martedì 5 agosto 2014

Una nuova opera da un celebre romanzo di Moravia. 'La ciociara'. La scrve Tutino



Una nuova opera lirica sta per essere tratta da Moravia.  Ora dal suo celebre romanzo:’ La Ciociara’, dal quale De Sica fece un film nel 1960, per il quale Sophia Loren meritò l’Oscar. L’ha commissionata a Marco Tutino, l’Opera di san Francisco che la coproduce con il Teatro Regio di Torino. Debutto previsto, giugno 2015.
Nell' attesa giova ricordare come andò con la prima opera da un racconto di Moravia, quando una bagarre si scatenò alla Scala, volarono insulti ed anche un paio di ciabatte, per la prima dell’opera ‘La gita in campagna’ di Mario Peragallo. Forse la prima 'topolino' in scena ed il soggetto 'social' ebbe qualche responsabilità.
Sono trascorsi sessant’anni esatti da quando, prima ed unica volta fino ad oggi, un racconto di Alberto Moravia divenne libretto. In seguito, visto lo scarso entusiasmo dello scrittore per l’esperimento, nessuna altro tentativo fu fatto; mentre diversamente andarono le cose per il teatro ed il cinema , per i quali lo scrittore non fece mancare il suo assenso a varie trasposizioni ( su quegli argomenti lo scrittore molti anni prima aveva anche scritto qualche saggio, sul mensile ‘Documento’(luglio/ agosto; novembre/dicembre 1942): 'Letteratura e Cinema' e 'Teatro e Cinema'.
Non ci è dato sapere se a Moravia altri musicisti si siano rivolti in seguito, e se da parte dello scrittore fosse venuto un diniego a seguito dell’esisto non entusiasmante del primo esperimento, realizzato da Mario Peragallo che dal racconto ‘romano’ ‘Andare verso il popolo’, ricavò il libretto (operando solo qualche leggero cambiamento nei dialoghi e, diversamente, molti tagli in passaggi di carattere descrittivo) della sua opera in un atto e tre quadri,‘La gita in campagna’, andata in scena a Milano, Teatro alla Scala, il 20 marzo del 1954. Mentre, quasi contemporaneamente, al Piccolo, fu presentato un lavoro drammatico tratto da ‘La mascherata’, come lo scrittore annunciava in una lettera dell’ottobre 1953: “a Milano daranno due cose mie : ‘ La mascherata’ al Piccolo Teatro e un’opera in un atto del maestro Peragallo, tratto dalla mia novella ‘Andare verso il popolo’ alla Scala, insieme ad un’altra opera di Menotti “.
L’artefice di tale nuovo secondo tentativo, alla prova del palcoscenico a giugno 2015, il cui esito, nonostante il soggetto prescelto abbia già avuto una fortunata versione cinematografica con la Loren protagonista non è del tutto scontato, è Marco Tutino, un compositore molto attivo nel campo del melodramma, il quale va a far compagnia al compositore Giorgio Battistelli, che per ogni nuova impresa melodrammatica cannibalizza il cinema di successo.
Dal racconto che ne ha fatto Tutino, la nuova impresa melodrammatica moraviana, tratta dal celebre romanzo ‘ La ciociara’, è nata in questi termini. Lui non ne sa nulla fino ad un momento prima della telefonata, quando in Italia era notte fonda, che gli giunge da San Francisco. All’ altro capo del telefono c’é Nicola Luisotti, direttore dell’Opera di san Francisco, e del san Carlo di Napoli, il quale gli annuncia che il teatro americano, vuole un’opera nuova su un soggetto italiano già individuato ed arcinoto: ‘La ciociara’, da Moravia e De Sica. Tutino, in perfetto stile melodrammatico, cade dalle nuvole (o finge?); vuole rifletterci prima di accettare; ma poi richiama Luisotti e gli comunica che accetta. Debutto il 15 giugno del 2015 all'Opera di san Francisco. Immediatamente il musicista chiede agli eredi di Moravia l’autorizzazione, che gli viene naturalmente concessa, e tira fuori il libretto, accettato anche questo. E subito al lavoro, non c’è un attimo da perdere. Tutino conosce già i cantanti, compresa la protagonista, Cesira, che sarà Anna Caterina Antonacci, già protagonista di un‘altra opera di Tutino, ‘Vita’, andata in scena alla Scala nel 2003. Altro non sappiamo che possiamo anticiparvi fin d' ora.
Mentre sappiamo abbastanza di quella prima opera, rimasta unica fino ad oggi, su libretto tratto da Moravia, musica di Mario Peragallo, ‘La gita in campagna’, che ebbe il battesimo movimentato sul palcoscenico della Scala, esattamente sessant’anni fa, il 20 marzo 1954. Il libretto - per buona parte il testo stesso di Moravia, scritto quasi totalmente in forma di dialogo fra i personaggi, con la sola eccezione di un coro finale aggiunto - era quello del suo racconto breve: 'Andare verso il popolo', da Moravia definito ‘novella’.
