Terminato
il 'Fidelio' inaugurale della stagione milanese, Barenboim ha fatto alcune dichiarazioni. Innanzitutto, rivolgendosi a chi lo ha accusato, lui e Lissner, di trascurare il repertorio operistico italiano (e ci
riferiamo a Verdi, Bellini, Donizetti, Rossini, e mettiamoci anche
Puccini, perchè no?) ha risposto che 'l'italianità' non è una
questione di passaporto. Insomma, che si può fare opera italiana,
o 'all'italiana' , anche eseguendo Wagner, Mozart, Strauss,
Beethoven, Bizet, innestandovi la grande tradizione storica e
musicale del nostro paese, imprescindibile. E che, perciò, se non si esegue
alla Scala nessuno o quasi degli autori grandissimi sopra citati, non
si può essere tacciati di 'antiitalianità'.
E' una teoria che non sta in piedi , come può risultare a chiunque, come non sta in piedi pure un'altra, che da questa direttamente discende, e cioè che la venuta
di Barenboim e Lissner alla Scala, dopo l'epoca Muti, è servita a
portare un po' di Europa in Italia, secondo l'interpretazione di
qualche giornale, che ha scritto che con la coppia 'estera'
alla Scala sono arrivati anche i grandi nomi della regia
'internazionale'. Vabbè, ma è stata vera gloria? Barenboim e i
giornalisti, fiancheggiatori del direttore argentino e di Lissner, sostengono che era necessario; noi no, perchè pensiamo che
nell'opera lo spettacolo conta - e come potrebbe essere diversamente?
- ma conta innanzitutto la musica, ed ancor di più ci sembra conti
quando si vedono regie ed ambientazioni che lasciano sinceramente
sbalorditi, per la loro estraneità all'opera rappresentata. E quella
del 'Fidelio', per restare in tema, non lo era del tutto, perchè mantenere l'ambientazione in un carcere, in ossequio a Beethoven, avrebbe sottolineato
l'inferno che in quei luoghi si vive, e in Italia più che negli
altri paesi d'Europa.
Barenboim
per sottolineare che l'appartenenza ad una nazione non è legata al
passaporto, ha detto che se lui avesse dovuto dirigere solo musica
del suo paese, per farla conoscere nel mondo, avrebbe diretto e fatto
eseguire solo il tango, che è la bandiera musicale argentina. Un
colpo basso di Barenboim, che però non fa al nostro caso.
E
poi ha invitato tutti in Italia - ma forse si rivolgeva al ministro Franceschini, l'unico con una carica istituzionale
presente alla prima milanese - ad impegnarsi perché l'Italia, “come dice Riccardo Muti, non diventi da paese della
musica, il paese della storia delle musica”. Intendendo che la
musica va tenuta in grande considerazione, altrimenti diventiamo il
paese nel quale secoli fa è nata l'Opera, dove sono vissuti grandi
musicisti, il paese che ha costruito meravigliosi strumenti musicali ecc... questo dice Muti, e sottoscrive Barenboim, il quale in tutti
questi anni non ha mai pronunciato neanche il nome del suo
predecessore alla guida della Scala; e ricordarsene solo ora è un
po' ruffiano.
Ed
ha aggiunto, rivolto a chi lo accusa di non aver mai diretto un'opera
del grande repertorio italiano a Milano, che lui questo repertorio lo
fa a Berlino. Bella scusa.
In
realtà qualcuno ha detto e scritto, negli anni passati, che la ragione
del suo mancato impegno nel repertorio italiano a Milano si
giustificava con la mancanza di sicurezza del direttore argentino in tale repertorio; sicurezza che a Berlino -
aggiungiamo noi - sentiva di avere ed a Milano no. Perchè Berlino
non è Milano, ed il suo teatro berlinese non è la Scala, dove non
gli avrebbero fatto nessuno sconto in fatto di interpretazione e di tradizione esecutiva del grande melodramma italiano. In una parola,
in fatto di 'stile'. Lasciando in pace Toscanini quando diceva che
'la tradizione è l'ultima cattiva interpretazione'. Altri tempi,
altre circostanze.
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