Il “più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”, come l’ha definito la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il taglio del cuneo fiscale previsto nel “decreto Lavoro” approvato lunedì primo maggio dal Consiglio dei ministri porta con sé un diluvio di polemiche e reazioni infuocate alla propaganda dell’esecutivo su un tema sensibile come quello delle tasse. La misura chiave, non a caso la più ‘sponsorizzata’ dalla stessa premier nel video girato a ridosso del CdM e poi pubblicato sui canali social, evitando accuratamente di convocare una conferenza stampa e dunque ricevere le domande dei giornalisti, è quella del taglio del cuneo fiscale: si tratta sostanzialmente della differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quello che il lavoratore percepisce come stipendio netto.
Un intervento fortemente auspicato da praticamente tutte le forze politiche presenti in Parlamento, di maggioranza così come di opposizione, oltra agli stessi sindacati che hanno fortemente criticato il pacchetto di misure presenti nel decreto Lavoro. Nel video-spot, Meloni parla però di un taglio del cuneo che comporta “il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni”, finanziato con un “tesoretto di 4 miliardi di euro”. Le cose però non stanno esattamente così.
Partiamo dai numeri. La misura presente nel decreto interviene solo da luglio a dicembre 2023: per i redditi fino a 25mila euro all’anno la riduzione sarà di 4 punti percentuali, che si sommano ai 3 già in vigore dal 2022 con una misura simile introdotta dal governo guidato da Mario Draghi. Per i redditi fino a 35mila euro il taglio aggiuntivo sarà sempre di 4 punti, che si aggiungerà al precedente del 2 per cento. Secondo il Mef, il Ministero dell’Economia, “l’aumento nella busta paga dei dipendenti viene stimato, nel periodo luglio-dicembre, fino a 100 euro mensili di media”: numeri smentiti da Luigi Marattin, responsabile economico di Italia Viva, l’esecutivo “non ha deciso un aumento medio di 100 euro al mese, ma un aumento massimo di 60 euro (cioè quello medio è molto più basso), e solo per 6 mesi”.
C’è poi la questione della propaganda meloniana. Definire il taglio del cuneo fiscale come “il importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni” non corrisponde a realtà: lo spiega bene il sito di fact-checking Pagella Politica, che sottolinea come l’affermazione della premier sia quantomeno esagerata.
Non serve d’altronde tornare indietro di decenni: sia il governo Draghi che il governo Renzi avevano adottato misure simili ma con risorse stanziate ben più imponenti. Nel 2014 il governo guidato dall’allora segretario Pd Matteo Renzi introdusse il bonus 80 euro, una detrazione di 960 euro l’anno per i lavoratori dipendenti, che di fatto si ritrovavano in busta paga 80 euro in più ogni mese. Il costo di quella misura era di oltre 9 miliardi di euro l’anno, come ricorda Pagella Politica citando le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, un organismo indipendente che vigila sui conti dello Stato.
Con il governo Draghi, in occasione della legge di bilancio per il 2022, l’esecutivo aveva stanziato 7 miliardi di euro per la riduzione dell’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche. Tra i provvedimenti c’erano inoltre un taglio di un miliardo sull’Irap, imposta pagata anche da alcune categorie di imprese ma anche dai lavoratori autonomi, oltre ad uno stanziamento da 1,8 miliardi di euro per ridurre temporaneamente per tutto il 2022 di 0,8 punti percentuali i contributi previdenziali per i redditi fino a 35 mila euro, poi lievitati di ulteriori 1,2 punti percentuali col decreto Aiuti-bis.
Insomma, la propaganda di Meloni sul cuneo fiscale viene smentita dai numeri.
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