‘La gita in campagna’ andò in scena assieme a due altri atti unici: ‘La figlia del diavolo’, esordio operistico di Virgilio Mortari, su testo di Corrado Pavolini; e ‘Amelia al ballo’ di Giancarlo Menotti, scritta nel 1937, alle spalle un successo consolidato , che ebbe il compito di concludere positivamente la serata che con l’opera di Peragallo/Moravia aveva toccato il suo punto più contrastato.
Per la cronaca, direttore del trittico di opere contemporanee Nino Sanzogno; e nel caso dell’opera di Peragallo/Moravia, la regia era di Enrico Colosimo; bozzetti per scene e costumi di Renato Guttuso, direttore dell’allestimento Nicola Benois.
L’opera racconta di una coppia di giovani, Ornella e Mario, che in una ‘Topolino’ girano per la campagna romana, nell’inverno del 1944. La loro macchina è in panne, serve acqua per il radiatore, e Mario pensa di andare a prenderla in una capanna poco distante; approfitterà anche per condurre le sue indagini di cronista sulle condizioni del popolo, a guerra appena finita. Giungono alla capanna - nel corso del cammino Ornella, prima riluttante, si fa anche baciare da Mario - dove vive in miseria una famigliola. La contadina, di nome Leonia, dà a Mario un recipiente e gli indica il pozzo, dove attingere l’acqua, là c’è suo marito, Alfredo. Leonia, restata sola con Ornella, la deruba di tutto, lamentando l’assoluta mancanza di ogni cosa. Quel poco che aveva la sua famiglia glielo hanno portato via i tedeschi. Medesima sorte toccherà a Mario, il quale con Ornella, ambedue quasi nudi, raggiungono la macchina per far ritorno a Roma. Prima di partire circondano la topolino altri contadini e ragazzi che chiedono la carità, perché a loro volta derubati di ogni cosa dai tedeschi. Per fortuna la macchina riparte, mentre il gruppetto li insegue invano, gridando ‘la carità, fateci la carità…’.
Con l’opera di Peragallo/Moravia, la cronaca fece irruzione nel melodramma, come aveva già fatto nel cinema neorealista italiano, che tanta influenza ebbe nello sviluppo della cinematografia mondiale.
Nel presentare l’opera, sul programma di sala della Scala, Massimo Mila accennava alle difficoltà in cui si dibatteva l’opera che attendeva ancora chi avrebbe raccolto il testimone di Mascagni, Giordano, Zandonai, mentre allora contavano i nomi di Pizzetti, Casella, Malipiero che avevano imboccato strade proprie ed alternative rispetto alla tradizione. (Nel comunicare a Tutino la commissione della nuova opera, il teatro americano ha fatto esplicito riferimento al melodramma verista, precisamente a quello mascagnano!). A Peragallo, che già aveva dato al teatro altri titoli prima della ‘Gita in campagna’, si guardò come a colui che poteva ripetere i successi dell’ultima grande scuola melodrammatica italiana. Che era poi anche la segreta speranza dello stesso Peragallo che dopo i successi delle sue precedenti opere ( Ginevra degli Almieri,1937; Lo stendardo di s.Giorgio,1941), e dopo un periodo di crisi compositiva, tacendo quasi del tutto, ora si rimetteva all’opera, dopo alcune prove strumentali ben accolte. Sulla sua sincerità, nell’assoluta autonomia del nuovo linguaggio musicale, era pronto a scommettere lo stesso Mila, che sottolineava:” il particolare biografico che Peragallo non abbia alcun bisogno dei diritti d’autore per condurre una vita più che passabile, cessa di essere una futile indiscrezione e diviene invece elemento da tenere in conto come indice della sua assoluta sincerità, anche in questa prima fase di attività artistica”. Insomma, voleva dire Mila, Peragallo è ricco e quindi se intraprende una strada nuova, abbandonando quella passata che gli aveva meritato un bel successo, non lo fa per guadagnarsi da vivere con i diritti d’autore, puntando sulla novità per lanovità, e dunque va considerato sincero e meritevole di fede ed attenzione, nonostante che nello specifico si fosse avvicinato alla dodecafonia; lui che a differenza di molti compositori dell’avanguardia musicale dell’ epoca che avevano già amoreggiato anche con la dodecafonia, veniva dal teatro tradizionale ottocentesco. Aveva cioè lasciato il certo per l’incerto e per il difficile. Andava Peragallo per la sua strada, mentre parallelamente era già spuntato il partito di chi aveva smesso di scrivere musica per i critici e i colleghi ed aveva ‘tentato di stabilire intorno a sé un contatto umano’ ( antenati dei cosiddetti neoromantici, neomelodici, neotonali?). Paragallo sta lontano dall’uno e l’altro schieramento, quando scrive ‘La gita in campagna’, come annota Mila, nella presentazione dell’opera:” Peragallo si è accostato nuovamente all’opera musicale, con la volontà di farsi capire e seguire, e nello stesso tempo di non abdicare a quella decenza di stile cui dovrebbe restar fedele ogni musicista onesto. Proprio nella difficoltà di tale tentativo, concludeva Mila, v’ha cercata la ragione per cui Peragallo s’è mantenuto nel ristretto cerchio dell’atto unico, meno rischioso, rientrando nel mondo dell’opera quasi in punta di piedi; ha voluto lanciare un segnale nella speranza che qualche altro musicista lo colga, evitando, perfino, di raccogliere ‘le insinuazioni di amarezza sarcastica' che erano implicite nel racconto di Moravia”.
