Per questa intervista a Pavarotti, realizzata nell’estate del 1989, per Piano Time, si mosse il direttore. Venne realizzata, sulla Collina della Baia Flaminia di Pesaro, nella casa al mare di Luciano Pavarotti. Ci si arrivava dopo aver percorso una stradina sterrata. Non una villa come la fama del proprietario avrebbe consentito supporre. Atmosfera familiare, pullulava di gente, parenti, amici, visitatori d’ogni genere. Pavarotti vi trascorreva le sue giornate di riposo estivo, in attesa di riprendere il lavoro.
Pavarotti: la più bella voce del secolo, il patriarca dei tenori,
l’uomo generoso dal sorriso irresistibile, insomma un mito.
“Non so se tutto questo
corrisponda a verità. So solo che la mia voce devo trattarla bene.
Se la tratto bene mi ripaga, altrimenti può darmi delle delusioni,
come qualche volta è accaduto in passato, e se non la trattassi bene
me ne darebbe ancora. Del mito è impossibile accorgersi. Forse chi
non lo è nell’opinione pubblica, è più facile che pensi di
esserlo. Se uno è un mito è già molto impegnato ad esserlo per
doverlo anche dimostrare. Forse un giorno lo saprò se sono un mito,
o forse mai”.
Ai frequentatori più
assidui delle sale da concerto il teatro fa una strana impressione, e
qualche volta procura anche fastidio, perché appare molto spesso
come un corpo ‘separato’ dal mondo della musica.
“Il teatro, che ha
fatto passi da gigante nel campo della regia e della scenografia,
quando è di qualità interessa chiunque sia per lo spettacolo che
per l’uomo che ‘suona’ sul palcoscenico. Chi è seduto a
godersi uno spettacolo si vede riflesso nel cantante. Del resto, chi
non prova a fischiettare o a cantare le più celebri romanze del
melodramma, quando si sbarba o fa la doccia? Ad un concerto di
pianoforte, in platea vi saranno una decina di persone appena che
hanno studiato quello strumento; l’uno per cento che lo suona bene
e l’uno per mille che lo suona come il concertista che si sta
esibendo. Ciò spiega la diversa partecipazione e simpatia che si
instaura fra palcoscenico e platea in una serata d’opera o durante
un concerto. Il pubblico del teatro considera quasi un collega
quell’uomo che ‘suona’ la voce, il suo strumento”.
La pensa così anche
del pubblico del loggione, il più assiduo, attento e critico del
teatro musicale?
“Ai loggionisti
direi:fate come avete sempre fatto: siete stati la salvezza del
teatro e continuerete ad esserlo anche se scalpitaste. Anch’io sono
stato fischiato. Magari esageratamente, ma chi l’ha fatto aveva
tutte le ragioni: sono stato io ad offrile l’appiglio. Quella volta
l’ho presa come si deve, con filosofia. Il loggione resta la
salvezza del teatro italiano, se poi qualche volta esagera… siamo
uomini. Il loggione è l’unico stop alla conduzione politica dei
teatri; noi potremmo dare ad intenderla a chiunque se non ci fosse il
loggione pronto a fischiare. La stampa non c’è bisogno di
comprarla, deve scrivere necessariamente bene di un teatro come la
Scala, ne fa in qualche modo parte. Ma se il pubblico dissente vuol
dire che esiste ancora un controllo superiore, inesistente in
qualunque altra professione. Il loggione è come un commissario di
pubblica sicurezza, di pubblica decenza, quando agisce bene,
intendiamoci. Non possono venirmi a dire: aspettavano di fischiare il
tale cantante. Il loggione della Scala aspetta di fischiare chiunque,
per il suo dovere di controllore, a mio parere giustissimo. Anzi, ci
sono stati degli spettacoli, ai quali anch’io ho preso parte, che
andavano fischiati di più”.
La televisione,
involontariamente, ha svelato un suo alterco con la regista
dell’Elisir d’amore scaligero. Uno dei tanti difficili rapporti
fra gli artefici di uno spettacolo d’opera o qualcos’altro?
“Sì, ricordo bene
l’episodio e quello spettacolo. Ero in disaccordo con la regista.
Accadde poi che mi ammalai davvero , ma nessuno credette alla mia
malattia. Forse fu il mio subconscio a procurarmi quella malattia.
