mercoledì 20 novembre 2019

Carlo Fuortes, il sovrintendente che a parole professa la 'modernità' nell'opera come necessaria per il suo futuro, ha gettato la maschera

Chi segue da tempo le gesta - per noi 'indigeste', assai spesso - dell'attuale sovrintendente a capo dell'Opera di Roma, Carlo Fuortes, si è finalmente fatto persuaso - per usare una locuzione cara al commissario di Camilleri - che quella sua sbandierata fede   nella modernità, senza la quale l'opera sarebbe morta, è farlocca. 

Per lui l'impegno per la modernità consiste nell'offrire al pubblico del  suo teatro grandi capolavori del passato  in veste moderna, che significa sfruttare la grande popolarità ed il conseguente 'appeal' di quelle opere (mentre a causa di nessuna delle 'sue' regie il teatro si riempirebbe)  per solleticare con spettacoli spesso fuori luogo e fuori tema (compresa l'ultima criticatissima per Idomeneo) qualche snob, soprattutto se ignorante in fatto di melodramma. Schiera nella quale, ci dispiace farlo, non esitiamo a mettere il sovrintendente medesimo.

 Che a lui dell'opera moderna - ha a cuore solo le  regie moderne per capolavori del passato - interessi poco, forse niente, lo ha dimostrato sia la traumatica fine di quell'esperimento sul 'contemporaneo' che aveva affidato, senza crederci, a  Giorgio Battistelli e che ha avuto per questo vita breve, anzi brevissima; sia ciò che sta per accadere fra qualche giorno nel suo teatro.

Ci riferiamo alla prima assoluta della nuova opera di Montalti-Compagno, questo secondo è il librettista - dal titolo un Romano a Marte, in cartellone da venerdì 22 a domenica 24.

Quest'opera vinse nel lontano 2103 il Concorso di composizione bandito dall'Opera di Roma, cioè da lui, che voleva mostrarsi aperto all'opera contemporanea, e di anno in anno il suo battesimo è stato posticipato fino ad oggi.

 Noi ci 'siamo fatti persuasi' che se fosse dipeso da lui, Fuortes, e sempre che lui non avesse contratto obblighi per via di quel concorso al quale contribuirono economicamente anche nomi illustri ( Bulgari nientemeno, ben raggiungere la astronomica cifra di 20.000 Euro , a quanto ammontava il premio per il vincitore), quell'opera non sarebbe mai stata rappresentata. E del resto il ritardo di sei stagioni lo sta a dimostrare.

 Come lo dimostra anche il fatto che viene presenta al Nazionale - una specie di ridotto del Costanzi- e per sole tre sere.
 Che altro deve fare  Fuortes per  fare convinti tutti che la sua ansia per il moderno è finta?

 Se fosse stata vera, avrebbe potuto negli anni fare ciò che, ad esempio, la Fenice - che non è stata governata in questi anni  nè da aquile, nè da leoni( marciani) di sovrintendenti - ha fatto alcuni anni fa, inaugurando la stagione con un'opera nuova: Aquagranda, affidandone la regia ad uno che  ci sa fare, Michieletto ( anche se abbiamo avuto sempre il dubbio che senza un regista inventore come lui, quell'opera sarebbe stata sommersa da fischi di disapprovazione). 

Oppure come fa la Scala, con la quale Fuortes  dice sempre di misurarsi, che presenta quasi sempre un titolo contemporaneo a stagione ( Sciarrino, Kurtag, solo per citare gli ultimi). 

 No, Fuortes, fa le nozze -  in  verità,  si tratta di funerale all'opera nuova - con i  proverbiali 'fichi secchi' del regista 'interno' al teatro, e non vede l'ora che passino quei tre giorni di rappresentazione, che considera una specie di 'calvario' inevitabile.

 E dunque c'è  ancora qualcuno che crede al Fuortes, paladino della 'modernità' e 'contemporaneità' nell'opera?

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