Brillante corsivista su La Stampa e attento direttore di HuffPost, Mattia Feltri ragiona con noi sulle storture della politica che ogni giorno passa in rassegna, sotto la scure della sua penna tagliente.
Ieri hai scritto una considerazione molto incisiva, sulla politica che pretende di fare scelte etiche.
«La politica ha spesso questa pretesa, ma il governo attuale, incapace di andare oltre una dialettica bello/brutto, buono/cattivo, amico/nemico, ne ha fatto la bandiera issata più in alto. L’ultima proposta di legge, pensata per punire chi, nelle challenge nate sui social, mette a repentaglio l’altrui e la propria incolumità, ne è un capolavoro. Chi mette a repentaglio l’altrui incolumità è già punito, chi mette a repentaglio la propria non potrà mai esserlo: nessuno può essere processato e condannato per avere fatto male a sé stesso. Invece questo governo pensa sia possibile perché pensa di essere proprietario dell’etica dei cittadini e persino dei loro corpi. Hanno il pensiero degli ayatollah – sebbene meno strutturato – e nemmeno lo sanno. È sbalorditivo».
La politica affoga in un mare di fuffa, in questo scorcio di stagione estiva. Tutta.
«Sì, ed è la caratteristica comune a tutti i governi con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi decenni. Mario Draghi è stata l’unica eccezione. Perché non aveva il drammatico problema del consenso: la politica non può vivere senza consenso. Ma non può neanche vivere solo di consenso. Altrimenti si crea il pantano del governo Meloni, con tanta fuffa e pochi risultati, che però è quello che abbiamo visto anche nei governi precedenti ».
C’è però una tendenza al populismo digitale, da social, che forse peggiora…
«Il consenso viene essenzialmente dai social, oggi. Più che da giornali e tv. Ma non è una novità. Conte, e prima di lui Renzi hanno badato molto ai follower. Come ci insegnano a fare gli americani. Il capostipite fu Barack Obama. Oggi i miei figli, che sono adolescenti, mi dicono che Kamala Harris è bravissima su TikTok. Saper governare i social diventa prodromico al governo del Paese».
Si confonde il ruolo del leader con quello dell’influencer. Se inseguo i like metto in secondo piano la sostanza.
«Non c’è dubbio. “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”, frase molto citata di De Gasperi. Era il 1948, non è cambiato poi molto».
Oggi è tutto immediato. Nel senso: non mediato. Niente partiti, sindacati, chiesa. Quest’assenza di corpo intermedio pesa?
«Sì, decisamente. Perché mostra con chiarezza che questa intermediazione non riguarda solo la comunicazione, ma tutte le organizzazioni sociali. Pensiamo al lavoro, completamente frantumati: oggi ci sono migliaia di contratti diversi, parcellizzati, che hanno finito per indebolire il mondo del lavoro, i loro diritti, i salari… ».
Su questo i sindacati e i partiti della sinistra fotografano il lavoro con le diapositive in bianco e nero. Parlano di lavoro che cambia quando è già cambiato da 15 anni…
«Decisamente. Trovano geniale fare un referendum sul jobs act, che è quasi del tutto superato. Sarebbe come fare un referendum sulle musicassette. Farebbe un po’ sorridere, no? Se ne può discutere, ma parliamo di cose superate».
Sinistra e destra sono parallelamente impegnate a sbandierare i vessilli del passato. Le ideologie. Però senza più scuole di politica e con l’immediatezza social.
«La politica in questo è il riflesso del paese reale. La società italiana guarda indietro. Non mi sembra che noi sui giornali diamo una rappresentazione diversa. Se guardiamo a cosa vogliono i cittadini, a cosa interessa davvero alla gente, spesso bisogna ammettere che scelgono la distrazione. Che vogliono la distrazione di massa. Io dirigo HuffPost e monitoro minuto per minuto i risultati degli articoli online. Facciamo dei pezzi importanti di politica estera che non vengono letti, scriviamo la polemica sulla pugile Carini contro l’algerina e i numeri volano».
