domenica 28 settembre 2025

B.V. troppo poco per la Fenice ( da Operaclick, di Carlo Dore jr.)

 

Beatrice Venezi: troppo poco per scomodare Oscar Wilde, troppo poco per la Fenice

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Nella furia delle polemiche collegate alla nomina di Beatrice Venezi alla carica di direttore musicale de La Fenice (con gli orchestrali del principale teatro veneziano che protestano, chiedendo a gran voce la revoca della designazione), quasi tutte le dichiarazioni a sostegno della bacchetta lucchese – declinate talvolta attraverso accorati post sui social, talaltra nella forma di autorevoli editoriali – si risolvono nell’affermazione in forza della quale la Venezi sconterebbe la sua dimensione di donna talentuosa e di destra, destinataria in quanto tale di critiche figlie di un ingiustificato pregiudizio ideologico, per giunta cavalcato da detrattori che non avrebbero mai avuto modo di ascoltarla dal vivo. Il punctum dolens, in altri termini, sarebbe costituito dal fatto che la Venezi (giovane, donna e di destra) ha talento: e il talento, parafrasando Oscar Wilde, non si perdona.

Argomenti, quelli appena richiamati, in verità molto deboli e, a prima lettura, non meritevoli di replica. Eppure, la costante reiterazione di siffatti argomenti impone di fare chiarezza sui termini del dibattito in essere sulla figura del “direttore” appena asceso al vertice di una delle più prestigiose istituzioni liriche d’Italia. 

Al riguardo, occorre partire da un presupposto, tanto banale quanto, per certi versi, imprescindibile: nella valutazione di un cantante, di un direttore, di un regista, la sua appartenenza ad un determinato schieramento appare completamente irrilevante. Vuoi perché tanti sono gli artisti che scelgono di non esternare le loro posizioni (qualcuno conosce l’orientamento politico di Francesco Lanzillotta, di Michele Mariotti, di Marco Armilliato o di Daniel Harding, giusto per citare qualche nome?), vuoi perché siffatte convinzioni lasciano indifferente il critico mediamente attento: la radicalità del pensiero di Christian Thielemann non ne scalfisce l’aura di sommo interprete wagneriano; il mito di Herbert Von Karajan o di Wilhelm Furtwängler non risente in alcun modo delle più o meno intense connessioni con l’epopea del Reich. 

Le considerazioni appena formulate conducono a una conclusione obbligata: la partecipazione di Beatrice Venezi ad Atreju, i selfie con la Giorgia nazionale, la costante rivendicazione della sua identità ultraconservatrice e la sua vicinanza ai Fratelli che governano i dì dolenti in cui viviamo non hanno peso per il critico di cui sopra, perché insistono non sulla dimensione del “direttore”, ma su quella, differente, del “personaggio”. E se il giudizio sul direttore deve impegnare (anche in maniera fisiologicamente divisiva) le riflessioni di critici ed appassionati d’opera, le considerazioni sul “personaggio” non possono travalicare il differente (e, ai nostri fini, non avvincente) ambito della cronaca di costume. 

Il problema risiede però nel fatto che tra “direttore” e “personaggio” viene (talvolta istintivamente, talvolta dolosamente) alimentato un pericoloso cortocircuito: le critiche al “direttore” assumono infatti, nella ricostruzione offerta da parte dell’opinione pubblica, il differente significato di critiche al “personaggio”, alla sua identità di donna, giovane e di destra. Critiche mai suffragate, secondo i fautori dell’opinione di cui sopra, dall’ascolto diretto in teatro.

Su quest’ultimo punto, tuttavia, gli endorsement alla neo-direttrice della Fenice si arrestano di fronte a un ostacolo difficilmente superabile: all’ascolto diretto di chi scrive (ascolto maturato in teatro, non attraverso i video disponibili in rete) la prova del podio ha sempre offerto della Venezi l’idea di un direttore non migliore dei tanti onesti professionisti che, senza ambire alle luci della ribalta, guidano le orchestre dei vari teatri sparsi sul nobile suolo italico. Un direttore che, con gesto frenetico e poco misurato e tempi poco comprensibili, non è mai riuscito a proporre al mio modestissimo orecchio una lettura personale e originale delle opere eseguite. 

Nessuna emozione, solo normale routine: fermo restando il carattere inevitabilmente soggettivo di ogni opinione, forse è troppo poco per gridare al talento imperdonabile. Forse è troppo poco per scomodare Oscar Wilde. Forse è troppo poco per La Fenice.

Si prova quindi con l’altro argomento: la Venezi viene colpita perché donna e giovane, osannata all’estero ma costretta a faticare oltre misura (in ragione dei pregiudizi ideologici già confutati) per affermarsi all’interno dei patrii confini. Tesi del pari poco ricevibile, se si considera Oksana Lyniv (già assistente di Petrenko alla Bayerisches Staatsorchester) attuale direttore musicale al Comunale di Bologna o le esperienze di Speranza Scappucci tra il Met e La Scala.

Rimane allora il dubbio che il plauso dei sostenitori della Venezi vada non tanto al direttore, quanto appunto al personaggio: al modello della donna giovane e conservatrice promossa al vertice di una delle più antiche istituzioni della penisola. Opinione certamente legittima, se calata in una dinamica di confronto ideologico; opinione che però collide con la condivisibile chiosa proposta negli articoli e nei post a cui si è in precedenza fatto cenno: la politica dovrebbe sostenere il teatro, non imporre al teatro le sue violente dinamiche. Dinamiche imperdonabili: molto più del talento di Oscar Wilde.


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