lunedì 3 luglio 2017

PAVAROTTI QUAND'ERA. Intervista esclusiva (Piano Time, 1989)


Per questa intervista a Pavarotti, realizzata nell’estate del 1989, per Piano Time, si mosse il direttore. Venne realizzata, sulla Collina della Baia Flaminia di Pesaro,  nella casa al mare di Luciano Pavarotti. Ci si arrivava dopo aver percorso una stradina sterrata. Non una villa come la fama del proprietario  avrebbe consentito supporre. Atmosfera familiare, pullulava di gente, parenti, amici, visitatori d’ogni genere. Pavarotti vi trascorreva le sue giornate di riposo estivo, in attesa di riprendere il lavoro.

Pavarotti: la più bella voce del secolo, il patriarca dei tenori, l’uomo generoso dal sorriso irresistibile, insomma un mito.
Non so se tutto questo corrisponda a verità. So solo che la mia voce devo trattarla bene. Se la tratto bene mi ripaga, altrimenti può darmi delle delusioni, come qualche volta è accaduto in passato, e se non la trattassi bene me ne darebbe ancora. Del mito è impossibile accorgersi. Forse chi non lo è nell’opinione pubblica, è più facile che pensi di esserlo. Se uno è un mito è già molto impegnato ad esserlo per doverlo anche dimostrare. Forse un giorno lo saprò se sono un mito, o forse mai”.

Ai frequentatori più assidui delle sale da concerto il teatro fa una strana impressione, e qualche volta procura anche fastidio, perché appare molto spesso come un corpo ‘separato’ dal mondo della musica.
Il teatro, che ha fatto passi da gigante nel campo della regia e della scenografia, quando è di qualità interessa chiunque sia per lo spettacolo che per l’uomo che ‘suona’ sul palcoscenico. Chi è seduto a godersi uno spettacolo si vede riflesso nel cantante. Del resto, chi non prova a fischiettare o a cantare le più celebri romanze del melodramma, quando si sbarba o fa la doccia? Ad un concerto di pianoforte, in platea vi saranno una decina di persone appena che hanno studiato quello strumento; l’uno per cento che lo suona bene e l’uno per mille che lo suona come il concertista che si sta esibendo. Ciò spiega la diversa partecipazione e simpatia che si instaura fra palcoscenico e platea in una serata d’opera o durante un concerto. Il pubblico del teatro considera quasi un collega quell’uomo che ‘suona’ la voce, il suo strumento”.

La pensa così anche del pubblico del loggione, il più assiduo, attento e critico del teatro musicale?
Ai loggionisti direi:fate come avete sempre fatto: siete stati la salvezza del teatro e continuerete ad esserlo anche se scalpitaste. Anch’io sono stato fischiato. Magari esageratamente, ma chi l’ha fatto aveva tutte le ragioni: sono stato io ad offrile l’appiglio. Quella volta l’ho presa come si deve, con filosofia. Il loggione resta la salvezza del teatro italiano, se poi qualche volta esagera… siamo uomini. Il loggione è l’unico stop alla conduzione politica dei teatri; noi potremmo dare ad intenderla a chiunque se non ci fosse il loggione pronto a fischiare. La stampa non c’è bisogno di comprarla, deve scrivere necessariamente bene di un teatro come la Scala, ne fa in qualche modo parte. Ma se il pubblico dissente vuol dire che esiste ancora un controllo superiore, inesistente in qualunque altra professione. Il loggione è come un commissario di pubblica sicurezza, di pubblica decenza, quando agisce bene, intendiamoci. Non possono venirmi a dire: aspettavano di fischiare il tale cantante. Il loggione della Scala aspetta di fischiare chiunque, per il suo dovere di controllore, a mio parere giustissimo. Anzi, ci sono stati degli spettacoli, ai quali anch’io ho preso parte, che andavano fischiati di più”.