Quello fu un esperimento da kamikaze fatto dai dirigenti della Scala
e dalla signora cui avevano affidato la regia dell’opera. La quale
, pur avendo molte qualità, s’era presentata non molto preparata.
Quando si vogliono introdurre innovazioni nella tradizione occorre
sapere bene quello che si fa ed avere il controllo di se stessi. Il
fatto è che la Scala compie talvolta esperimenti sulla pelle altrui
e quella volta lo fece sulla mia pelle: si voleva che io restassi per
pagare il prezzo di tutte quelle novità. Anche non mi fossi
ammalato, sarei comunque andato via”.
La sua carriera può
festeggiare già il ventottesimo compleanno. C’è un segreto?
“Avere sempre un pianoforte al seguito e studiare come si faceva da
ragazzi, ne più e né meno. E’ la regola d’oro. E’ la
monotonia del lavoro dell’atleta: un pugile per affrontare un
incontro si deve preparare bene. Anche noi siamo molto simili agli
atleti: mai mostrare di avere il fiatone. E se il pubblico e la
critica si accorge della nostra longevità vocale, lo deve fare nel
senso della maggiore tranquillità acquisita con l’esperienza. E’
indispensabile questa ginnastica, questo atletismo puro nel
riscaldamento dell’organo vocale. Dipende da questo se alcuni
cantanti sono attivi per una decina d’anni appena, mentre altri (
Bergonzi, Fischer-Dieskau), per trenta e più anni”.
Come il vino vecchio,
il vino d’annata?
“Esattamente, purchè
non vada a male”.
Tra breve parteciperà
al ‘Pavarotti Day’ che New York le sta preparando in coincidenza
del Rigoletto al Metropolitan. Che accadrà quel giorno?
“Non so ancora cosa mi
sta preparando il pubblico di New York e quello d’America. Spero
solo che non mi facciano cantare. Ma le devo dire che la cosa cui
tengo di più è l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce che mi è
stata di recente attribuita dal nostro Presidente della repubblica”.
Perché canta sempre
meno in Italia?
“Perché i rapporti con
la Scala non sono buoni, anche se sono programmate opere che potrei
cantare “.
Non la ripaga cantare,
che so, a Parma, come farà tra breve?
“Cantare in un concerto
non è cantare. Cantare è cantare alla Scala. Con Bologna c’è un
rapporto fantastico, ma negli ultimi tre anni ho cantato ogni anno,
quindi è necessaria una pausa. Al prossimo Maggio fiorentino canterò
Trovatore con Muti. Scusi con Mehta, non con Muti… con
queste emme è facile confonderli. Chissà come saranno contenti
Mehta e Muti”.
Divampa in questi
ultimi anni una polemica fra due grandi stirpi tenorili. I cosiddetti
‘contraltisti’ e i ‘baritenori’. E sembra che i primi
l’abbiano avuta vinta sui secondi. Anche qui a due passi da casa
sua, a Pesaro, sul palcoscenico del Rossini Opera Festival.
“Il tenore è tenore.
Tutto il resto è un’eccezione. Chi ama il tenore pensa al tenore,
a quello con la voce solare: Domingo, Carreras. Gli altri sono
eccezioni alla regola, vanno bene per gli specialisti, per gli
addetti ai lavori, anzi per pochi fra essi”. Perché il tenore è
il più raro a nascere ai nostri tempi nonostante sia il più amato?
“Non è vero. Se vogliamo parlare di voci rare, quelle sono , ad
esempio, le voci di baritono e mezzosoprano verdiane. Anche nel mio
concorso di canto, e non solo nel mio, sono quelle le voci che
mancano. I tenori invece non mancano. Cominciano dai contraltisti e
finiscono con i tenori dal colore scuro, i cosiddetti ‘baritonali’.
A conferma di quello che le dico, al mio Concorso di Filadelfia, il
vincitore è stato quasi sempre un tenore. Forse manca il
‘supertenore’, quello alla Domingo o Carreras. Questo manca”.
Ha qualche colpa il
diapason nell’aver reso il tenore una merce tanto rara?
“No, il diapason
dovrebbe favorirla, essendo quella più acuta. Se poi un tenore è
‘corto’ diventa baritono, baritono leggero, ma non per il
diapason che semmai incide nell’ordine di un ottavo di tono”.
