letteratura a differenza delle arti figurative e della
musica è suscettibile di riflettere direttamente e quasi, si
vorrebbe dire, di fotografare le mode anche più passeggere e
effimere. L’accusa di immoralità nella storia è sempre mossa alla
letteratura. E c’è il perché.
Prima
di tutto la letteratura è accessibile a tutti e però la reazione se
ci sarà sarà sempre più universale che per le altre arti; e poi la
letteratura è la sola arte che in certe determinate condizioni può
sostituirsi alla vita. Pensiamo a fenomeni come il byronismo, il
dannunzianesimo etc. etc.; letterari nelle origini appartengono
tuttavia più al costume che all’arte. La pittura viene subito dopo
nel grado di diffusione e di accessibilità; ma la antipatia per una
determinata maniera di dipingere sarà sempre motivata in modo
estrinseco, la maggior parte delle volte le critiche appuntandosi
contro la scarsa o nessuna fedeltà del pittore al vero.
Difficilmente, a meno di aperta pornografia,la folla avvertirà nella
maniera di un pittore quelle caratteristiche che così spesso
rimprovera alle lettere e che tuttavia sono presenti nella pittura
come nelle arti. Tanto per far nomi lo stesso signore che esprimerà
la sua sincera riprovazione per libri, poniamo, di Mario Marinai,
uno degli esponenti in Italia della cattiva letteratura del
dopoguerra, non esiterà a far fare il ritratto alla moglie da uno
di quei deplorevoli pittori mondani che nel campo figurativo
equivalgono appunto a Mariani. E’ dunque la letteratura la più
esposta tra tutte le arti alle critiche pagando così a caro
prezzola sua capacità di esercitare un maggior influsso diretto.
Venendo
al dopoguerra, bisogna distinguervi due letterature: quella vera, dei
buoni scrittori che risentì dell’epoca soltanto in maniera
indiretta e comunque riscattò questo influsso facendone materia di
poesia, e l’altra caduca che ebbe una straordinaria fioritura, tale
da giustificare i timori che allora si concepirono sopra una supposta
decadenza delle lettere e che piuttosto che un fatto letterario fu un
vero e proprio fatto di costume. Alla prima accennerò soltanto di
sfuggita alla fine di questa nota la quale vuole piuttosto essere
dedicata alla seconda; come a quella che può servire a lumeggiare la
psicologia e il gusto facile e diffuso dell’epoca.
La
letteratura del dopoguerra non fu già l’inizio bensì la
conclusione di un’epoca: quella romantica. Quello che distingue il
dopoguerra dall’anteguerra nel capo delle lettere, non è già
l’indirizzo e la materia bensì il grado di intensità. Le premesse
dello sfrenato individualismo e della brutale sincerità che
distingue molta produzione letteraria del dopoguerra era state già
poste negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento così
dal decadentismo come dal verismo. La guerra servì soltanto a far
maturare in maniera mostruosa i frutti di quei due alberi. Gli uomini
del dopoguerra erano gli stessi che avevano fatto la guerra, la loro
reazione all’immane eccidio combattuto in nome di ideali che poi
furono traditi, fu un desiderio di sincerità assoluta e nel tempo
stesso una vaga aspirazione a nuovi ideali che tenessero il luogo di
quelli antichi crollati.
Il
desiderio di sincerità porta sempre alla brutalità, l’aspirazione
agli ideali ad un’arte umanitaria e d propaganda. La letteratura
del dopoguerra nelle sue forme più correnti e commerciali fu dunque
ora brutale e ora umanitaria e spesso le due cose insieme. Le masse
insomma chiedevano alla letteratura non arte bensì grossolana
verità o direttive di vita. Purtroppo trovarono chi volle
soddisfarle con grave nocumento loro e soprattutto dell’arte.
Alla
prima categoria, quella dei libri “veri” letti per eccitamento e
sollazzo appartengono moltissimi romanzi a fondo erotico che in
quegli anni conobbero una straordinaria fortuna. Successi come quelli
di Mariani, Pitigrilli, Da Verona in Italia, Marguerite ( La
garconne), Barbusse ( L’Enfer) in Francia e tanti altri negli
altri paesi d’Europa, attestano, con le loro elevatissime cifre di
vendita, che l’erotismo e la scostumatezza non erano soltanto in
quei libri, i quali altrimenti non avrebbero riportato un così
grande successo, ma anche nelle folle dei compratori. Sul piano
letterario quei libri cercavano di adornare la loro pornografia con
gli ultimi miserabili orpelli del decadentismo oppure con le false
sincerità di un rancido naturalismo.
