ESILIOLOGIA
di Francesco Lotoro
In merito all’analisi della produzione musicale concentrazionaria, ritengo necessario coniare un nuovo termine: esiliologia.
Urge studiare quanto accadde dal 1933 in poi per comprendere il vuoto pneumatico del sostegno agli ebrei d’Europa e la conseguente sciagura umanitaria che devastò il continente euro-asiatico.
Nel settembre 1933 le disposizioni del Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda in merito alle linee generali dell’arte e della musica controllate dalla Reichmusikkammer proibirono ai musicisti ebrei residenti nel Reich il pubblico esercizio artistico-professionale; al danno si aggiunse la beffa dello Jüdischer Kulturbund, associazione-fantoccio istituita dalla stessa Reichmusikkammer che radunava musicisti ebrei allontanati dalla vita musicale e nel quale ambito era possibile esibirsi in recital riservati all’utenza ebraica senza possibilità di affermazione pubblica di opere e talento.
Lo Jüdischer Kulturbund si sciolse all’indomani della famigerata Kristallnacht del 1938 a ragione dell’uccisione dei suoi membri o della loro deportazione nei Campi.
Nella sua estensione da movimento politico a ideologia onnicomprensiva degli aspetti artistico-culturali della società tedesca, il nazionalsocialismo concepì la definizione di Entartete Musik analogamente a Entartete Kunst; filoni musicali modernisti, innovativi del linguaggio musicale – dodecafonia, jazz, musical, Broadway – o rivoluzionari rispetto alla tradizione sinfonica brahmsiana e wagneriana furono bollati come Musica Degenerata.
Sotto tale scure ricaddero inesorabilmente compositori ebrei come Hanns Eisler, Ernst Krenek, Arnold Schönberg, Franz Schreker, Kurt Weill ma anche compositori non ebrei come Béla Bartók, Paul Hindemith, Igor Stravinskij, Anton Webern.
La Germania del pensiero, delle arti e della musica conobbe un ampio e accelerato fenomeno di esilio verso USA, Canada, Paesi centro-sudamericani, Oceania, Palestina Mandataria Britannica e Shanghai; insisto sulla parola “esilio” anziché migrazione in quanto tale fenomeno, ancorché essere di stretta esigenza sociale ed economica, fu consapevolmente dettato da un disperato bisogno di preservare ispirazione artistica, vocazione letteraria e una visione di futuri linguaggi musicali improvvisamente scomparsa all’orizzonte di una intera generazione di compositori ebrei.
Il migrante sceglie di andar via da un Paese economicamente povero e ostile in cerca di lavoro, inserimento sociale, alfabetizzazione dei propri figli e altro; i musicisti lasciavano invero una Germania che aveva superato la crisi economica del 1929 e stava gradualmente affermandosi in un ruolo politico e strategico nel consesso internazionale con partner europei e oltreoceano.
Tuttavia, la sconfitta della Prima Guerra Mondiale e le dolorose perdite territoriali ardevano sotto la cenere della grande – seppur breve – primavera intellettuale della Repubblica di Weimar; come una sorta di autolesionismo dell’ingegno, il Reich mise al bando cervelli dell’arte e del linguaggio musicale che nei Paesi ospitanti – da Brasile, Bolivia, Panama e Guatemala sino alla Nuova Zelanda – apportarono un insperato contributo alla crescita e allo sviluppo della vita musicale fatto di progetti e sviluppo commutato in orchestre, istituzioni concertistiche, formazioni corali, scuole.
Il Reich si svuotò di pensieri e immaginarii; i musicisti esiliati lasciarono un’Europa gradualmente cannibalizzata dai prodromi di una imminente Guerra e dall’imbarbarimento dottrinale di nazionalsocialismo, fascismo e militarismo esasperato.
La geografia musicale mondiale fu totalmente stravolta e ridisegnata all’indomani dell’ascesa del nazionalsocialismo (1933), Leggi di Norimberga (1935) e Anschluss (1938); il cuore musicale dell’Europa si disseminò tra continenti extraeuropei, neonate repubbliche e colonie d’oltreoceano.