La televisione, involontariamente, ha svelato un suo alterco con la regista dell’Elisir d’amore scaligero. Uno dei tanti difficili rapporti fra gli artefici di uno spettacolo d’opera o qualcos’altro?
Sì, ricordo bene l’episodio e quello spettacolo. Ero in disaccordo con la regista. Accadde poi che mi ammalai davvero , ma nessuno credette alla mia malattia. Forse fu il mio subconscio a procurarmi quella malattia. Quello fu un esperimento da kamikaze fatto dai dirigenti della Scala e dalla signora cui avevano affidato la regia dell’opera. La quale , pur avendo molte qualità, s’era presentata non molto preparata. Quando si vogliono introdurre innovazioni nella tradizione occorre sapere bene quello che si fa ed avere il controllo di se stessi. Il fatto è che la Scala compie talvolta esperimenti sulla pelle altrui e quella volta lo fece sulla mia pelle: si voleva che io restassi per pagare il prezzo di tutte quelle novità. Anche non mi fossi ammalato, sarei comunque andato via”.

La sua carriera può festeggiare già il ventottesimo compleanno. C’è un segreto? “Avere sempre un pianoforte al seguito e studiare come si faceva da ragazzi, ne più e né meno. E’ la regola d’oro. E’ la monotonia del lavoro dell’atleta: un pugile per affrontare un incontro si deve preparare bene. Anche noi siamo molto simili agli atleti: mai mostrare di avere il fiatone. E se il pubblico e la critica si accorge della nostra longevità vocale, lo deve fare nel senso della maggiore tranquillità acquisita con l’esperienza. E’ indispensabile questa ginnastica, questo atletismo puro nel riscaldamento dell’organo vocale. Dipende da questo se alcuni cantanti sono attivi per una decina d’anni appena, mentre altri ( Bergonzi, Fischer-Dieskau), per trenta e più anni”.

Come il vino vecchio, il vino d’annata?
Esattamente, purchè non vada a male”.

Tra breve parteciperà al ‘Pavarotti Day’ che New York le sta preparando in coincidenza del Rigoletto al Metropolitan. Che accadrà quel giorno?
Non so ancora cosa mi sta preparando il pubblico di New York e quello d’America. Spero solo che non mi facciano cantare. Ma le devo dire che la cosa cui tengo di più è l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce che mi è stata di recente attribuita dal nostro Presidente della repubblica”.

Perché canta sempre meno in Italia?
Perché i rapporti con la Scala non sono buoni, anche se sono programmate opere che potrei cantare “.

Non la ripaga cantare, che so, a Parma, come farà tra breve?
Cantare in un concerto non è cantare. Cantare è cantare alla Scala. Con Bologna c’è un rapporto fantastico, ma negli ultimi tre anni ho cantato ogni anno, quindi è necessaria una pausa. Al prossimo Maggio fiorentino canterò Trovatore con Muti. Scusi con Mehta, non con Muti… con queste emme è facile confonderli. Chissà come saranno contenti Mehta e Muti”.

Divampa in questi ultimi anni una polemica fra due grandi stirpi tenorili. I cosiddetti ‘contraltisti’ e i ‘baritenori’. E sembra che i primi l’abbiano avuta vinta sui secondi. Anche qui a due passi da casa sua, a Pesaro, sul palcoscenico del Rossini Opera Festival.
Il tenore è tenore. Tutto il resto è un’eccezione. Chi ama il tenore pensa al tenore, a quello con la voce solare: Domingo, Carreras. Gli altri sono eccezioni alla regola, vanno bene per gli specialisti, per gli addetti ai lavori, anzi per pochi fra essi”. Perché il tenore è il più raro a nascere ai nostri tempi nonostante sia il più amato? “Non è vero. Se vogliamo parlare di voci rare, quelle sono , ad esempio, le voci di baritono e mezzosoprano verdiane. Anche nel mio concorso di canto, e non solo nel mio, sono quelle le voci che mancano. I tenori invece non mancano. Cominciano dai contraltisti e finiscono con i tenori dal colore scuro, i cosiddetti ‘baritonali’. A conferma di quello che le dico, al mio Concorso di Filadelfia, il vincitore è stato quasi sempre un tenore. Forse manca il ‘supertenore’, quello alla Domingo o Carreras. Questo manca”.

