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Nel testo della sentenza 150/2021, che riconosceva il valore della libertà di espressione (e, per i giornalisti, del diritto di cronaca) ma ribadiva l'inviolabilità della tutela della dignità della persona, i giudici stabilivano che «l'applicazione della pena detentiva per diffamazione a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità è consentita solo in presenza di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista soggettivo e oggettivo». Principio che, peraltro, era stato anticipato in una precedente pronuncia della Cassazione, chiamata a esprimersi in merito alla sua validità in caso di offesa recata anche al di fuori dell'attività giornalistica e facendo ricorso a qualsiasi mezzo di comunicazione, compreso internet (Quinta sezione, 13993/2021).


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Dunque, in base a quanto chiarito dalla Consulta, il giudice penale può procedere all'irrogazione della pena pecuniaria (non inferiore a 516 euro) o detentiva (da sei mesi a tre anni) solo dopo un'attenta analisi del comportamento dell'imputato. E, per la seconda opzione, solo nel caso in cui il soggetto sia coinvolto nella diffusione di insulti, messaggi d'odio o incitazione alla violenza e in campagne di disinformazione che, orchestrate nella piena consapevolezza della falsità delle informazioni diffuse, rischiano di ledere la reputazione della vittima.

Nella fattispecie, il giudice di merito non aveva ordinato nessun tipo di valutazione e, in più, aveva escluso sin dal primo grado l'aggravante dell'odio razziale.Pertanto, la Cassazione ha annullato la sentenza senza rinvio, visto il decorso dei termini di prescrizione del reato (collocabile, in base alla lettura degli atti, nel gennaio 2015) e l'assenza di elementi utili a supportare un'assoluzione della donna. Rimangono, invece, inalterate le statuizioni civili.