Più dello scoppio della Guerra, è la Kristallnacht lo spartiacque storico ed etico tra intellettualità ebraica europea e nazionalsocialismo avanzante nelle sue proporzioni territoriali, ideologiche e assolutistiche; lo svuotamento umano e speculativo dell’Europa germanofona sì manifestò all’indomani del pogrom attuato dal Reich nella notte tra 9 e 10 novembre 1938.
La Kristallnacht fu una tragedia generazionale della Storia del Vecchio Continente; i Lager furono l’effetto, non la causa della rottura creatasi nel 1938 tra cultura tedesca e cultura ebraica e le deportazioni arrivarono all’apice di un clima di irreversibile dissanguamento di risorse umane e progressiva desertificazione dell’intelligentsia musicale europea, ebraica e non.
Paradossalmente, il Lager nella sua tragica trasformazione concettuale da luogo di cattività a risorsa di creatività, diventò l’ultima Bayreuth e la prima Darmstadt del linguaggio musicale del Novecento.
Deportato a Dachau e in seguito rifugiato a Shanghai, il pianista ebreo austriaco Karl Steiner (foto) affermò che, senza Hitler e Stalin, la dodecafonia sarebbe stata la colonna portante del linguaggio contemporaneo; ciò è molto probabile e, del resto, la generazione degli allievi di Schönberg – particolarmente la colonna ebraica da Józef Koffler a Viktor Ullmann sino a Egon Wellesz ed Eduard Steuermann – fu decimata da deportazioni, eliminazione fisica ed esilio.
Neanche il futurismo di Luigi Russolo con i suoi strumenti musicali Intonarumori e l’inedito linguaggio di Béla Bartók sopravvissero alla catastrofe intellettuale di Guerra e deportazioni proseguite dopo la fine del conflitto nell’Europa dei regimi comunisti; la sperimentalità nei quarti e sesti di toni trovò discreta applicazione nel linguaggio dei compositori contemporanei ma non fece molta strada.
È la musica concentrazionaria a consegnarci le più inimmaginabili applicazioni della serialità dodecafonica – non scevre da contaminazioni tardo-tonali – sino a estremismi puntillistici ben oltre la lezione weberniana e sperimentalità microtonali; è sufficiente citare l’oratorio-mimo-opera Renaissance scritto di Émile Gouè nello Oflag XA Nienburg/Weser (i cantanti non eseguono ma mimano il canto) o la partitura de La Favola di Natale di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola con il ‘rumorista’ nell’organico d’orchestra o le performances dell’ensemble di incudini presso il Campo di internamento di Knitzelfeld per entrare nel meraviglioso mondo del futurismo musicale.
La loro musica ci appartiene a prescindere che sia stata scritta nel Ghetto di Shanghai, nelle miniere di Magadan, nel girone infernale di Janowska o nei Campi di prigionia britannica alle pendici dell’Himalaya; come scrisse Susanne Ruth Klüger, sopravvissuta a Birkenau, “qualunque cosa si possa pensare, io non vengo da Auschwitz; io sono di Vienna”.
“Io non vengo da Auschwitz; io sono di Vienna”; scolpiremo all’infinito questo versetto neobiblico sul marmo della Storia contemporanea.
La parola crea l’immagine, si solidifica in essa; il suono crea sia la parola che l’immagine, connette l’una e l’altra al genere umano, alle future generazioni, ai mondi superiori; l’Arte dei suoni si fa letteratura e, se quest’Arte porta con sé un enorme carico di sofferenza, diventa storia di uomini e idee; ciò è esattamente la letteratura musicale concentrazionaria.
Non un pentagramma andrà smarrito ma ogni opera tornerà esattamente com’era prima della devastazione bellica; abbiamo bisogno di Monuments Men (come il film del 2014 diretto da George Clooney) ossia una brigata interamente fatta di musicisti che si dedichi alla ricostruzione dei materiali musicali provenienti da Ghetti, Lager e Gulag laddove questi risultino lacunosi, compromessi.
Struttura e fuoco sacro devono coesistere nell’opera di recupero e assemblaggio di ogni pagina musicale; facciamo tornare dall’esilio i musicisti, i loro linguaggi e le loro opere.
Ne abbiamo più che mai bisogno.
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