Più
importante e più significativa fu la voga di cui godettero gli
scrittori a fondo umanitario, pensoso, o gli scrittori di chiaro
valore letterario per la prima volta interpretati secondo
quell’aspirazione a nuovi ideali di cui si è detto sopra. Di
questi ultimi fu notevole soprattutto il caso di Dostoieschi ( sic)
che pure aveva già conosciuto una diffusa notorietà verso la fine
dell’Ottocento. Ma allora Dostoieschi era stato apprezzato per il
suo valore letterario e insomma per la scoperta che in quel tempo
veniva fatta dalle classi colte europee della letteratura russa. Nel
dopoguerra, invece, in molte parti d’Europa, esso divenne una
specie di santone, di portatore di una parola nuova. La moda di
Dostoieschi nel dopoguerra attesta lo smarrimento dell’epoca nella
stessa misura che quella dei pornografi. Perché Dostoieschi fu
l’eroe di tanta gioventù di quegli anni? Perché dai suoi romanzi
si poteva desumere tutta una maniera di vivere come a suo tempo era
stato fatto con Byron e D’Annunzio. Questa voga più sentita in
Europa che da noi, venne da qualcuno tacciata con la parola di
“profondismo”. Effettivamente Dostoieschi aveva tutti gli
elementi per piacere a quel tempo turbato. I suoi eroi romantici
avevano una cupezza e un disordine che bene si intonava con l’aria
apocalittica lasciata dalle distruzioni della guerra. L’Europa nel
dopoguerra dubitava di se stessa e del proprio destino; e
Dostoieschi, antieuropeo e reazionario mistico e asiatico, sofistico
ed emotivo era ben fatto per piacere ad un continente che cercava
fuori di sé le ragioni ideali.
Inoltre
piaceva in Dostoieschi il torbido ed asiatico misticismo, veniva
fatto di pensare che in quella torbida contaminazione di programma e
di patologia, di dottrina e di psicologia fosse contenuto un”
messaggio”. Piacque a molti e non dei minori di ritrovarsi in
Dostoieschi, l’uomo della sofferenza, della pietà, e della
trascendenti aurore boreali. Gide in un libro famoso tracciò un
ritratto del russo in cui tutti furono d’accordo nel riconoscere
soprattutto Gide stesso. In Germania si andò più in là; esaltati
dalla lettura dei romanzi di Dostoieschi tre studenti, se ben
ricordo, commisero un delitto dostoieschiano. In Italia il Rubè di
Borghese era anche un romanzo dostoieschiano: e così in misura
minore “ La Velia” di Cicognani. I russi del resto erano alla
moda. I russi bianchi con il loro fastoso sfrenato disordine ancora
memore degli splendori zaristi, quelli rossi perchè appunto
apportatori di una “ parola nuova”. Tutto questo era vita e non
letteratura. Quest’infatuazione coincise con l’avanzata russa su
Varsavia, con l’apertura degli innumeri cabaret russi nelle
capitali europee, con lo scoppiare delle varie rivoluzioni
bolsceviche in tutto il mondo. Fu l’ultimo e più tragico esotismo
dell’Europa, dopo quello settecentesco del balletto persiano e
turco, dopo quello levantino del primo ottocento, dopo quello
giapponese degli anni a cavallo tra ottocento e novecento. Ma anche
in questo il dopoguerra non aveva fatto che portare fino alle ultime
conseguenze certe premesse irrazionalistiche e mistiche
dell’anteguerra.
