lunedì 19 settembre 2016

A Salvatore Sciarrino, in occasione della consegna, il prossimo 8 ottobre a Venezia, del Leone d'oro alla carriera

 Come omaggio a Salvatore Sciarrino - che  prossimamente riceverà a Venezia il Leone d'oro alla carriera, alla viglia dei  suoi settant'anni ancora in piena attività compositiva - ripubblichiamo questo testo autobiografico che esattamente dieci anni fa, quando di anni ne aveva sessanta, e fu insignito della Laurea honoris causa in Musicologia all'Università di Palermo, costituì la sua  'lectio magistralis', che la rivista Music@ pubblicò in esclusiva.


                               MALINCONIA DEGLI STUDI   di Salvatore Sciarrino

Il bambino ha finito presto i compiti. Si mette per un poco a disegnare, poi gli passa la voglia. Banchi semivuoti, alcuni compagni spersi nello studio pomeridiano. A sinistra alte tre finestre ad arco: fuori, contro il cielo di porcellana, il glabro dei platani; essi raccolgono tutte le impercettibili variazioni di una luce avorio. Ci si chiede perché a Palermo la luce declini toni così struggenti. Una speciale proporzione credo combini l’ombra delle montagne e il riverbero del mare con l’esposizione geografica della città. Sovente ortogonali e in discesa , le strade s’accecano di un bianco smerigliato; ma nell’inverno l’enigma si apre al visibile, non c’è afa e ogni cosa si rivela altra da sé perché rasata a lunghi colpi di sole. Poi il raggio s’interrompe, intercettato da corone di pietra; con l’improvviso attenuarsi entriamo in una chiarità diffusa, avanzano i controluce e riflessi di madreperla orientale.
La malinconia m’ha assalito precocemente, a sei anni non ancora compiuti.
Quel bambino doveva restare al suo posto un lasso interminabile, nell’incertezza se fosse il tempo a indicare il mutare delle cose o al contrario le cose mostrassero l’appassire del tempo. L’attesa fa volare i pensieri, ecco la contemplazione li sprofonda, mentre il pigolìo dei passeri annega nel calare del giorno. Questo ricordo dai colori smaltati costituisce il primo avviso di immagini ricorrenti nella mia produzione teatrale a partire dal 1980 circa. È soprattutto un nucleo da cui si diramano sceneggiature in cui l’esterno si proietta nell’interno e una meteorologia mentale dalle risonanze primarie invade la scena. E la musica? Si dilata al punto che l’oggetto sonoro si sospenda dinanzi all’ascoltatore con la nitidezza di un’ultima foglia immobile sul ramo. Non potrò tacere qui Vanitas, Lohengrin 2, Perseo e Andromeda, Luci mie traditrici, Macbeth, Da gelo a gelo. Negli anni ’80 mi proponevano spesso di fare io il regista, e dunque andavo parallelamente affinando un linguaggio realizzativo, un appropriato Diagramma della drammaturgia dell’opera rispondere della messa in scena. Da tanti spettacoli quasi mai firmati sortiva uno stile sùbito riconoscibile che amplificava nel vuoto solo una o due azioni, bagnate da cambi di illuminazione lentissimi, a imitazione dell’inclinarsi del sole e della luna. Ho letto abbastanza sulla malinconia, e tuttavia avrei da aggiungere personali notazioni a cui non mi pare alcuno abbia dato importanza: v’è una instabilità emotiva a monte del temperamento saturnino. Per quanto mi riguarda, si è pure manifestato un legame inevitabile fra malinconia, meteoropatia e osservazione della natura. Tale legame, dall’imprinting dimenticato, è emerso alla coscienza per merito di una casa–belvedere nella quale tutt’ora vivo; infatti nelle stanze da lavoro lo sguardo può vagare tra squarci di paesaggio. Lo star seduto ore su ore rende automatico una sorta di monitoraggio dei cambiamenti giornalieri e stagionali, dei fenomeni imprevisti, periodici e in graduale sfumatura, quali l’alternarsi di notte e giorno da cui dipende direttamente la fisiologia umana. Recentemente mi sono chiesto chi possa rappresentare tra i compositori il caso più vistoso di temperamento malinconico. La risposta può sorprendere, trattandosi di una figura a tutti troppo familiare perché si riesca a ripercorrerne la fisionomia. È Beethoven, coi suoi repentini cambi d’umore spesso più simili a spasimi che a metafore dell’esperienza spirituale. Dovremmo forse rileggere su altri piani traslati la sua musica levigata e petrosa. Rileggerla, fra battaglie e uragani, come un racconto drammatico fatto esclusivamente con i suoni. Il rapporto fra luce e oscurità, fra esterno e interno, è intessuto ai nostri ritmi vitali. Di ciò ho fatto materia del mio linguaggio e spiraglio ideale attraverso cui mirare l’origine delle nostre rappresentazioni: mentali e teatrali. Il 14 luglio 1990, durante le prove di Vanitas nella Villa di Pratolino, scrissi alcuni appunti sulla scena come ambiente che riflette la meteorologia esterna. “Il volgere del sole sulla casa del mondo, raffigurato in un interno dove penetra da finestre invisibili. Un gioco un po’ ingenuo, una vigile e accesa sensibilità? O il desiderio