Quasi pensando, o forse sognando, di essere il presidente del Consiglio (per ora incaricato) di un Paese "normale", Mario Draghi cambia passo. Non più silente come nel primo giro di consultazioni, affrontate (con studiata mossa) da solo davanti alla litania dei gruppi partitici, comincia a dare indicazioni.
E per dare il segno della svolta che il Paese deve vivere - di più: che deve sentire sulla pelle - mira e parte da uno dei temi più centrali: la scuola, laboratorio di formazione delle menti e delle competenze di una società. Quella scuola troppo a lungo rimasta chiusa o bloccata in questi mesi della pandemia, quasi fosse un settore trascurabile.
Lo fa con parole di assoluto buon senso: occorre rivedere il calendario per recuperare le troppe lezioni perdute; e occorre evitare problemi nel settembre prossimo, cancellando l’annoso problema delle cattedre vacanti. «I docenti siano in classe dal primo giorno dell’anno scolastico», avrebbe detto. Come dire: quello che dovrebbe essere la normalità. Ma che in un Paese come l’Italia, dove troppe farraginosità e stratificazioni di interessi e conflitti si sono via via incrostate, rischia di diventare l’eccezionale. È già ricca la casistica di governi che hanno avuto seri problemi con il mondo della scuola. E le riforme si sono succedute l’una dopo l’altra, senza distinzioni fra destra e sinistra, a riprova che nessuna ha affrontato con efficacia nodi strutturali.
Da qui bisogna ripartire, ha indicato il presidente incaricato, dimostrando di non avere alcuna intenzione di eludere i problemi veri e seri. Anche per lui non sarà facile imprimere una svolta al sistema. Perché ciò avvenga è necessario che non lo voglia solo lui, ma che converga il maggior numero possibile di "attori". Discutendo e confutando, come normale che sia, ma alla fine decidendo. Se si vuol cogliere l’occasione storica del Pnrr, come tanti hanno ripetuto, e scongiurare che si riveli un "attimo fuggente", non è più tempo di rinvii.
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