venerdì 11 settembre 2020

Un film di Al Weiwei sul Coronavirus in Cina rifiutato da festival occidentali, compreso Venezia. Censura? ( da Avvenire.it, di Angela Calvini)

 Da qualche giorno è apparsa online, sul portale Vimeo on demand e Alamo on demand, l’opera «clandestina» del regista e attivista cinese Ai Weiwei girata durante il lockdown a Wuhan, l’epicentro mondiale del contagio da coronavirus. Un documento eccezionale Coronation, date le pochissime immagini ufficiali giunte a noi dalla Cina, questo documentario di 100 minuti girato in remoto dal regista, che vive in esilio in Europa dal 2015, grazie a decine di volontari che hanno inviato immagini sfuggite alla censura del regime. Immagini girate di nascosto negli ospedali, nei reparti di terapia intensiva, ma che hanno testimoniato anche il rigido controllo sociale da parte dello Stato verso i singoli, che durante la pandemia è stato ulteriormente esasperato.

A detta dello stesso Ai Weiwei, in diverse interviste, si tratta di «un ritratto dell’assoluto lockdown di Wuhan, ma anche di una nazione capace di impiegare grandi risorse anche con importanti costi umani. Cerca di riflettere su cosa i cinesi vivono ordinariamente». Il film di Ai Weiwei sta però diventando un caso, dopo le accuse del regista di essere stato boicottato per motivi politici, poiché a sua detta, nessuno dei media e dei festival vuole infastidire la Cina potente partner commerciale e ampio mercato cinematografico. L’artista racconta che avrebbe voluto mostrare Coronation in anteprima a qualche film festival, ma che New York, Toronto e Venezia, dopo avere espresso un iniziale interesse, non lo hanno selezionato. Ed ha aggiunto che anche piattaforme come Amazon e Netflix lo hanno rifiutato.



Pronta la risposta di Alberto Barbera, direttore della 77ma Mostra del Cinema di Venezia che si concluderà sabato, che ieri ha risposto indirettamente al regista cinese: «Nessuna censura, la polemica è ridicola. Non saremo mica tutti ammattiti se Toronto, New York e Venezia non lo abbiamo accettato. La nostra è stata una valutazione estetica e critica. D’altronde Ai Weiwei è sempre stato il benvenuto anche con opere complesse, come è successo tre anni quando aveva portato al Lido Human flow sul dramma dei rifugiati».

Un portavoce di Netflix ha fatto sapere al New York Times che la piattaforma ha rifiutato l’opera perché sta lavorando al proprio documentario sul coronavirus, mentre l’ufficio stampa del New York Film Festival replica sottolineando che «le pressioni politiche non hanno mai giocato un ruolo nei contenuti dei festival». Fatto sta che però un lavoro, firmato da uno dei più importanti nomi nel campo dell’arte contemporanea mondiale, non ha trovato una collocazione di pregio.

Il film da una parte racconta l’efficienza della macchina organizzativa cinese nel gestire la pandemia, che in Cina ufficialmente ha visto 4.700 morti rispetto agli oltre 170mila degli Stati Uniti, dall’altra però denuncia le conseguenze sulla vita delle persone comuni. Il film è girato secondo una scansione cronologica, iniziando il 23 gennaio seguendo una coppia che guida nella neve tornando a casa nella periferia di Wuhan e che viene bloccata, controllata e posta in isolamento; e si conclude l’8 aprile, quando le restrizioni si sono allentate, con la gente che brucia delle banconote, una tradizionale offerta ai defunti, all’angolo di una strada. In mezzo vengono seguite cinque storie, che si dipanano fra il vuoto surreale delle strade disinfettate da efficienti squadre, alla costruzione in sole due settimane di un nuovo ospedale dedicato, ma anche la pesante sorveglianza della pubblica sicurezza. Il ritratto che ne esce è quello di come la Cina abbia affrontato la pandemia sotto lo sguardo di uno stato di controllo totale determinato a trasmettere una narrazione di efficienza, e non di perdita umana e di dolore.

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