di mettersi in risonanza con i moti dell’universo, di ascoltare le ragioni del mare, delle conchiglie, per fiorire come un’erba, fingendo di non avere obliato – il desiderio cioè della coscienza e del sonno? Nessuna lampada può gareggiare col giorno, eppure i nostri riflettori rigano il buio di un pulviscolo a coni o lame, così incisivi! La noia infantile di essere rinchiusi il pomeriggio a dormire s’è trasfigurata, ha mutato senso e divelto la paura alla caverna della mia vita. E come si sono ingranditi gli occhi del mondo: sul pavimento talvolta cadevano minuscoli ovali di luce dalle persiane chiuse.” Se scrutiamo più a fondo dentro di noi, si capisce come davvero il buio sia l’elemento primario della rappresentazione. Vi sono momenti della nostra vita in cui l’impedimento, condizionando uno stato di immobilità all’interno della casa, favorisce l’immaginazione. Quasi l’aspirazione a uscire si proiettasse nel mondo delle percezioni.
La memoria di quel bambino per pochi mesi prigioniero al doposcuola, è affiorata di recente allorché dovetti annullare un viaggio in Argentina. Era una tournée amorevolmente organizzata in previsione di concerti, lezioni e di una nuova produzione di Lohengrin, che poi si rivelò bellissima. Così scrissi per annunziare la mia disdetta: “dal mio letto guardo fuori, anche stavolta è una giornata limpida. La febbre e lo stare coricati di giorno sono cose che trasportano l’immaginazione. Nella mia camera da notte le due finestre mi sovrastano un poco, inquadrano una sezione alta del cielo dove l’azzurro è più profondo e astratto. Sempre, quando sono ammalato, sfilano giorni di sole. Questa puntuale coincidenza ebbe inizio negli anni della mia prima infanzia, una dolce persecuzione che induce strane idee.
Uno, la sensazione che il cielo si faccia beffe di me estenuando le malinconie.
Secondo, che la malattia esploda quando c’è il sereno, e dunque covi col maltempo. L’impedimento dello sguardo lascia correre la mente, ce lo ha insegnato Leopardi. Da noi giunge l’autunno: nei giorni scorsi m’hanno stupito alcuni alberi d’oro; li ho visti sbuffare dinanzi a fondali cupi e mi sovvenne Dosso Dossi, nelle cui intenzioni non si legge bene se sia primavera; certo però che sia uno sforzare verso la magia la normale esperienza visiva. Oggi avrei dovuto essere in aereo: come saranno i cieli dell’altro emisfero? Penso alla luce che non ho mai visto, alla cecità cui ciascuno è condannato. Penso a Borges, è il primo ambasciatore di Buenos Aires, a Martin Bauer che per me è il secondo ambasciatore, come appariva sul selciato luccicante di pioggia nella mia piccola città. Caro amico, non siamo schiavi del destino, non dobbiamo crederlo. Tuttavia il corpo, la mente, le circostanze costringono talvolta a rinunziare, e ciò riporta entro i limiti dell’esistenza umana, quelli che tocchiamo solo eccezionalmente. Per esempio, quando siamo malati. Un abbraccio.”
Demone fausto che tormenti alcuni artisti affinché non si arrestino a uno spunto felice, né trovino appagamento nella prima invenzione! L’urgenza del comporre, ma anche la fretta di per sé, configurano la parte allucinatoria della metodologia compositiva. Da un lato l’attrazione irresistibile verso lo studio, l’intuizione furiosa che non si può tenere; dall’altro il completamento della nuova fisionomia immaginata, graduale e paziente.
V’è pure una sofferenza della creazione, poiché doloroso è varcare la soglia del proprio io. Da un quaderno del 1993 trascrivo liberamente la cruda confessione che segue. “Un nuovo lavoro. Perché l’ansia? Ansia di non farcela? Mille volte ho preso il volo, eppure è difficile ogni volta, tutta la vita costringersi ad essere se stessi, a scalare le rovine di particolari in cui inesorabilmente si vanno sgretolando le nostre abitudini artistiche. Necessarie idee che scavalchino le solite idee, questa la mia ambizione. Talvolta però mi metto io stesso in condizione di superare a fatica l’ostacolo. In che modo? Ritardi, rinvii dell’inerzia, malumori. Ecco, malumori: qual è la loro istanza? All’origine, frustrazioni familiari non del tutto sopite fra i ricordi infantili, tormenti e accuse di incapacità alla vita gettatemi addosso nell’età della crisi, sibilate intorno a me. Diciamo che la follia dei miei personaggi teatrali è a me ben nota: Elsa, Andromeda, Malaspina, Gesualdo, Macbeth, Izumi. Sono i residui di quanto io stesso sono riuscito a superare per non uscire pazzo. Cicatrici malsanate s’aprono ciclicamente. Sarei in grado di comprendere i motivi dell’incomprensione altrui. Al pari di ogni artista, anch’io rifiuto le scorciatoie della massa; come potrebbe essa non rifiutare il mio rifiuto? La lunga vita artistica dovrebbe avermi vaccinato, e invece mi trovo indifeso in faccia all’invidia dei colleghi, all’indifferenza degli organizzatori, all’ignoranza degli esecutori. Indifeso ancora affettivamente, offeso nel mio essere artista.