Ma
altri “ messaggi” non mancarono seppure sorretti da un’arte
molto meno affascinante di quella del russo. Ognuno aveva da
proporre una cura a questa Europa ammalata. E nessuno si accorgeva
che le malattie sociali e politiche non si curano con i libri bensì
con rimedi più appropriati ed efficaci. L’inglese Lawrence,
disgustato dall’insopportabile artificiosità e sterilità della
razionale e meccanica civiltà occidentale, credette di aver trovato
il rimedio nel sesso. E a proposito bisogna osservare che fu un
privilegio molto discutibile del dopoguerra, di aver fatto la
scoperta appunto del sesso. Di esso si era sempre discorso nella
letteratura europea ma sottovoce oppure nel segreto delle taverne e
dei gabinetti galanti. Il dopoguerra scoprì il sesso come fatto
primordiale e rinnovatore, quasi nuovo idolo da mettere al posto di
quelli infranti. S’è detto del desiderio di sincerità che avevano
riportato dalle trincee i combattenti; ma tale desiderio non sarebbe
forse bastato che a creare una letteratura pornografica se in quel
tempo la psicanalisi non avesse dimostrato come il sesso era
all’origine di tutti gli atti umani anche i più ordinari e
innocenti. La voga della psicanalisi, enorme soprattutto nei paesi
nordici, parve per un momento creare addirittura una nuova specie di
magia, con il suo rituale e i suoi misteri; e quasi tutti allora si
scoprirono o per lo meno pararono di “complessi”. Comunque il
sesso era uscito dalla zona vergognosa in cui era stato sin allora
confinato. E la predicazione di Lawrence, seppure muovendosi in un
piano tutto diverso da quello della psicanalisi e spesso in contrasto
con essa, affondava le sue radici nello stesso irrazionalismo
romantico che era alla base di tanti altri movimenti del dopoguerra.
Lawrence
predicatore puritano rovesciato avrebbe voluto che la civiltà
europea si salvasse attraverso il sesso, che tornasse alle religioni
galliche arcaiche come per esempio quella dei messicani
precolombiani e tutti gli altri primitivi. In Lawrence la polemica
contro la civiltà meccanica e decadente attingeva le sue forze
all’ultimo romanticismo. La sua teoria del sesso è parente
stretta dell’”elan vital” bergsoniano, e del razzismo di
Gabineau. Sangue, sesso, slancio vitale, tutti valori irrazionali,
romantici da sostituire a quelli tradizionali europei che avevano
fatto cattiva prova durante la grande guerra e contro i quali già da
un secolo si accaniva la polemica romantica. Il guaio si era che
Lawrence stesso era tutt’altro uomo da quello che avrebbe voluto
essere; e che il suo teorizzare non era il prodotto di una forza
attiva bensì la rivalsa di un profondo e morboso decadentismo. Il
razionalismo e la decadenza che denunziava nella civiltà era lui il
primo ad esserne affetto. Come è noto la lode degli istinti parte
sempre dagli individui meno istintivi. Sono invece i veri istintivi
che volentieri predicano la chiarezza della ragione.
Altra
letteratura propagandistica e pratica che ebbe molta fortuna nel
dopoguerra fu quella cosiddetta di guerra. Il libro che dette la
stura fu il notissimo “ All’ovest niente di nuovo” del
Remarque. Ed era stato preceduto dall’analogo successo della “
Grande parata” film di guerra che iniziò la serie delle
rappresentazioni cinematografiche degli orrori della grande guerra.
Così in “All’Ovest nulla ( sic) di nuovo” come in tutti gli
altri che lo seguirono era chiaro il tentativo di rappresentare la
guerra sopra uno sfondo umanitario. Letteratura di propaganda dunque
e tanto più efficace in quanto pretendeva ad una documentaria
obbiettività. Il valore artistico di questa letteratura era assai
scarso; nulla essa portava di nuovo muovendosi nell’ambito del
vecchio naturalismo, ma essa faceva parte di tutta una voga
umanitaria e sociale che in quel tempo si battezzò con il nome
lusinghiero di letteratura europeizzante. Soprattutto in Germania ci
fu un diluvio di tali libri. Molti pensarono che la moda di tali
romanzi testimoniasse un profondo rivolgimento nello spirito della
folla, da guerresca diventata pacifista. Attestava invece niente
altro che l’emotività dei lettori ancora freschi delle prove della
grande guerra e semmai piuttosto che un disgusto della guerra, un
disgusto dl modo con il quale era stata condotta la guerra mondiale
in particolare.