Ma allora la polemica
sul diapason è insignificante?
“Non lo è, perché
qualunque voce oltre i ‘440’ diventa ‘irreale’, meglio:
innaturale; come innaturale diventa anche il suono dell’orchestra
oltre quella soglia”.
Chi sono stati i suoi
maestri? Deve loro riconoscenza?
“Ho studiato con due
maestri: il ‘vocalista’ tenore Arrigo Pola ed il grande
Campogalliani, ‘fraseggiatore’ di chiara fama, sotto le cui
‘grinfie’ sono passati almeno il novanta per cento dei cantanti
di oggi”.
E Tonini, che collabora
spesso con Lei, specie per il Concorso?
“Tonini è un maestro di
spartito e direttore d’orchestra che mi aiuta nel concorso. Dove io
non posso arrivare, arriva lui, dall’Africa al Sudamerica, assieme
alla direttrice del concorso”.
A chi si sentirebbe di
affidare una giovane promessa?
“E’ molto difficile
scegliere un maestro affidabile. La professione del maestro consiste
nella trasmissione di un pensiero da una testa ad un’altra. Non c’è
un buon maestro; c’è più verosimilmente un buon incontro che si
può verificare con chiunque. C’è stato un grande maestro nel
passato, si chiamava Antonio Cotogni, baritono. Era riuscito a creare
molti cantanti di primissima categoria (Lauri Volpi, Basiola) ed
altri, altrettanto numerosi, di seconda categoria. Poi c’è stato
Campogalliani che è un grandissimo ‘perfezionatore’.
Campogalliani, a differenza di Cotogni, ha preso pochi giovani, da
lui vanno piuttosto cantanti già in carriera che hanno bisogno di
risolvere un qualche problema. Un tempo il parco cantanti era più
ampio, perché diviso in categorie. Allora era perciò difficile che
un tenore come me - ‘lirico’ - si cimentasse con Aida o
Turandot”.
C’è
un modo per individuare un cattivo maestro?
“Occorrerebbe ascoltare
una decina di cattivi cantanti tutti provenienti dalla medesima
scuola, per poterlo dire. Ma questo di solito non accade”.
Come sceglierebbe un
cast?
“Un cast andrebbe scelto
bene. Non è un’ovvietà. Scegliendo la voce giusta per ogni ruolo.
Solitamente, invece, lo si fa nella maniera sbagliata: si vuol
mettere in scena un’opera e si va alla ricerca dei cantanti che
possono interpretarla. Il procedimento dovrebbe essere opposto:
abbiamo questi cantanti, vediamo quale opera possiamo fare con le
loro voci. L’anno scorso ho fatto una regia a Venezia. Ho ascoltato
i cantanti a disposizione ed in base alle coro caratteristiche vocali
ho scelto il titolo, benché fosse impopolare per i registi. La
scelta mi ha dato ragione. L’opera ha procurato soddisfazione anche
al regista, cioè a me”.
Cosa domanda un
cantante ad un direttore? E tra i direttori, può dirci con chi Lei
ha lavorato meglio?
“Con i migliori. Con
loro si lavora meglio. Il mondo va così, si lavora meglio con i più
bravi, anche se qualche cantante dice il contrario. E si sa quali
sono . Karajan in testa. Con lui ho fatto Tosca, nella sua
ultima produzione al Festival di Pasqua a Salisburgo. Per questo mi
ritengo fortunato. E’ stata un’esperienza meravigliosa, come del
resto altre volte in passato”.
Eppure di Karajan si
diceva che non sapeva scegliere le voci. Anche lei è di questo
parere?
“Ha scelto tanto che può
anche aver sbagliato. Non dimentichiamo però che Karajan ha creato
una cantante come Mirella Freni, in tutti i suoi ruoli. Ma anche la
Ricciarelli e molte altre. Siccome ha fatto molte volte esperimenti,
non sempre gli sono riusciti. Per la Tosca di Salisburgo ,
v’era un diverso problema. Le condizioni in cui si lavorava a
quell’opera, non erano le migliori per una che debuttava nel ruolo
e che non cantava mai in voce. Karajan faceva suonare una sua
precedente registrazione dell’opera e questa giovane cantante non
poteva né misurarsi né migliorarsi. Fino a che punto questo abbia
contribuito a non renderla perfetta per il ruolo non so. Comunque chi
sceglie molto, può anche sbagliare”.
