giovedì 5 settembre 2024

Governo Meloni, no al rimpasto: è quasi una crisi ( da La Stampa)

 


Image_0© ANSA

Sebbene le sorti di Sangiuliano restino incerte, malgrado il chiarimento avuto ieri con la premier a Palazzo Chigi, viene da chiedersi perché Meloni, anche in episodi precedenti, abbia preferito difendere i suoi ministri inguaiati invece di sostituirli. In passato, in altri casi, con governi di centrosinistra e centrodestra, si è preferito accorciare lo strazio di un membro dell’esecutivo ridotto a bersaglio dell’opposizione e dei media. Stavolta invece si tratta di un ministro del mirino di una persona con cui ha avuto certamente rapporti sentimentali, che malgrado le smentite dell’interessato si ostina a sostenere di aver le prove di promesse scritte e mancate di incarichi che non ha ricevuto, di inviti in cui non ha pagato e così via. Tal che il destino di Sangiuliano resta in qualche modo sospeso. E poiché tra pochi giorni il ministro Fitto lascerà il suo incarico per andare ad assumere quello di membro della Commissione europea e la ministra Santanchè potrebbe essere rinviata a giudizio per l’inchiesta giudiziaria che la riguarda e volge alla fine, per ragioni diverse sarebbero tre i componenti dell’esecutivo da sostituire. Ciò che tecnicamente si dice rimpasto.

Ma perché appunto il rimpasto o la semplice sostituzione di un ministro in Italia è più difficile che altrove? Nella storia della Repubblica infatti se ne ricordano pochi. Innanzitutto perché - lo dimostra l’intenzione della premier, ma anche di altri suoi predecessori di avocare su di sé o sui più stretti collaboratori le deleghe di Fitto - non è così automatico cambiare una pedina. Specie in una coalizione che s’è data la regola interna che non si discute mai solo di una nomina, ma si aspetta di poter metterne sul tavolo diverse, in modo da stabilire un regime di compensazioni che dovrebbe servire a lasciare tutti contenti. Dovrebbe, perché in realtà man mano che si assommano le caselle vuote e le cariche da assegnare, l’alleanza va verso la paralisi. Ed anche se nessuno ha in mente di far saltare il tavolo, si rischia di accrescere lo scontento invece di mitigarlo.

Infine, ma poi non tanto, ci sarebbe la Costituzione e l’interpretazione che ne dà il Quirinale: per cambiare tre ministri occorre un passaggio parlamentare. Ciò che fa dire spesso che un rimpasto è quasi come una crisi.

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