Se lo chiedono in molti in queste ore. In particolare i giornalisti che, alle prese con il cambio della guardia a Palazzo Chigi, appaiono spiazzati. Dal punto di vista comunicativo c’è chi vede il Presidente incaricato come un alieno: “Non parla, ascolta”. Silente.
Tanto che per ricostruirne il pensiero e decrittarne l’indirizzo corrente i giornali rievocano suoi discorsi passati. Il premier incaricato è british. Dei colloqui con i leader non riferisce. E quel che poco, lo si viene a sapere dalla viva voce degli interlocutori. Lui non conferma né smentisce. Alla Banca d’Italia e alla Bce aveva due assistenti alla comunicazione. Ora Draghi ha scelto di appoggiarsi all’Ufficio stampa della Camera dei deputati. Ma questo non vuol dir nulla, perché anche Conte quando fece le sue prime consultazioni si è affidato allo stesso ufficio. Per giorni si è parlato di un possibile candidato come portavoce di Draghi, nella persona di Stefano Lucchini, responsabile della comunicazione e relazioni esterne di Intesa San Paolo, ma l’interessato ha smentito. Se sollecitato dallo stesso Draghi non è dato sapere.
LA DITTATURA DI ROCCO
Dopo la dittatura di Rocco Casalino alla comunicazione di Palazzo Chigi in stile Grande Fratello, in qualche modo “ricattatoria”, tra “trattative” dei singoli e “acquiescenza” delle testate in un continuo e reciproco do ut des. Dopo il tempo “delle veline attraverso le quali qualsiasi favola è stata propalata” e con i direttori di Tg che vogliono sempre sapere “Rocco cos’ha detto?” e adesso, vizio italico, “fanno tutti finta di non conoscerlo”, non manca chi auspica l’inizio di un’era all’insegna di una “ecologia” della comunicazione di governo. Come l’ecologia “della mente” per l’antropologo Gregory Bateson. Una purificazione. Una “depurazione dallo svaccamento”. Un azzeramento degli orpelli. La fine “sia del ‘casalinismo’ sia del retroscenismo” giornalistico, fatto di gossip e spifferi. Un cambio di paradigma che rischia, però, di mettere in crisi la stessa categoria dei giornalisti. E, fors’anche, dei comunicatori politici.
“Immagino che ci sarà un portavoce di Palazzo Chigi molto istituzionale – dice a Professione Reporter Maria Teresa Meli, una delle firme di punta del Corriere della Sera – al contrario di quanto fosse il suo predecessore”. Per Meli è meglio, “così finalmente spariscono le veline e ne può trarre vantaggio anche il giornalismo”. In che senso? “Nel senso che tutto quell’ambaradam che è stato costruito nei due anni precedenti non ci sarà più. Ed è un bene per la categoria, perché ci mette di fronte a cosa significa fare il nostro mestiere, che è cercare le notizie. All’inizio era così, poi tutto si è trasformato tramite una serie di portavoce, di cui Casalino è stato il massimo esempio, e ci si è ridotti a prendere delle veline e spacciarle per notizie. E lo si è potuto vedere anche da come erano fatti i giornali all’epoca di Conte… Forse si potrà tornare a fare i giornalisti, concentrandosi sulle cose che fa il governo e non soltanto sulle chiacchiere”. Cosa significa in concreto questo discorso? “Se noi ci fossimo concentrati sulle cose che fa o faceva il governo – spiega Meli facendo un esempio, e non dei più marginali – avremmo sottolineato il fatto che il Recovery stesse in un emendamento alla manovra, uno scandalo su cui i giornali, in un Paese normale che non sia l’Italia, avrebbero pubblicato paginate su paginate per giorni. Invece non l’abbiamo fatto. Tutta la stampa non l’ha fatto”.
FREDDEZZA E DISTACCO
“Nessuno parla con Draghi e non c’è nessuno che possa fare da interfaccia”, racconta Fabio Martini, che da Tangentopoli in poi narra per La Stampa, di cui è inviato, vicende e retroscena che hanno contrassegnato la storia recente della politica italiana. Per Martini, questa è “una chiave di lettura importante su ciò che ci lasciamo alle spalle e non ritroveremo più”. Una nuova stagione, dunque? “Draghi non sembra quasi appartenere al mondo italiano. Per anni è stato fuori dal Paese, alla Bce, non usa i social. Di lui sappiamo che ha avuto sempre un rapporto molto complicato e distante con i media, con conferenze stampa molto distaccate e molto fredde. Mai uno spin o un’informazione mediata, informale. Per quel che si può presumere, ci saranno canali molto formali e molta distanza. Questo, almeno, ci dice il passato”, secondo Martini. “Tutto molto riservato”. Insomma, anche nel corso di queste consultazioni, “Draghi non comunica, ma lo fanno i suoi interlocutori, liberi di raccontare ciò che vogliono. E tutto ciò che è filtrato può esser vero, ma anche il suo contrario”. Come dire: chi racconta racconta, ma non viene smentito. Parliamo di una rivoluzione, quantomeno nello stile? “Adagio. Gastone Alecci, capoufficio stampa di Giuliano Amato – racconta ancora Martini – era celebre per il suo mutismo, tanto da esser definito un ‘portasilenzi’, e Betty Olivi, capoufficio stampa di Mario Monti, era facilmente rintracciabile. Non è che ti desse la ‘guazza’ o degli spin particolari, però rispondeva, offriva informazioni e, soprattutto, le cose che ti diceva erano vere”. Sono solo dei precedenti, che fanno capire come nel genere “tecnici” si possono trovare somiglianze.