I nostri teatri lirici
sono quasi tutti chiusi per lavori, e tra breve chiuderanno anche per
mancanza di fantasia e managerialità. Cosa ne pensa?
“L’ho detto sempre e
lo ripeto, anche rischiando l’impopolarità: in un territorio
piccolo come l’Italia vi sono troppi teatri: troppi per quantità,
troppo pochi per qualità. Per andare all’Opera si può mettere in
conto un’ora di macchina. L’Emilia, una regione che può essere
percorsa da cima a fondo in un’ora, addirittura pullula di teatri.
Questo è l’unico discorso serio da fare. Se poi si vuol fare un
discorso romantico, meglio ‘di comodo’, perché tutti mangiamo in
quel piatto, allora è un’altra cosa”.
Si fa un gran parlare
del calmiere dei cachets per i cantanti e Lei è in cima alla
piramide.
“Sì sono in cima alla
piramide ma per i soldi che daranno d’ora in avanti, io quei soldi
che vanno dicendo daranno, credo di non averli mai presi. Sì, credo
invece di averli chiesti per il prossimo anno, al Comunale di
Firenze, per il mio impegno nel Trovatore, che è un’opera
bestiale. Mi pare sia il massimo che un cantante di fama
mondiale possa chiedere. I cachet sono aumentati a causa della calata
in Italia di cantanti stranieri. Quando, dopo anni di assenza, sono
tornato alla Scala, ho trovato un cachet aumentato rispetto a quello
della volta precedente, proprio per questa ragione. Non
dimentichiamo, comunque, che è il teatro che ha la responsabilità
dei cachet. Avviene solitamente che i dirigenti dei teatri si
rivolgano ad un cantante, gli propongano un ruolo ed il relativo
cachet , sul quale ci può essere una contrattazione”.
Il calmiere dunque
apporterà benefici?
“Se verrà osservato,
sì. Ci si lamenta che l’incidenza del costo di un cantante dall’8%
è arrivato al 18.20%. Ora le faccio una domanda: il cantante
d’opera, nell’economia dell’opera vale il 20%? A mio parere il
cantante d’opera dovrebbe valere il 20%”.
Possiamo toccare il
tasto dolente delle ‘agenzie’ ? Sua moglie, Adua, è contitolare
di una nota agenzia. Cerchi per un momento di astrarsi dalla
partecipazione almeno ‘affettiva’ all’agenzia di sua moglie.
Qual è il suo parere sulla rappresentanza artistica?
“Nel 1961 ho avuto la
fortuna di debuttare a Reggio Emilia, assieme a Nabokov, figlio del
celebre autore di Lolita. Era un basso. Attorno a lui c’era
un grande interesse, venne a sentirlo un agente che ascoltò anche
me. Alla fine dell’opera, quell’agente venne nel mio camerino e
mi disse: giovanotto, prima di cominciare la carriera, venga da me,
voglio farla lavorare . Gli chiesi cosa dovessi fare. Mi rispose:
dovrai fare della audizioni, entrerai nella mia agenzia, io ti
prenderò il 10%, in cambio ti ‘venderò’ a questi teatri. E me
li elencò. Con il solo 10% - pensai – farà tutto questo che dice
per me? Così è stato, anche se in quegli anni girava voce che i
cantanti davano addirittura il 50% dei loro cachet all’agente. Ho
sempre lavorato a queste condizioni con l’agente Siliani, che era
stato tenore, e che mi ha procurato sempre grandi soddisfazioni.
