Come omaggio a Salvatore Sciarrino - che prossimamente riceverà a Venezia il Leone d'oro alla carriera, alla viglia dei suoi settant'anni ancora in piena attività compositiva - ripubblichiamo questo testo autobiografico che esattamente dieci anni fa, quando di anni ne aveva sessanta, e fu insignito della Laurea honoris causa in Musicologia all'Università di Palermo, costituì la sua 'lectio magistralis', che la rivista Music@ pubblicò in esclusiva.
MALINCONIA DEGLI STUDI di Salvatore Sciarrino
Il bambino ha finito
presto i compiti. Si mette per un poco a disegnare, poi gli passa la
voglia. Banchi semivuoti, alcuni compagni spersi nello studio
pomeridiano. A sinistra alte tre finestre ad arco: fuori, contro il
cielo di porcellana, il glabro dei platani; essi raccolgono tutte le
impercettibili variazioni di una luce avorio. Ci si chiede perché a
Palermo la luce declini toni così struggenti. Una speciale
proporzione credo combini l’ombra delle montagne e il riverbero del
mare con l’esposizione geografica della città. Sovente ortogonali
e in discesa , le strade s’accecano di un bianco smerigliato; ma
nell’inverno l’enigma si apre al visibile, non c’è afa e ogni
cosa si rivela altra da sé perché rasata a lunghi colpi di sole.
Poi il raggio s’interrompe, intercettato da corone di pietra; con
l’improvviso attenuarsi entriamo in una chiarità diffusa, avanzano
i controluce e riflessi di madreperla orientale.
La malinconia m’ha
assalito precocemente, a sei anni non ancora compiuti.
Quel bambino doveva
restare al suo posto un lasso interminabile, nell’incertezza se
fosse il tempo a indicare il mutare delle cose o al contrario le cose
mostrassero l’appassire del tempo. L’attesa fa volare i pensieri,
ecco la contemplazione li sprofonda, mentre il pigolìo dei passeri
annega nel calare del giorno. Questo ricordo dai colori smaltati
costituisce il primo avviso di immagini ricorrenti nella mia
produzione teatrale a partire dal 1980 circa. È soprattutto un
nucleo da cui si diramano sceneggiature in cui l’esterno si
proietta nell’interno e una meteorologia mentale dalle risonanze
primarie invade la scena. E la musica? Si dilata al punto che
l’oggetto sonoro si sospenda dinanzi all’ascoltatore con la
nitidezza di un’ultima foglia immobile sul ramo. Non potrò tacere
qui Vanitas, Lohengrin 2, Perseo e Andromeda,
Luci mie traditrici, Macbeth, Da gelo a gelo.
Negli anni ’80 mi proponevano spesso di fare io il regista, e
dunque andavo parallelamente affinando un linguaggio realizzativo, un
appropriato Diagramma della drammaturgia dell’opera rispondere
della messa in scena. Da tanti spettacoli quasi mai firmati sortiva
uno stile sùbito riconoscibile che amplificava nel vuoto solo una o
due azioni, bagnate da cambi di illuminazione lentissimi, a
imitazione dell’inclinarsi del sole e della luna. Ho letto
abbastanza sulla malinconia, e tuttavia avrei da aggiungere personali
notazioni a cui non mi pare alcuno abbia dato importanza: v’è una
instabilità emotiva a monte del temperamento saturnino. Per quanto
mi riguarda, si è pure manifestato un legame inevitabile fra
malinconia, meteoropatia e osservazione della natura. Tale legame,
dall’imprinting dimenticato, è emerso alla coscienza per merito di
una casa–belvedere nella quale tutt’ora vivo; infatti nelle
stanze da lavoro lo sguardo può vagare tra squarci di paesaggio. Lo
star seduto ore su ore rende automatico una sorta di monitoraggio dei
cambiamenti giornalieri e stagionali, dei fenomeni imprevisti,
periodici e in graduale sfumatura, quali l’alternarsi di notte e
giorno da cui dipende direttamente la fisiologia umana. Recentemente
mi sono chiesto chi possa rappresentare tra i compositori il caso più
vistoso di temperamento malinconico. La risposta può sorprendere,
trattandosi di una figura a tutti troppo familiare perché si riesca
a ripercorrerne la fisionomia. È Beethoven, coi suoi repentini cambi
d’umore spesso più simili a spasimi che a metafore dell’esperienza
spirituale. Dovremmo forse rileggere su altri piani traslati la sua
musica levigata e petrosa. Rileggerla, fra battaglie e uragani, come
un racconto drammatico fatto esclusivamente con i suoni. Il rapporto
fra luce e oscurità, fra esterno e interno, è intessuto ai nostri
ritmi vitali. Di ciò ho fatto materia del mio linguaggio e spiraglio
ideale attraverso cui mirare l’origine delle nostre