DIFFERENTE CARATTERE
In un’intervista a Giuseppe De Rita sul Corriere Economia di lunedì 8 gennaio, Dario Di Vico ricorda che il governo Ciampi ha saputo anche produrre una comunicazione “calda” con i cittadini e, venendo a Draghi, De Rita osserva che “la sottolineatura continua di un suo carattere antropologico differente non lo aiuta”. “Si introduce un personaggio che non ha bisogno e interesse a mediare”, tanto che lo stesso sociologo avverte: “Guai a creare la figura di un premier che sa tutto, capisce tutto e non ha bisogno di parlare con nessuno. Draghi non è un drago”. È un po’ quel che pensa anche Maria Teresa Meli, che osserva: “Bisognerà evitare il rischio che Draghi, ritenuto salvatore della Patria, venga trattato con troppo rispetto, perché deve esser considerato come un presidente del Consiglio e in un rapporto informazione-istituzione di tipo normale e dialettico”.
Quel che sarà in futuro va visto “in relazione al tipo di governo che si farà e allo spessore delle figure politiche ci saranno”, osserva Stefano Menichini, dal 2016 al gennaio 2020 capo ufficio stampa e responsabile della comunicazione di Montecitorio e, dall’agosto 2020, portavoce del ministro dell’Economia Roberto Guatieri. “E saranno tutte figure a propria volta interessate a comunicare in proprio, quindi si dovrà seguire la comunicazione del governo nel suo insieme, perché si corre il rischio che ci possa essere un po’ di cacofonia”. “È già successo con il governo Salvini-Di Maio – ricorda Menichini – ed è stato come avere due governi paralleli, che lavoravano su binari contigui anche sul fronte della comunicazione, senza che ci fosse una voce unitaria”. E poi c’era Casalino… “Sì, per Conte, ed era una specie di lavoro a tre, tanto che comunicavano come se stessero al governo senza l’altro… La cacofonia, la ridondanza, è una possibilità che esiste in maniera maggiore in un governo con più soggetti, a più teste”. Quindi, riassume Menichini, per le sue caratteristiche la comunicazione di Draghi “avrà un tono che non conosciamo da molti anni”.
SPECIALISTI E DI QUALITA’
Potrebbe ricordare la comunicazione espressa da Ciampi o da Monti, anch’essi due tecnici? “Non è che poi Monti non comunicasse. E così Ciampi. Parliamo di personaggi che sono anche molto comunicatori di se stessi. Monti, in realtà, comunicava persino con il corpo. Sarà così di sicuro anche con Draghi”, scommette Menichini, che si pone però un interrogativo: “Da Berlusconi in poi si parla di disintermediazione. E se invece, con Draghi, assistessimo a un revival dell’intermediazione del giornalismo? E, in particolare, della intermediazione professionale di qualità?” Perché, considerato l’approccio di Draghi alla politica, ai temi, “si tratta ora di interpretare provvedimenti, politiche e linguaggi né immediati né banali né elementari, come è stato finora”. “Ricordo – dice Menichini – che le considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Draghi, che all’epoca seguivo, erano dei discorsi pazzeschi, molto densi, pieni di riflessioni e che contenevano anche dei messaggi di leadership morale molto forti. Tutto ciò necessita di un’alta capacità di decifrazione e di veicolazione. Specialistica e di qualità. Contenuti Draghi ne fornirà molti, soprattutto di policy, di visione non banale, dopodiché avremo una compagine di governo che di retroscena continuerà a fornirne tanti, perché tanta e tale sarà anche la geometria della maggioranza, con momenti dissonanti dove messaggi e interessi confliggeranno inevitabilmente”.
“Durante l’era Casalino il giornalismo è scaduto molto”, analizza ancora Meli, e questa invece “può esser l’occasione perché possa fare un salto di qualità e tornare ad essere, appunto, solo e semplicemente giornalismo”. In fondo, auspicare un’ecologia della comunicazione è un atto di modernità. In sé salutare. E c’è chi suggerisce che per la categoria si apre ora una fase difficilissima, in cui si lavorerà “molto in chiaro”. Cioè su provvedimenti, atti concreti, documenti. Draghi, c’è da scommetterci, parlerà l’essenziale. Pochi spifferi. E i retroscenisti di professione “avranno vita dura nel trovare i virgolettati da attribuire al premier Draghi” come per esempio “Draghi dice ai suoi…”, espressione tipica.
“Dobbiamo resettarci”, sembra l’imperativo categorico della categoria.
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