Il tratto distintivo del governo di Giorgia Meloni è la stabilità. Il Paese è stabile da diversi punti di vista, incluso quello economico. Un bene, certamente. Tuttavia, in politica economica, la stabilità può facilmente trasformarsi in immobilismo.
I segnali in questo senso, dopo tre leggi di Bilancio, sono molteplici. In effetti, la «Melonieconomics» può essere sintetizzata nel modo seguente: si interviene ma non si cambia. Nessuna rivoluzione, quindi, solo qualche revisione - talvolta anche significativa come nel caso del Bonus 110 per cento. Alcuni esempi? Le minori tasse (leggi riduzione del cuneo fiscale) sono finanziate con nuove o maggiori (altre) tasse, la spesa è ricomposta (poco) ma non ridotta, i vecchi bonus ridimensionati ma altri nuovi adottati e, infine, i dossier spinosi dal punto di vista del consenso politico come quelli dei balneari, dei taxi e della revisione del catasto, rimandati. E così si resta fermi. Ma attenzione. A star fermi, in un contesto incerto come quello attuale, non si resta immobili, si va indietro. I numeri lo dimostrano chiaramente: la crescita è ritornata ad essere asfittica e la produzione industriale inanella segni meno da molti mesi. Andare indietro significa - in estrema sintesi - meno risorse, meno ricchezza, meno sicurezza. È chiaro che si deve andare avanti. Come?
Qualche idea: tagli della spesa ragionati (dal punto di vista politico ed economico) ma, al contempo, maggiori risorse pubbliche destinate all’istruzione e alla sanità; riduzione strutturale della pressione fiscale, ovvero finanziata con minori uscite; eliminazione (totale o parziale) delle spese fiscali che accentuano le disuguaglianze e riducono la trasparenza del bilancio dello Stato; infine, riforme vere a cominciare dai (tanti) settori dove permangono rendite di posizione.
Una tabella di marcia impossibile da realizzare? In realtà no. Azioni simili, persino più incisive, sono state intraprese da altri Paesi europei, a cominciare dalla Spagna, il Portogallo e la Grecia. Non è un caso se oggi crescono - rispettivamente - il triplo e il doppio di noi. Quindici anni fa, quelle economie erano sull’orlo del fallimento. I governi dell’epoca hanno dovuto aderire a dei programmi di aggiustamento macroeconomico (ossia conti in ordine e riforme) definiti insieme alla cosiddetta Troika (il gruppo di creditori formato dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale) in cambio di aiuti finanziari.
Un decennio dopo, i risultati in termini di performance economica sono sotto gli occhi di tutti: la Spagna, la Grecia e il Portogallo sono andati «avanti» in termini di sviluppo economico, di consolidamento dei conti e, anche, di rafforzamento della fiducia dei mercati finanziari, cioè coloro che prestano i soldi. Solo per fare un esempio, lo spread ellenico si attesta intorno agli ottanta punti base, un livello ben al di sotto di quello italiano.
Quest’ultimo è sceso negli ultimi mesi, raggiungendo quota centodieci punti base. Una simile dinamica è effetto dell’azione di politica economica volta a tenere i conti pubblici sotto controllo, attuata – purtroppo - in solitario e con molta (troppa) fatica dal ministero dell’Economia e delle Finanze.
Ma, come si diceva poc’anzi, senza un’azione politica corale – quindi sostenuta congiuntamente da tutte le forze di maggioranza e di lungo respiro, il Paese resta fermo. Con gli altri che vanno avanti, il risultato ultimo è quello di andare indietro. Inevitabilmente, l’alternativa al cambiamento è il lento (ma neanche tanto) declino.
Per evitare ciò, servirebbe un grande programma di aggiustamento. Toccherebbe a Meloni implementarlo, facendo – ironia della sorte - la parte della Troika. Non un’impresa facile dopo anni all’opposizione in cui è stato detto tutto e il suo contrario. Alcuni elettori, abituati alle tante favolette (del tipo «più spesa per tutti, meno tasse per tutti») raccontate in questi anni, non capiranno e – verosimilmente – le volteranno le spalle alle prossime elezioni.
Ci potrebbe, quindi, essere un prezzo politico da pagare. A questo proposito, vale la pena sottolineare come le esperienze internazionali di cambiamenti ben presentati e argomentati dimostrino che - in realtà - nel medio termine il consenso dei leader tende a crescere, non a diminuire. Una cosa è certa, però. Il prezzo che pagherebbe il Paese - ossia tutti noi - se si continua sulla strada dell’immobilismo (quindi del declino) è ben più elevato.
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