«Le strutture molto antiche, come la torre di Pisa e la Garisenda, hanno bisogno di cure particolari, come capita alle persone anziane. A Pisa abbiamo fatto un’estrazione controllata di terreno, dalla parte in cui la torre non pende. Questa scelta è stata la conseguenza della diagnosi. A Bologna si potrebbe fare la stessa cosa solo se il problema fosse lo stesso, ora fondamentale è capire che cos’è che fa muovere la torre. Bisogna mettere insieme i dati e ricondurli a una causa, esattamente come fa un medico davanti alle analisi si una signora molto avanti con gli anni, che di acciacchi ne ha accumulati tanti». Il professor Nunziante Squeglia, docente di Geotecnica all’Università di Pisa, è stato nel comitato presieduto da Michele Jamiolkowski, che gestì l’intervento di stabilizzazione della torre più famosa nel mondo. Ora che la Torre di Pisa è al sicuro, la Garisenda contende il primato di notorietà internazionale alla “cugina” toscana. Sperando in un comune lieto fine.
Professor Squeglia, la vicenda della Torre di Pisa può rappresentare una “lezione” per curare la Garisenda?
«La torre di Pisa è stata oggetto di un intervento che non era mai stato fatto prima al mondo e negli ultimi 20 anni ha continuato a “raddrizzarsi”, cioè a diminuire la pendenza. Di fatto, sono stati estratti 37 metri cubi di terreno, una quantità significativa, sul lato soprapendenza. Non si trattava solo di ridurre la pendenza della torre, ma ottenere un miglioramento delle condizioni statiche. Questo perché il problema della torre di Pisa, che rischiava di crollare in prospettiva, era legato al terreno. Soffriva di un problema di stabilità dell’equilibrio, cioè era ed è ancora oggi troppo alta rispetto a quello che il terreno su cui posa consente di sopportare in termini di stabilità. La riduzione di pendenza ha fatto sì che il terreno diventasse più rigido, proprio sfruttando il comportamento meccanico del suolo: una volta schiacciato, il terreno diventa più rigido alle successive “pigiate”. Per la Garisenda si potrebbe fare la stessa operazione solo se il problema fosse quello del terreno, bisogna assolutamente capire cosa la fa muovere».
Perché secondo lei la diagnosi è così importante? In fondo si tratta comunque di conservare e restaurare un bene storico, come si fa in molti altri casi...
«Non è così, nelle strutture molto antiche, la diagnosi è assolutamente importante, perché altrimenti si sbaglia la cura. Nella migliore delle ipotesi, una cura sbagliata non ha effetti, nella peggiore però ha effetti negativi. La torre di Pisa è stata chiusa al pubblico per 10 anni, dal 1992 al 2001 e sono cominciate allora misure sistematiche, che hanno mostrato come fosse una torre pendente ma non ferma. Nel tempo cioè aumentava la sua inclinazione e questo l’avrebbe portata a ribaltarsi».
Cosa ha portato ad accendere i riflettori sulla Torre di Pisa, all’epoca?
«Il crollo di una torre a Pavia, nel 1989, che fece anche 4 morti. Mentre i primi studi sulla torre di Pisa, agli inizi del ‘900 furono legati al crollo del Campanile di San Marco a Venezia, del 1902. Ora secondo i nostri studi, la torre di Pisa è a posto per almeno 6 secoli».
Quali azioni sono state fatte per mettere in sicurezza la torre, durante i lavori?
«Nel periodo in cui sono state fatte le estrazioni di terreno, la torre è stata dotate di un sistema di salvaguardia, che consisteva in una coppia di tiranti, in grado di applicare azioni stabilizzanti se necessario. Un po’ come quelle bretelle che si mettono ai bambini quando cominciano a camminare. Se serve, uno le tira. Nel caso della torre sono state installate e mai usate, ma mantenute in condizioni operative fino a poco prima del Covid, pronte per essere installate al bisogno. Dal 1993 fino al 2001 sul lato nord c’erano lingotti di piombo che dovevano fare da contrappeso per bloccare l’incremento di pendenza. Non potevamo rischiare di perdere il paziente mentre ne stavamo studiando il caso».
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