Dalla politica, dai leader, ci si aspetterebbe che fossero un po’ meglio dei loro follower…
«La politica dovrebbe avere un dovere in più, per sfuggire a questa logica. E ritrovare il coraggio di definirsi elitaria. In un tempo in cui le elites sono viste come canaglie, corrotte, maledette. È adesso che chi vuole guidare il paese deve avere il coraggio di alzare l’asticella, perché altrimenti si viene portati a fondo da una spirale mostruosa. Non è che la politica è brutta e cattiva e rovina il mondo: è che il mondo si rovina da sé».
La politica ha fatto tutti i passi indietro che poteva fare: si è tolta il finanziamento pubblico, ha chiuso gli organi di partito, ha ridotto il numero di parlamentari, ha votato la legge Severino… Cos’altro può fare per abdicare, rinunciare, fuggire dalla sua missione?
«Sono élites che si sono spodestate da sole in un percorso trentennale iniziato con Mani Pulite. Da allora tutti dovevano mostrarsi nuovi, immacolati. Dall’eliminazione dell’immunità parlamentare alla riduzione dei parlamentari c’è stato un lungo percorso in cui tutte le guarentigie sono andate autoriducendosi. E tra i parlamentari si è fatto a gara tra chi dichiarava il Parlamento più losco».
A forza di ripeterlo qualcuno li ha presi sul serio: il Parlamento conta sempre meno. Si va avanti a suon di decreti-legge del governo.
«Il Parlamento ormai si è delegittimato, ha rinnegato se stesso e adesso è entrato nella fase dello svuotamento, è in una fase di smobilitazione. Le direttive Ue, le decisioni della Corte costituzionale, le sentenze Tar, le ordinanze dei sindaci e i decreti del Governo sono le fonti del diritto. Al legislatore di Camera e Senato non è rimasto niente. Tanto che per parlare, va sui social. Il Parlamento non c’è già più. Né nella sua funzione legislativa né in quella dibattimentale».
Non si è disamorato l’elettorato, si è disamorata la politica?
«Ma certo. Da tempo abbiamo ormai la convinzione che quei palazzi abbiano volontariamente esaurito la loro missione».
In questo vuoto di potere che cosa si insinua?
«Una crisi profondissima della democrazia. Arriverà una trasformazione, è inevitabile. Dovremo sapere come governare questo passaggio, che può andare in due direzioni diverse: un ripensamento e rinnovamento della democrazia, per rafforzarla, oppure una svolta di tipo autocratico. Che vivono di plebiscito: usano le elezioni come plebiscito e le fanno passare per momento democratico».
Forse siamo già pre-plebiscitari. Il corpo elettorale si vota a un catalizzatore principale, anche se per alternanza è di volta in volta diverso. Più o meno con la stessa quantità di voti vengono plebiscitati i Cinque Stelle, Renzi, Salvini, oggi Meloni…
«Vero, ma pensavo a un plebiscito diverso: ogni leader politico oggi ha il suo piccolo bagno di folla. Una sua comunità (digitale ma anche reale) che porta in trionfo il suo leader, attribuendogli un mini-plebiscito quotidiano».
Da qui la ricerca spasmodica del fumogeno del giorno su cui investire i social.
«La questione delle due pugili, anche dolorosa per molti motivi, lancia il tema dell’oggettivazione delle persone. Che vengono fatte oggetto della tua propaganda, della tua autopromozione, della tua condanna morale. Su questo andrebbe fatto un grande dibattito. Ma ormai anche le grandi questioni vengono ridotte alla superficie pura. E quando fai un approfondimento vero, quello esce dai radar».
La polarizzazione, il bianco e il nero, lo schieramento obbligato: altre malattie da social.
«Ormai non ci si pone più il problema di avere a che fare con esseri umani. Si guarda all’altro come a un numero, un oggetto. Proprio come diceva Hannah Arendt ne La banalità del male. Una settimana fa abbiamo visto il processo etico al papà di Turetta, per delle frasi che non si dovevano neanche sapere. Perché prendersela con la pugile algerina o con il papà di Turetta? A che serve, se non a sentirsi emergere per avere infangato un altro? Bisogna mettersi invece nei panni dell’altro, immaginarci al suo posto, prima di parlare. Usiamo la tastiera per aggredire, usiamo il massimo della violenza consentita dalla situazione. Ma se domani aprissero lager per femminicidi, stupratori, o semplicemente per immigrati, torneremmo al volo alla violenza degli anni Trenta e Quaranta. Lo spirito è ancora quello».
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