Non so nulla di lui, non so nemmeno ballare, richiamami tra dieci minuti che mi faccio venire un’idea». Era morto Michael Jackson. Il Corriere mi chiese una voce che facesse da controcanto. C’era anche la prima a Spoleto di Gianni Schicchi messo in scena da Woody Allen. I direttori d’orchestra coetanei di uno dei cantanti più leggendari e controversi si smarcarono rivendicando la loro «classicità», e le ore passavano. Riccardo Muti pensò alle vicende dei grandi castrati barocchi come Farinelli o Caffarelli, «oggetti di culto e di una idolatria sfrenata, spesso vittime di questo culto». Li collegò alla splendida ambiguità di Michael Jackson che non era né nero né bianco, una voce che non era né maschile né femminile. «Inseguiva la ricerca della giovinezza e della bellezza a tutti i costi, una tipicità che, senza giudizi morali, lo portò alla tragedia».
Riccardo Muti è un uomo imprevedibile. Profondamente meridionale, passa al «tu» dopo anni, ti mette alla prova raccontandoti «in amicizia» fatti non pubblicabili sul mondo musicale e i suoi protagonisti. Se superi le prove diventi uno di famiglia. Nei suoi viaggi musicali ha una cerchia di persone fidate. Ha un senso di riconoscenza e gratitudine per Karajan: «Tra di noi parlavamo italiano e ci davamo del lei»; nel 1971 lo fece debuttare al Festival di Salisburgo nel Don Pasquale, e da allora Muti non ha mancato un anno. Ma lì vuole dirigere concerti, non più opere, «troppe provocazioni» (l’ultima volta fu l’Aida «minimalista» di cinque anni fa). Quando gli dicono che ha gusti troppo tradizionalisti nelle regie, cita i modernisti Vitez o Ronconi con cui lavorò. Nessuno nel suo cuore ha sostituito Strehler: «Potevamo scambiarci i ruoli». Ma Damiano Michieletto, genio del nostro tempo, non sono riuscito a farglielo digerire. Dice che i protagonisti della scena sono sul podio; vuole essere al servizio della musica, come lo era Toscanini. Ad Anif, alle porte di Salisburgo, fino a poco tempo fa, Muti aveva una villa in Karajan Strasse, «ereditando» da Karajan il domestico.
Ha il vezzo di un cellulare di prima generazione, piccolo e mezzo scassato, che non vuole cambiare. Non ama le polemiche ma per Lissner, il sovrintendente del San Carlo che ha cancellato tre sue produzioni, compresa quella con i suoi amati Wiener Philharmoniker («l’orchestra di tutta la vita»), fece un’eccezione: non vuole più rimettere piede nel teatro della sua città. Se a uno spettatore scappa una parola durante un concerto, si volta e lo incenerisce con lo sguardo. Ma negli avventurosi Viaggi dell’amicizia del Ravenna Festival, in città sperdute o in zone di guerra, mescola musicisti dilettanti locali ai suoi fidati «Cherubini» dell’Orchestra giovanile da lui fondata, vivendo col sorriso gli imprevisti, come quando in Kenya si ruppe l’aereo e si passò la notte in bianco; e a Sarajevo, dove i palazzi erano ancora bucati dai mortai serbi, invitò bambini di sei anni a cantare «oh mia patria, sì bella e perduta».
Alla Fondazione Prada di Milano erano giorni di pioggia durante il suo corso per giovani direttori, il podio distava un metro da una sorta di discendente da cui scorreva l’acqua facendo un rumore che sembrava un pezzo di John Cage. Non c’era via d’uscita. Imperterrito, tirò avanti soffrendo il fracasso in silenzio. In tante piccole realtà del Sud, l’unico modo di fruire la musica in modo gratuito sono le bande, che lo riportano a ricordi lontani. Il governo nel 2008 pensò di tagliare i fondi alle bande. Telefonò col suo cellulare primitivo: «In tremila rischiano di chiudere, dobbiamo fare qualcosa, questo è un delitto culturale». Una battaglia civile sul Corriere, e vennero riaperte. Reclama l’orgoglio dell’italianità, più orchestre per i giovani con la riapertura di tanti teatri chiusi. L’ex presidente Napolitano nominò Abbado senatore a vita, apertamente di sinistra, e non lui, il suo conterraneo Muti, «anarchico» liberale.