rappresentazioni: mentali e teatrali. Il 14 luglio 1990, durante le
prove di Vanitas nella
Villa di Pratolino, scrissi alcuni appunti sulla scena come ambiente
che riflette la meteorologia esterna. “Il volgere del sole sulla
casa del mondo, raffigurato in un interno dove penetra da finestre
invisibili. Un gioco un po’ ingenuo, una vigile e accesa
sensibilità? O il desiderio di mettersi in risonanza con i moti
dell’universo, di ascoltare le ragioni del mare, delle conchiglie,
per fiorire come un’erba, fingendo di non avere obliato – il
desiderio cioè della coscienza e del sonno? Nessuna lampada può
gareggiare col giorno, eppure i nostri riflettori rigano il buio di
un pulviscolo a coni o lame, così incisivi! La noia infantile di
essere rinchiusi il pomeriggio a dormire s’è trasfigurata, ha
mutato senso e divelto la paura alla caverna della mia vita. E come
si sono ingranditi gli occhi del mondo: sul pavimento talvolta
cadevano minuscoli ovali di luce dalle persiane chiuse.” Se
scrutiamo più a fondo dentro di noi, si capisce come davvero il buio
sia l’elemento primario della rappresentazione. Vi sono momenti
della nostra vita in cui l’impedimento, condizionando uno stato di
immobilità all’interno della casa, favorisce l’immaginazione.
Quasi l’aspirazione a uscire si proiettasse nel mondo delle
percezioni.
La memoria di quel bambino
per pochi mesi prigioniero al doposcuola, è affiorata di recente
allorché dovetti annullare un viaggio in Argentina. Era una tournée
amorevolmente organizzata in previsione di concerti, lezioni e di una
nuova produzione di Lohengrin,
che poi si rivelò bellissima. Così scrissi per annunziare la mia
disdetta: “dal mio letto guardo fuori, anche stavolta è una
giornata limpida. La febbre e lo stare coricati di giorno sono cose
che trasportano l’immaginazione. Nella mia camera da notte le due
finestre mi sovrastano un poco, inquadrano una sezione alta del cielo
dove l’azzurro è più profondo e astratto. Sempre, quando sono
ammalato, sfilano giorni di sole. Questa puntuale coincidenza ebbe
inizio negli anni della mia prima infanzia, una dolce persecuzione
che induce strane idee.
Uno, la sensazione che il
cielo si faccia beffe di me estenuando le malinconie.
Secondo, che la malattia
esploda quando c’è il sereno, e dunque covi col maltempo.
L’impedimento dello sguardo lascia correre la mente, ce lo ha
insegnato Leopardi. Da noi giunge l’autunno: nei giorni scorsi
m’hanno stupito alcuni alberi d’oro; li ho visti sbuffare dinanzi
a fondali cupi e mi sovvenne Dosso Dossi, nelle cui intenzioni non si
legge bene se sia primavera; certo però che sia uno sforzare verso
la magia la normale esperienza visiva. Oggi avrei dovuto essere in
aereo: come saranno i cieli dell’altro emisfero? Penso alla luce
che non ho mai visto, alla cecità cui ciascuno è condannato. Penso
a Borges, è il primo ambasciatore di Buenos Aires, a Martin Bauer
che per me è il secondo ambasciatore, come appariva sul selciato
luccicante di pioggia nella mia piccola città. Caro amico, non siamo
schiavi del destino, non dobbiamo crederlo. Tuttavia il corpo, la
mente, le circostanze costringono talvolta a rinunziare, e ciò
riporta entro i limiti dell’esistenza umana, quelli che tocchiamo
solo eccezionalmente. Per esempio, quando siamo malati. Un
abbraccio.”
Demone fausto che tormenti
alcuni artisti affinché non si arrestino a uno spunto felice, né
trovino appagamento nella prima invenzione! L’urgenza del comporre,
ma anche la fretta di per sé, configurano la parte allucinatoria
della metodologia compositiva. Da un lato l’attrazione
irresistibile verso lo studio, l’intuizione furiosa che non si può
tenere; dall’altro il completamento della nuova fisionomia
immaginata, graduale e paziente.
V’è pure una sofferenza
della creazione, poiché doloroso è varcare la soglia del proprio
io. Da un quaderno del 1993 trascrivo liberamente la cruda
confessione che segue. “Un nuovo lavoro. Perché l’ansia? Ansia
di non farcela? Mille volte ho preso il volo, eppure è difficile
ogni volta, tutta la vita costringersi ad essere se stessi, a scalare
le rovine di particolari in cui inesorabilmente si vanno sgretolando
le nostre abitudini artistiche. Necessarie idee che scavalchino le
solite idee, questa la mia ambizione. Talvolta però mi metto io
stesso in condizione di superare a fatica l’ostacolo. In che modo?
