La campagna vaccinale deve procedere per rischio clinico: vacciniamo prima anziani e persone con comorbilità con Pfizer/BioNTech e Moderna. AstraZeneca? Non blocca il contagio: da questo punto di vista il suo uso non può essere considerato strategico”. A parlare all’HuffPost è Antonella Viola, immunologa e Professoressa Ordinaria di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova.
La scienziata commenta il parere della Commissione tecnica scientifica dell’Agenzia Italia del Farmaco, che oggi ha dato il via libera all’uso del vaccino AstraZeneca anche fra gli over 55 senza fattori di rischio. “La posizione dell’Aifa mi sembra ponderata e giustificata dal punto di vista scientifico - sottolinea Viola - come sappiamo si tratta di un vaccino con bassa efficacia, che si attesta attorno al 60%. Inoltre, il suo studio clinico non presenta dati sufficienti per la fascia d’età sopra i 55 anni”.
“Tenuto conto che i rischi connessi al Covid dipendono da età e presenza di comorbilità sarebbe opportuno che il vaccino Oxford-AstraZeneca venisse usato su soggetti giovani, personalmente direi sotto i 50 anni, e in buona salute”, afferma l’immunologa.
Dunque, al di là della questione anagrafica, va considerata la condizione clinica delle persone a cui il vaccino viene somministrato.
Sì. È bene ricordare che, anche nelle fasce di popolazione più giovani, esistono persone obese, ipertese, cardiopatiche, affette da diabete e via discorrendo. Si tratta di categorie a rischio che devono essere protette dal virus al meglio e, dunque, diventare destinatarie del vaccino più efficace possibile.
Come ricordava, l’efficacia del vaccino Oxford-AstraZeneca è pari al 60%, cioè circa un terzo in meno rispetto ai vaccini Pfizer/BioNTech e Moderna. Questo genera un problema nella scelta dei destinatari?
Sì, il problema è duplice. Da un lato c’è una questione di ordine etico: nel momento in cui abbiamo vaccini che funzionano meglio di altri, è sempre complicato decidere chi debbano essere i destinatari del prodotto a maggior efficacia. Dall’altro lato, dobbiamo avere una prospettiva a lungo termine: solo con vaccini che presentano efficacia superiore al 90%, somministrando dosi al 70-75% della popolazione, possiamo sperare di raggiungere l’immunità di gregge. Ovviamente a patto che i vaccini siano in grado di proteggere dall’infezione, frenando il contagio.
Cosa sappiamo su quest’ultimo punto?
Non abbiamo ancora certezze a riguardo ma, guardando i dati e le evidenze della sperimentazione sui macachi, i vaccini Pfizer/BioNTech e Moderna danno speranza di proteggere dall’infezione. Per il vaccino Oxford-AstraZeneca il discorso è diverso: dai dati disponibili, esso sembra non prevenire l’infezione asintomatica. Quindi le persone non si ammalano, cioè non hanno sintomi, ma possono comunque infettarsi ed eventualmente trasmettere il virus.
Le cito le parole della Commissione tecnica dell’Aifa: pur “con i limiti sopra evidenziati [...] il livello di protezione offerto dal vaccino AstraZeneca apporta comunque un beneficio rilevante in termini di contenimento della pandemia”. Ci aiuti a capire: cosa si intende quando si parla di ‘beneficio’?
Il beneficio è costituito dal fatto che il 60% delle persone che saranno vaccinate con Oxford-AstraZeneca non si ammaleranno se entreranno in contatto col Covid-19, ovvero non svilupperanno i sintomi della malattia. Ma ribadisco che questo vaccino, pur somministrato a soggetti giovani e in buona salute, non è in grado di bloccare la catena di trasmissione del virus: da questo punto di vista, il suo uso non può essere considerato strategico.
Il vaccino Johnson&Johnson, di cui sono stati da poco resi pubblici i dati della fase 3 della sperimentazione, sembrerebbe avere un’efficacia che supera di poco quella di Oxford-AstraZeneca.
Sì, l’efficacia si attesta sul 66% e, come Oxford-AstraZeneca, è un vaccino basato su adenovirus. Inoltre è stato testato anche sulla variante sudafricana. Un ulteriore beneficio è dato dal fatto che la sua somministrazione richiede una sola dose. Si tratta perciò di un prodotto interessante: i dati finora comunicati riguardano la somministrazione singola, attendiamo il trial clinico inerente la somministrazione della doppia dose per constatare se la percentuale di efficacia è destinata a salire.
Altra notizia di oggi è uno studio sui dati della sperimentazione di fase 3 che suggerisce che la somministrazione a due dosi del vaccino russo Sputnik offre un’efficacia del 91,6% contro la malattia sintomatica. Cosa può dirci a riguardo?
Il vaccino è sicuro, efficace e i dati tutto sommato solidi. Ci sono dei punti non chiari, ma molto tecnici: tra questi, c’è il fatto che sono stati inclusi nello studio soggetti che si sono infettati tra la prima e la seconda dose, ma non sono stati classificati Covid positivi; il 15% dei controlli ha anticorpi contro il virus e non è chiaro come sia stato considerato. Probabilmente, approfondendo meglio tali aspetti, l’efficacia potrebbe scendere leggermente, ma non c’è dubbio che il vaccino funzioni. Una differenza rispetto agli altri vaccini che usano adenovirus sta nel fatto che in questo studio i russi hanno deciso di utilizzare una formulazione che si conserva a -18°C: sarà un punto che andrà considerato tra le questioni logistiche nel caso si decidesse di aprire al prodotto.
Veniamo all’altra arma nella lotta al Covid-19, costituita dagli anticorpi monoclonali. Oggi Nick Cammack, ricercatore britannico responsabile di Therapeutics Accelerator, in un’intervista al Guardian ha parlato della loro mancanza di efficacia contro le varianti del virus. Cosa ne pensa?
Gli anticorpi monoclonali non sono paragonabili al vaccino: esso riesce a stimolare il nostro sistema immunitario in maniera complessa e completa facendo in modo che, di fronte a una variante, gli anticorpi neutralizzanti possono funzionare meno ma il resto della risposta immunitaria rimane in piedi. L’anticorpo monoclonale, invece, riconosce specifiche sequenze del virus: se il virus cambia proprio in quella sede, l’efficacia della terapia è compromessa. Bisogna inoltre tenere conto che gli anticorpi monoclonali, pur essendo un’arma nella lotta al virus, sono costosi, costituiscono una terapia da effettuarsi in ospedale e sono riservati a persone ad alto rischio.
In definitiva, quale dovrebbe essere la tabella di marcia per l’immunizzazione della popolazione?
Bisogna procedere per rischio clinico: vanno vaccinati prima anziani e persone con comorbidità con Pfizer/BioNTech e Moderna. Aspetterei poi il vaccino Johnson&Johnson per i soggetti a basso rischio e il giudizio dell’Agenzia europea per i medicinali (Ema) sullo Sputnik.
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