Nel ’68 portò, in una piazza calda e rossa come Firenze, Mascagni, allora vituperato, ritenuto compromesso col fascismo, spalleggiato da un intellettuale antifascista come Roman Vlad. Una volta, a un concerto in Senato, dopo uno dei consueti appelli a favore della musica contro la disattenzione dei politici che «in comune con Beethoven hanno una cosa: la sordità», Napolitano bisbigliò: «Parla come un tribuno». Al contrario dei politici, quello che dice mantiene. Per esempio, dopo il suo debutto al Metropolitan di New York, nel 2010 con Attila dell’amato Verdi, «il musicista che parla all’uomo dell’uomo», disse che non vi avrebbe più rimesso piede. Così è stato. Ma con gli Stati Uniti ha un rapporto saldo, come direttore della Cso, Chicago Symphony Orchestra, che è tra le prime cinque al mondo; e lo scorso 23 giugno per Un ballo in maschera mantenne la parola «negri» spiegando come le intenzioni di Verdi fossero tutt’altro che razziste, affidando quella parte a un tenore di colore: «Sono contro la cancel culture», disse nella città di cui è sindaca una donna afro-americana che all’insediamento non volle essere intervistata da giornalisti bianchi. Alla Scala è rimasto diciannove anni, riportando il Verdi dimenticato. Due anni fa per un concerto con la Cso era a un passo dal dirigervi nuovamente un’opera, «vi torno con grande felicità, portando l’orchestra del mio cuore nel teatro del mio cuore», mi disse. Saltò tutto per l’incidente in camerino con l’altro Riccardo, Chailly: qualcuno fece lo sgambetto a Muti, non preavvisandolo della visita, ma è anche vero che il suo entourage lo lasciò da solo.
Con Roma ha un rapporto non risolto: all’Accademia di Santa Cecilia non dirige dagli Anni 80, dopo una battutaccia volgare di un orchestrale che alla prova della Messa da Requiem verdiana, dopo uno dei suoi pianissimi intessuti di trasparenze, esclamò, «a mae’, che ha messo la sordina?». Con l’Opera di Roma, dove con fiuto partenopeo non volle assumere incarichi formali, solo onorari, tagliò dopo lo sgarbo di una tournée in Giappone dove a decine, compreso il primo violino, presentarono il certificato medico, non capendo l’importanza di una verifica internazionale di quel prestigio. Riccardo Muti ha il senso della famiglia, è molto protettivo soprattutto con i tre figli, gli piace starsene defilato a Ravenna, la città di sua moglie Cristina, dove ha esposto la bandiera ucraina e dove si sente protetto. Lì ha il suo piano, il quarto di coda degli esordi, curiosi strumenti musicali, la foto con la regina Elisabetta e Kleiber il re della musica, il teatro di burattini («è il pubblico più rispettoso del mondo»), Pulcinella portafortuna ovunque, un armadio con le cittadinanze onorarie e le 23 lauree ad honorem, la prima coppa vinta come direttore nel 1955 a Molfetta. Una casa dove avverti la consapevolezza del talento, il dovere della memoria, l’ironia che tempera le pressioni, la solitudine del podio.
Dopo un giorno o due, morso dall’inquietudine sale in macchina e sfida l’autovelox in autostrada, e parte, magari per la Puglia: dalla sua casa in campagna si vede il castello di Federico II, altro suo riferimento. Muti ricorda un altro leone della scena, Vittorio Gassman. Entrambi monumentali e fragili. Ma Riccardo non conosce la depressione. Se è di buonumore, sciorina barzellette sconce che ascolta incuriosito anche il vescovo di Ravenna, che spesso lo accompagna in tournée. Muti non è così religioso, anche se una grande spiritualità vive dentro di lui, anche grazie alla musica. Ha denunciato le banali strimpellate pop delle chiese, che hanno abbandonato il patrimonio sacro. Direttore all’antica? Mica tanto, alla sua Accademia ha scelto tante giovani direttrici: sono più numerose dei maschi, sono «le più attrezzate tecnicamente e musicalmente, non è una scelta pro e contro». A Chicago le invita regolarmente: «Possono svolgere bene questo lavoro, purché restino se stesse senza mascolinizzarsi forzatamente».
Nessun commento:
Posta un commento