Ha qualche colpa il diapason nell’aver reso il tenore una merce tanto rara?
No, il diapason dovrebbe favorirla, essendo quella più acuta. Se poi un tenore è ‘corto’ diventa baritono, baritono leggero, ma non per il diapason che semmai incide nell’ordine di un ottavo di tono”.

Ma allora la polemica sul diapason è insignificante?
Non lo è, perché qualunque voce oltre i ‘440’ diventa ‘irreale’, meglio: innaturale; come innaturale diventa anche il suono dell’orchestra oltre quella soglia”.

Chi sono stati i suoi maestri? Deve loro riconoscenza?
Ho studiato con due maestri: il ‘vocalista’ tenore Arrigo Pola ed il grande Campogalliani, ‘fraseggiatore’ di chiara fama, sotto le cui ‘grinfie’ sono passati almeno il novanta per cento dei cantanti di oggi”.

E Tonini, che collabora spesso con Lei, specie per il Concorso?
Tonini è un maestro di spartito e direttore d’orchestra che mi aiuta nel concorso. Dove io non posso arrivare, arriva lui, dall’Africa al Sudamerica, assieme alla direttrice del concorso”.

A chi si sentirebbe di affidare una giovane promessa?
E’ molto difficile scegliere un maestro affidabile. La professione del maestro consiste nella trasmissione di un pensiero da una testa ad un’altra. Non c’è un buon maestro; c’è più verosimilmente un buon incontro che si può verificare con chiunque. C’è stato un grande maestro nel passato, si chiamava Antonio Cotogni, baritono. Era riuscito a creare molti cantanti di primissima categoria (Lauri Volpi, Basiola) ed altri, altrettanto numerosi, di seconda categoria. Poi c’è stato Campogalliani che è un grandissimo ‘perfezionatore’. Campogalliani, a differenza di Cotogni, ha preso pochi giovani, da lui vanno piuttosto cantanti già in carriera che hanno bisogno di risolvere un qualche problema. Un tempo il parco cantanti era più ampio, perché diviso in categorie. Allora era perciò difficile che un tenore come me - ‘lirico’ - si cimentasse con Aida o Turandot”.

C’è un modo per individuare un cattivo maestro?
Occorrerebbe ascoltare una decina di cattivi cantanti tutti provenienti dalla medesima scuola, per poterlo dire. Ma questo di solito non accade”.

Come sceglierebbe un cast?
Un cast andrebbe scelto bene. Non è un’ovvietà. Scegliendo la voce giusta per ogni ruolo. Solitamente, invece, lo si fa nella maniera sbagliata: si vuol mettere in scena un’opera e si va alla ricerca dei cantanti che possono interpretarla. Il procedimento dovrebbe essere opposto: abbiamo questi cantanti, vediamo quale opera possiamo fare con le loro voci. L’anno scorso ho fatto una regia a Venezia. Ho ascoltato i cantanti a disposizione ed in base alle coro caratteristiche vocali ho scelto il titolo, benché fosse impopolare per i registi. La scelta mi ha dato ragione. L’opera ha procurato soddisfazione anche al regista, cioè a me”.

Cosa domanda un cantante ad un direttore? E tra i direttori, può dirci con chi Lei ha lavorato meglio?
Con i migliori. Con loro si lavora meglio. Il mondo va così, si lavora meglio con i più bravi, anche se qualche cantante dice il contrario. E si sa quali sono . Karajan in testa. Con lui ho fatto Tosca, nella sua ultima produzione al Festival di Pasqua a Salisburgo. Per questo mi ritengo fortunato. E’ stata un’esperienza meravigliosa, come del resto altre volte in passato”.

Eppure di Karajan si diceva che non sapeva scegliere le voci. Anche lei è di questo parere?
Ha scelto tanto che può anche aver sbagliato. Non dimentichiamo però che Karajan ha creato una cantante come Mirella Freni, in tutti i suoi ruoli. Ma anche la Ricciarelli e molte altre. Siccome ha fatto molte volte esperimenti, non sempre gli sono riusciti. Per la Tosca di Salisburgo , v’era un diverso problema. Le condizioni in cui si lavorava a quell’opera, non erano le migliori per una che debuttava nel ruolo e che non cantava mai in voce. Karajan faceva suonare una sua precedente registrazione dell’opera e questa giovane cantante non poteva né misurarsi né migliorarsi. Fino a che punto questo abbia contribuito a non renderla perfetta per il ruolo non so. Comunque chi sceglie molto, può anche sbagliare”.