Ritardi, rinvii dell’inerzia, malumori. Ecco, malumori: qual è la
loro istanza? All’origine, frustrazioni familiari non del tutto
sopite fra i ricordi infantili, tormenti e accuse di incapacità alla
vita gettatemi addosso nell’età della crisi, sibilate intorno a
me. Diciamo che la follia dei miei personaggi teatrali è a me ben
nota: Elsa, Andromeda, Malaspina, Gesualdo, Macbeth, Izumi. Sono i
residui di quanto io stesso sono riuscito a superare per non uscire
pazzo. Cicatrici malsanate s’aprono ciclicamente. Sarei in grado di
comprendere i motivi dell’incomprensione altrui. Al pari di ogni
artista, anch’io rifiuto le scorciatoie della massa; come potrebbe
essa non rifiutare il mio rifiuto? La lunga vita artistica dovrebbe
avermi vaccinato, e invece mi trovo indifeso in faccia all’invidia
dei colleghi, all’indifferenza degli organizzatori, all’ignoranza
degli esecutori. Indifeso ancora affettivamente, offeso nel mio
essere artista.
Da giovane ho conosciuto
più successo, la gente mi concedeva un margine maggiore, almeno mi
pare. In ultimo due realizzazioni hanno fiaccato la mia volontà:
Cadenzario e Perseo,
perché malgrado l’esito notevole non hanno avuto il seguito che mi
aspettavo. Non che l’attività artistica ne venga sminuita, è che
dopo certe occasioni mancate, la sofferenza raggiunge sfumature
intollerabili. Quando ciò avviene, nei giorni di tortura, verrei
spinto distruttivamente a negare le mie cose al mondo ingrato,
impedendomi di lavorare. Pure l’età, col suo rallentamento di
energie, cresce l’ostacolo. Per fortuna l’esigenza creativa passa
attraverso strati più profondi (o al di sopra, non so) di ogni
complicazione mentale sorta innanzi a difficoltà di rapporto
personale o a inesistenti problemi pratici, elementari come il
pagamento di una bolletta, o la massiccia corrispondenza che ogni
momento approda al mio tavolo.” Quando così scrissi avevo 45 anni.
Dovrei smentire io stesso alcuni tratti di eccessiva soggettività
negativa ( qualche preteso insuccesso che fu solo stasi momentanea).
Tuttavia vorrei rispettare proprio l’alterazione che tali parole
vengono a testimoniare. Negli anni successivi ho assistito a una
crescita e maturazione creativa che lascia incredulo perfino me. A
chi ne chieda ragione, io fornisco una risposta di comodo: sono
cresciute le energie compositive avendo interrotto l’insegnamento.
Come però essere certi di cosa è avvenuto, del reale meccanismo
della creazione, un istante che diventa nascita? Oggi, a 60 anni, pur
trovandomi in posizione di privilegio rispetto a tanti miei colleghi,
la mia patologia malinconica non è affatto mutata. Basterebbe un
niente a perdere una vita virtuosa, quindi non ho smussato l’angolo
di incidenza contro il criterio perverso dell’audience, nessun
cedimento al gusto del grande pubblico. L’adorato esempio di
Beethoven ha dimostrato che tale gusto si possa e si debba guidare,
non dovrei essere solo a seguirlo. Sentiremo ora alcuni miei lavori
non integralmente originali, ovvero delle trascrizioni. Sono una
prova eccentrica del recente approfondimento dei miei studi e delle
problematiche compositive. Si intitolano Storie
di altre storie, affidate a fisarmonica e
orchestra. In questi pezzi ho manipolato il già esistente affinché
si scopra, sotto una nuova luce, una fisionomia potenziale diversa da
quella che appare. Al fine di evidenziare le anticipazioni di
Strawinsky contenute nella musica di Domenico Scarlatti, un
musicologo avrebbe scritto un saggio. Invece io ho scritto un pezzo
di musica: non è una dimostrazione, è molto di più, e il risultato
arriva immediato ed emozionante alle orecchie di ognuno. È possibile
applicare alla composizione una speciale idea di analisi per mezzo
delle attuali forme temporali multiple, insieme recuperando non a
sproposito la classica alternanza solo – tutti. Un progetto del
genere è rischioso poiché coniuga suoni noti con immagini musicali
e accostamenti storici inediti. Rischioso anche per il confronto
scoperto con la tecnica della tradizione, anzi di tre: quella
settecentesca, quella novecentesca, quella moderna ( la mia).
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