Nostalgia del “vecchio” o rinnovamento? Le “Nuove Indicazioni Nazionali” del primo ciclo di studi presentate dal ministro Valditara si prestano a qualsiasi commento, come spesso accade per il settore della formazione, dove ci sono sempre mille idee, mille certezze, mille pregiudizi e poca sintesi.
Parto dai dubbi. I primi riguardano il latino, reintrodotto come materia opzionale nella scuola media: se è necessario per accedere agli studi liceali, appare discriminatorio perché di fatto anticipa la scelta dell’indirizzo di studi agli 11/12 anni; se non lo è, si riduce ad un inutile esercizio di sapere. Dubbi anche sull’indicazione di approfondire la storia contemporanea dell’Italia e dell’Occidente: benissimo privilegiare le nostre realtà, ma si può essere eurocentrici nella storia medievale e moderna, non nella contemporaneità, che si comprende solo in una dimensione globale.
Ma i dubbi più forti nascono dall’invito a studiare la Bibbia, un tributo al dibattito politico sulle origini cristiane dell’Europa che appare fuori contesto. Al di là della scontata osservazione sulla presenza a scuola di molti giovani che si riconoscono in altri testi sacri, che cosa si dovrebbe leggere della Bibbia? Antico o Nuovo Testamento? Quali pagine tra le tante ? E quale docente dovrebbe occuparsene (posto che ad averla approfondita sono i laureati in scienze teologiche?). La scuola è laica, non confessionale, e le radici dell’Occidente si studiano in storia, come si è sempre fatto, nella sintesi tra cultura classica e cultura cristiana. Se oggi un docente vuole ricordare il senso del messaggio cristiano, non ha bisogno di risalire alla Bibbia: basta leggere in classe un discorso di papa Francesco sulla pace, dove le “radici” si coniugano al “presente”.
In tutto questo, le “Indicazioni” hanno sapore ideologico. Ma sarebbe altrettanto ideologico respingerle in blocco. Certamente è condivisibile la premessa del lavoro: così com’è, la nostra scuola annaspa e bisogna intervenire. È vero che dalle nostre università escono eccellenze, ma è ancor più vero che la preparazione si misura sugli standard medi e questi sono bassi, come certifica il Censis e come chiunque può verificare da solo. Altrettanto condivisibili sono alcune delle proposte. Ad esempio, l’esercizio della memoria. Nell’era di internet, dove qualsiasi informazione si ottiene in un lampo e in un lampo si dimentica, Dante insegna: «non fa scienza, senza lo ritener, aver inteso» (Paradiso, V). La scuola fondata sull’acquisizione mnemonica è stata combattuta dal’68, in nome di un sapere critico e consapevole, ma gli anni “caldi” della contestazione hanno prodotto più rifiuti che proposte, con il risultato di cancellare l’erudizione senza fondare la consapevolezza critica. Era sbagliato scambiare la cultura con l’accumulo delle nozioni, non esercitare la memoria come funzione psichica. Ben venga, dunque, qualche forma di “ginnastica neuronale” a beneficio del “ritenere”.
Condivisibile anche il richiamo alla lettura e alla correttezza del linguaggio: la parola è la straordinaria ricchezza dell’uomo, non può avvilirsi negli acronimi dei messaggini. E condivisibile è la separazione della storia dalla geografia (“geostoria”, spesso, significa non fare né l’una né l’altra). Al di là del giudizio su singoli aspetti, ciò che crea perplessità è il carattere parziale delle “Nuove Indicazioni Nazionali”. Lo scorso anno sono state elaborate le linee guida di fisica e matematica, quest’anno è la volta dell’area umanistica. E parliamo, nell’uno e nell’altro caso, solo di primo ciclo. E la visione didattica di insieme? L’obiettivo è la formazione di tecnici, come nella riforma delle tre “i” della Moratti (inglese, informatica, impresa)? Oppure la preparazione di cittadini consapevoli delle proprie tradizioni culturali? Oppure l’uno e l’altro, nella ricerca di un equilibrio tra i due poli?
È vero che in Italia una riforma complessiva della scuola è impresa ardua. La prima porta la firma di Francesco De Sanctis, 1861; la seconda di Giovanni Gentile, 1923. Nei cent’anni successivi, tante rettifiche e correzioni, ma una riforma complessiva mai. Può darsi che l’unica via percorribile sia quella, pragmatica, di trasformazioni introdotte un segmento alla volta. A condizione, però, che i segmenti discendano da una visione unitaria, da “linee guida” che definiscano il modello complessivo di studio. Oggi rischiamo di discutere di frammenti, senza comprendere bene l’obiettivo finale.
Avrei preferito leggere prima le “Indicazioni Nazionali” per un “Nuovo sistema scolastico”, poi le specificazioni: avrei capito se andiamo verso la scuola della Bibbia e del latino o verso quella del buon italiano, della memoria, della storia come consapevolezza.
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