I nostri teatri lirici sono quasi tutti chiusi per lavori, e tra breve chiuderanno anche per mancanza di fantasia e managerialità. Cosa ne pensa?
L’ho detto sempre e lo ripeto, anche rischiando l’impopolarità: in un territorio piccolo come l’Italia vi sono troppi teatri: troppi per quantità, troppo pochi per qualità. Per andare all’Opera si può mettere in conto un’ora di macchina. L’Emilia, una regione che può essere percorsa da cima a fondo in un’ora, addirittura pullula di teatri. Questo è l’unico discorso serio da fare. Se poi si vuol fare un discorso romantico, meglio ‘di comodo’, perché tutti mangiamo in quel piatto, allora è un’altra cosa”.

Si fa un gran parlare del calmiere dei cachets per i cantanti e Lei è in cima alla piramide.
Sì sono in cima alla piramide ma per i soldi che daranno d’ora in avanti, io quei soldi che vanno dicendo daranno, credo di non averli mai presi. Sì, credo invece di averli chiesti per il prossimo anno, al Comunale di Firenze, per il mio impegno nel Trovatore, che è un’opera bestiale. Mi pare sia il massimo che un cantante di fama mondiale possa chiedere. I cachet sono aumentati a causa della calata in Italia di cantanti stranieri. Quando, dopo anni di assenza, sono tornato alla Scala, ho trovato un cachet aumentato rispetto a quello della volta precedente, proprio per questa ragione. Non dimentichiamo, comunque, che è il teatro che ha la responsabilità dei cachet. Avviene solitamente che i dirigenti dei teatri si rivolgano ad un cantante, gli propongano un ruolo ed il relativo cachet , sul quale ci può essere una contrattazione”.

Il calmiere dunque apporterà benefici?
Se verrà osservato, sì. Ci si lamenta che l’incidenza del costo di un cantante dall’8% è arrivato al 18.20%. Ora le faccio una domanda: il cantante d’opera, nell’economia dell’opera vale il 20%? A mio parere il cantante d’opera dovrebbe valere il 20%”.

Possiamo toccare il tasto dolente delle ‘agenzie’ ? Sua moglie, Adua, è contitolare di una nota agenzia. Cerchi per un momento di astrarsi dalla partecipazione almeno ‘affettiva’ all’agenzia di sua moglie. Qual è il suo parere sulla rappresentanza artistica?
Nel 1961 ho avuto la fortuna di debuttare a Reggio Emilia, assieme a Nabokov, figlio del celebre autore di Lolita. Era un basso. Attorno a lui c’era un grande interesse, venne a sentirlo un agente che ascoltò anche me. Alla fine dell’opera, quell’agente venne nel mio camerino e mi disse: giovanotto, prima di cominciare la carriera, venga da me, voglio farla lavorare . Gli chiesi cosa dovessi fare. Mi rispose: dovrai fare della audizioni, entrerai nella mia agenzia, io ti prenderò il 10%, in cambio ti ‘venderò’ a questi teatri. E me li elencò. Con il solo 10% - pensai – farà tutto questo che dice per me? Così è stato, anche se in quegli anni girava voce che i cantanti davano addirittura il 50% dei loro cachet all’agente. Ho sempre lavorato a queste condizioni con l’agente Siliani, che era stato tenore, e che mi ha procurato sempre grandi soddisfazioni. Adesso ho un agente americano al quale sottopongo ogni decisione: è il mio primo amico. E, mi creda, non capisco come un cantante possa lavorare senza agente. Non posso vagliare da solo tutte le proposte che mi giungono. Ecco dove il lavoro dell’agente diventa indispensabile. Lui riceve tutte le proposte, alcune di esse, dopo averle opportunamente vagliate, me le sottopone. Per fare questo lavoro ci vuole una persona che abbia molta fantasia e non si sia improvvisato. Mia moglie, assieme ai suoi soci, fa da poco questo lavoro, ma lo fa bene. Ha seguito me per trent’anni, ed ha imparato a conoscere il teatro dal vivo. Non deve esistere una nazione senza agenti. In Italia, Zecchillo ha in tal senso davvero rovinato i giovani cantanti italiani i quali, trovandosi senza agenti, hanno favorito la calata degli agenti stranieri, legali. In queste cose non riesco a capire il nostro paese, che invece capisco bene per molte altre cose: nella materia in cui siamo sempre stati signori assoluti, ora vengono a dettar legge gli stranieri. Zecchillo fece in modo che gli agenti italiani fosse banditi dall’Italia. Ho detto questo già al tempo del ‘colpo di stato’ di Zecchillo. Siamo l’unica nazione in Europa in cui gli agenti non sono richiesti, e neppure legalizzati. Se canto in Germania, invece, devo passare attraverso un agente tedesco, il quale è riconosciuto dallo Stato e paga le sue tasse. Anche noi dovremmo avere i nostri agenti che pagano le tasse, e che possiamo controllare, i quali si spera diano sempre la preferenza al cantante italiano”.