Da giovane ho conosciuto più successo, la gente mi concedeva un margine maggiore, almeno mi pare. In ultimo due realizzazioni hanno fiaccato la mia volontà: Cadenzario e Perseo, perché malgrado l’esito notevole non hanno avuto il seguito che mi aspettavo. Non che l’attività artistica ne venga sminuita, è che dopo certe occasioni mancate, la sofferenza raggiunge sfumature intollerabili. Quando ciò avviene, nei giorni di tortura, verrei spinto distruttivamente a negare le mie cose al mondo ingrato, impedendomi di lavorare. Pure l’età, col suo rallentamento di energie, cresce l’ostacolo. Per fortuna l’esigenza creativa passa attraverso strati più profondi (o al di sopra, non so) di ogni complicazione mentale sorta innanzi a difficoltà di rapporto personale o a inesistenti problemi pratici, elementari come il pagamento di una bolletta, o la massiccia corrispondenza che ogni momento approda al mio tavolo.” Quando così scrissi avevo 45 anni. Dovrei smentire io stesso alcuni tratti di eccessiva soggettività negativa ( qualche preteso insuccesso che fu solo stasi momentanea). Tuttavia vorrei rispettare proprio l’alterazione che tali parole vengono a testimoniare. Negli anni successivi ho assistito a una crescita e maturazione creativa che lascia incredulo perfino me. A chi ne chieda ragione, io fornisco una risposta di comodo: sono cresciute le energie compositive avendo interrotto l’insegnamento. Come però essere certi di cosa è avvenuto, del reale meccanismo della creazione, un istante che diventa nascita? Oggi, a 60 anni, pur trovandomi in posizione di privilegio rispetto a tanti miei colleghi, la mia patologia malinconica non è affatto mutata. Basterebbe un niente a perdere una vita virtuosa, quindi non ho smussato l’angolo di incidenza contro il criterio perverso dell’audience, nessun cedimento al gusto del grande pubblico. L’adorato esempio di Beethoven ha dimostrato che tale gusto si possa e si debba guidare, non dovrei essere solo a seguirlo. Sentiremo ora alcuni miei lavori non integralmente originali, ovvero delle trascrizioni. Sono una prova eccentrica del recente approfondimento dei miei studi e delle problematiche compositive. Si intitolano Storie di altre storie, affidate a fisarmonica e orchestra. In questi pezzi ho manipolato il già esistente affinché si scopra, sotto una nuova luce, una fisionomia potenziale diversa da quella che appare. Al fine di evidenziare le anticipazioni di Strawinsky contenute nella musica di Domenico Scarlatti, un musicologo avrebbe scritto un saggio. Invece io ho scritto un pezzo di musica: non è una dimostrazione, è molto di più, e il risultato arriva immediato ed emozionante alle orecchie di ognuno. È possibile applicare alla composizione una speciale idea di analisi per mezzo delle attuali forme temporali multiple, insieme recuperando non a sproposito la classica alternanza solo – tutti. Un progetto del genere è rischioso poiché coniuga suoni noti con immagini musicali e accostamenti storici inediti. Rischioso anche per il confronto scoperto con la tecnica della tradizione, anzi di tre: quella settecentesca, quella novecentesca, quella moderna ( la mia). 

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