Adesso ho un agente americano al quale sottopongo ogni decisione: è
il mio primo amico. E, mi creda, non capisco come un cantante possa
lavorare senza agente. Non posso vagliare da solo tutte le proposte
che mi giungono. Ecco dove il lavoro dell’agente diventa
indispensabile. Lui riceve tutte le proposte, alcune di esse, dopo
averle opportunamente vagliate, me le sottopone. Per fare questo
lavoro ci vuole una persona che abbia molta fantasia e non si sia
improvvisato. Mia moglie, assieme ai suoi soci, fa da poco questo
lavoro, ma lo fa bene. Ha seguito me per trent’anni, ed ha imparato
a conoscere il teatro dal vivo. Non deve esistere una nazione senza
agenti. In Italia, Zecchillo ha in tal senso davvero rovinato i
giovani cantanti italiani i quali, trovandosi senza agenti, hanno
favorito la calata degli agenti stranieri, legali. In queste cose non
riesco a capire il nostro paese, che invece capisco bene per molte
altre cose: nella materia in cui siamo sempre stati signori assoluti,
ora vengono a dettar legge gli stranieri. Zecchillo fece in modo che
gli agenti italiani fosse banditi dall’Italia. Ho detto questo già
al tempo del ‘colpo di stato’ di Zecchillo. Siamo l’unica
nazione in Europa in cui gli agenti non sono richiesti, e neppure
legalizzati. Se canto in Germania, invece, devo passare attraverso un
agente tedesco, il quale è riconosciuto dallo Stato e paga le sue
tasse. Anche noi dovremmo avere i nostri agenti che pagano le tasse,
e che possiamo controllare, i quali si spera diano sempre la
preferenza al cantante italiano”.
Sarà perciò contento
della legalizzazione delle agenzie prevista dalla legge di riforma
presentata dal ministro Carraro?
“Era ora!”.
A proposito di questa
stessa legge, la si è accusata di scarsa attenzione alla musica. Ha
qualcosa da suggerire al ministro che ora è candidato alla poltrona
di sindaco di Roma?
“Non fa niente”
Come?
“Non fa niente! C’è
un male oscuro dei nostri teatri. Ai miei tempi, un teatro, di cui
non le faccio il nome, era retto da tre sole persone: la bigliettaia,
l’agente e la sua segretaria. Ora quel teatro ha un organico di
cinquecento persone per le quali è stato costretto ad acquistare un
intero stabile. Allora il teatro andava molto bene. Ora si prevede -
giustamente - l’introduzione della figura del 'general manager',
come negli Stati Uniti: se non fa andar bene il teatro chiederemo la
sua testa; ma gli chiederemo anche di sfoltire gli organici”.
Perché in Italia ci
sono teatri nei quali i sovrintendenti sono eletti sovrintendenti ‘a
vita’?
“Anche i direttori
artistici, purtroppo. Secondo me, quando il Sovrintendente non si
impiccia nelle scelte artistiche ed è politicamente bravo, deve
restare il più a lungo possibile. Però, sa bene, criticare è
facile. Vorrei vedere uno di noi al posto di qualche sovrintendente o
direttore artistico, forse vorrebbero mandar via anche noi. A
Filadelfia, ottengo buoni risultati perché sono responsabile di
tutto, pur con gli errori che anch’io commetto”.
Ci dice in tutta
sincerità cosa pensa della critica in Italia?
“Quelli che fanno il
mestiere di critici sono i benvenuti, li ritengo miei ‘colleghi’,
e fra i collaboratori più preziosi. Se però della critica fanno lo
strumento per la loro esaltazione, allora diventano ridicoli. E ve ne
sono. In Italia, per fortuna, sono pochi: tre o quattro che fanno
morire dal ridere per la loro ignoranza”.
Tolti questi, qual è
il livello della critica musicale italiana?
“Altissimo. L’ho
sempre ascoltata e l’ascolterò sempre, finché campo. Quando dirò
che i critici sono cretini, sarà perché avrò smesso di studiare”.
Sottoscrive anche oggi
questa sua dichiarazione che le leggo testualmente. “Penso di aver
ricevuto un dono raro qual è la voce stessa. Sarebbe errato
congratularmi con me stesso per questo dono. Non svilupparla o non
saperla usare questo invece sarebbe un gran peccato! Sarò felice se
verrò giudicato non colpevole di tale peccato”. Sottoscrive?
“Confermo e
sottoscrivo!”.
Si sente di fare un
bilancio della sua abbastanza lunga carriera?
“Non li faccio io i
bilanci. Se, invece, mi chiede quale sia il desiderio più grande che
ho oggi, allora le rispondo che vorrei che in futuro tutto andasse
come sta andando ora. Va bene così!”. ( Pietro Acquafredda, Piano Time, 1989)
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