Sarà perciò contento della legalizzazione delle agenzie prevista dalla legge di riforma presentata dal ministro Carraro?
Era ora!”.

A proposito di questa stessa legge, la si è accusata di scarsa attenzione alla musica. Ha qualcosa da suggerire al ministro che ora è candidato alla poltrona di sindaco di Roma?
Non fa niente”

Come?
Non fa niente! C’è un male oscuro dei nostri teatri. Ai miei tempi, un teatro, di cui non le faccio il nome, era retto da tre sole persone: la bigliettaia, l’agente e la sua segretaria. Ora quel teatro ha un organico di cinquecento persone per le quali è stato costretto ad acquistare un intero stabile. Allora il teatro andava molto bene. Ora si prevede - giustamente - l’introduzione della figura del 'general manager', come negli Stati Uniti: se non fa andar bene il teatro chiederemo la sua testa; ma gli chiederemo anche di sfoltire gli organici”.

Perché in Italia ci sono teatri nei quali i sovrintendenti sono eletti sovrintendenti ‘a vita’?
Anche i direttori artistici, purtroppo. Secondo me, quando il Sovrintendente non si impiccia nelle scelte artistiche ed è politicamente bravo, deve restare il più a lungo possibile. Però, sa bene, criticare è facile. Vorrei vedere uno di noi al posto di qualche sovrintendente o direttore artistico, forse vorrebbero mandar via anche noi. A Filadelfia, ottengo buoni risultati perché sono responsabile di tutto, pur con gli errori che anch’io commetto”.

Ci dice in tutta sincerità cosa pensa della critica in Italia?
Quelli che fanno il mestiere di critici sono i benvenuti, li ritengo miei ‘colleghi’, e fra i collaboratori più preziosi. Se però della critica fanno lo strumento per la loro esaltazione, allora diventano ridicoli. E ve ne sono. In Italia, per fortuna, sono pochi: tre o quattro che fanno morire dal ridere per la loro ignoranza”.

Tolti questi, qual è il livello della critica musicale italiana?
Altissimo. L’ho sempre ascoltata e l’ascolterò sempre, finché campo. Quando dirò che i critici sono cretini, sarà perché avrò smesso di studiare”.

Sottoscrive anche oggi questa sua dichiarazione che le leggo testualmente. “Penso di aver ricevuto un dono raro qual è la voce stessa. Sarebbe errato congratularmi con me stesso per questo dono. Non svilupparla o non saperla usare questo invece sarebbe un gran peccato! Sarò felice se verrò giudicato non colpevole di tale peccato”. Sottoscrive?
Confermo e sottoscrivo!”.

Si sente di fare un bilancio della sua abbastanza lunga carriera?

Non li faccio io i bilanci. Se, invece, mi chiede quale sia il desiderio più grande che ho oggi, allora le rispondo che vorrei che in futuro tutto andasse come sta andando ora. Va bene così!”.  ( Pietro Acquafredda, Piano Time, 1989)

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