Nel
dopoguerra altresì le formule letterarie che nell’anteguerra erano
state limitate a piccole avanguardie, si diffusero e diventarono
democratiche. Attraverso il teatro e la stampa movimenti
aristocratici quali il cubismo, l’espressionismo, il dadaismo e
ultimo il surrealismo conobbero una larga seppure equivoca fortuna.
Gli “ismi” letterari ed artistici del dopoguerra così numerosi e
così popolari attestano da un lato la larga diffusione del gusto e
della letteratura e dall’altro il rapido esaurirsi di quella
letteratura di eccezione che era stata soprattutto la specialità
della Francia nei primi anni del secolo. E’ una caratteristica
dello spirito democratico di mettere l’eccezione alla portata di
tutti. In quegli anni soprattutto a Berlino e a Parigi ci fu una
vera fiera di “ rivoluzioni” letterarie ed estetiche. Ma gli
artisti veri che nel passato le avevano provocate tendevano sempre
più ad appartarsi; e sempre più i “movimenti” erano opera di
meteci e di modaioli superficiali. Così che quando con le
rivoluzioni e le guerre ultime si verificò il crollo di tutta quella
civiltà si ebbe la sensazione che nulla di veramente valoroso fosse
stato soffocato in germe. Anche nel campo dell’avanguardia era
l’individualismo ottocentesco che dava le ultime tratte; e non una
nuova arte che si affacciava al mondo.
Bisogna
mettere scrittori quali Pirandello tra i grandi successi non
letterari o per lo meno non soltanto letterari del dopoguerra. E’
chiaro ormai che il successo del teatro pirandelliano, la voga che
conobbe l’aggettivo “pirandelliano” in quegli anni si devono
soprattutto alla crisi del concetto individuale, lontana nelle sue
origini ottocentesche ma nel dopoguerra, a causa appunto della
guerra, giunta al suo acme. Il mondo intero ravvisò in Pirandello
il descrittore di un’umanità scentrata, dubbiosa, problematica,
sfiduciata sulle sorti umane e sulla ragione umana. Si ripeteva per
Pirandello lo stesso fenomeno che per Dostoieschi apprezzato e
ammirato per tutt’altre ragioni da quelle dell’arte. Pirandello
fu l’ultimo e più vasto successo di “costume” nel campo della
buona letteratura.
Bisognerebbe
ora parlare della letteratura vera, di quella che fiorì nel
dopoguerra senza giustificazioni popolari e fortune non letterarie.
Bisognerebbe parlare di Proust, di Valéry, di Gide e anti altri in
Francia, di Eliot della Wolf di Huxley di Joyce in Inghilterra, della
nuova poesia e dei cosiddetti frammentisti in Italia. E di tanti
ancora che daranno in futuro senza dubbio il suo più vero e più
durevole color al dopoguerra. Ma questa nota non ha voluto che
additare certi riflessi della vita del dopoguerra nella letteratura e
non il valore degli scrittori genuini che fiorirono in quegli anni.
D’altra parte sebbene tutti questi scrittori, quali più quali
meno, partecipino del colore del tempo in cui hanno pubblicato le
loro opere, non sarebbe tuttavia possibile senza arbitrio
raggrupparli sotto un comune denominativo; a ciascuno spetterebbe un
esame attento il quale non potrebbe essere che estetico. Ci
militeremo per questo ad osservare che quando questi autori conobbero
una voga non letteraria, la conobbero per le medesime ragioni di
quelli che abbiamo già enumerati. La polemica in Huxley,
l’umanitarismo in Mauriac, la questione sessuale in Gide e Proust,
e così via determinarono in vari momenti la popolarità extra
letteraria di quegli autori. La borghesia più raffinata riuscì
anche a creare per qualche mese il mito di un poeta difficile quale
Valéry o di un grande scrittore quale Joyce. Ma essi appartengono
come i loro fratelli già nominati più all’arte che al costume.
Il
dopoguerra letterario fu un tempo di mode turbinose ed effimere. Poi
accrescendosi sempre più le difficoltà sociali e politiche si parlò
sempre meno di letteratura e sempre più di guerra. Finchè venne la
guerra davvero facendo crollare con tutti i suoi valori quella
civiltà letteraria che dalla guerra aveva tratto le sue origini.
A.M.
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