Luigi Pestalozza su ‘Il Verri’ ( n.4, dicembre 1958), scriverà anni dopo, al tempo della ripresa romana, per la Filarmonica, nel 1958, dopo che l’opera era stata ben accolta all’estero, che “La gita in campagna ha rappresentato l’unico tentativo serio della musica italiana di inserirsi, e di prendere posizione, sulle questioni di fondo, sui conflitti umani che segnano i nostri giorni…”. E ancora, che Peragallo “ ha saputo conciliare l’engagement sociale con l’avanguardismo musicale, ed è approdato ad un risultato di comunicazione, di espressione, di stile e dunque di originalità”, il che – spiega - vuol dire che Peragallo ha compiuto “un tentativo, fuori d’ogni demagogico semplicismo di ricondurre la nostra musica, il nostro teatro musicale ad una tematica realistica”. Fin qui pareri e reazioni degli addetti ai lavori. E il pubblico come reagì? Ci vengono in aiuto alcune cronache anche autorevoli di quei giorni milanesi. Pasquale Festa Campanile (La Fiera Letteraria) va a sentire lo stesso Moravia, che di lì a pochi giorni avrebbe assistito a quello che egli considerava il suo vero debutto drammatico, con ‘Commedia tragica’( da 'La mascherata'), regia di Strehler, al Piccolo Teatro. E ne scrive nel suo pezzo, intitolato ‘Due ciabatte a teatro’.
“E’ andata malissimo - gli disse tranquillamente Moravia - peggio di così non poteva certamente andare. Debbo dire, comunque, che quello della Scala è un pubblico provinciale. Esso si è comportato male perché è venuto a teatro con l’idea preconcetta di far giustizia sommaria. Hanno tirato due ciabatte sul palcoscenico: quindi le ciabatte se le erano portate da casa. Forse su questo comportamento hanno influito le idee politiche e le scene di Guttuso per esempio. Forse è stata l’irritazione per un argomento sgradevole, neorealistico direi. La presenza di due poveri sulla scena ha fatto pensare che si trattasse di un’opera di sinistra, mentre era semplicemente un grottesco. A mio avviso non c’era motivo per una protesta così violenta e, in ogni caso, si poteva aspettare la fine dello spettacolo. A me personalmente la musica dodecafonica di Peragallo è piaciuta come del resto è piaciuta a tutti coloro che se ne intendono”.
Per la cronaca della serata, Festa Campanile annotò: “ Fu forse la presenza sulla scena di una macchina vera - una Topolino A. balestra lunga ( e alla Scala non s’era mai vista una cosa del genere) - a sconcertare il pubblico fin dall’inizio. Oppure fu l’apertura sociale intravista da qualcuno e sottolineata dalle scene di Guttuso; o, in effetti, la musica di Peragallo. Certo è, per la cronaca, che alla fine dello spettacolo il pubblico mostrò i pugni tesi agli autori e si mise a scandire ‘Buffoni,buffoni’. Sul palcoscenico arrivarono perfino due ciabatte, lanciate dal loggione. Il giorno successivo, in sede di resoconto, un quotidiano spingeva la sua critica al punto di scrivere:’Quanti milioni sarà costato l’allestimento di quest’opera alla Scala? A proposito di aperture sociali, non sarebbe stato meglio offrirli, per esempio, al soccorso invernale?”.
Certamente quanto accadde quella sera alla Scala non incoraggiò successivamente Moravia a intrecciare altre volte la sua opera al melodramma; ma, forse, più semplicemente nella sua attività di scrittore si sentiva estraneo al mondo dell’opera, che pure ammirava, come dichiarò in seguito: “ per me l'opera lirica ha il valore che poteva avere cento o duecent'anni or sono. E' vero che sembra essere morta o quasi dal momento che si scrivono e rappresentano pochissime opere liriche nuove oggi; ma è anche vero che la particolare esperienza culturale e artistica dell'opera lirica è sempre quella e non è cambiata, ed è insostituibile e inconfondibile. Con questo voglio dire che l'opera ha le sue ragioni d'esistenza eterne e sempreverdi come la tragedia greca o il dramma elisabettiano; e che chiunque riesca a 'vivere' a fondo queste ragioni,non possa non trovarsi a suo agio nell'atmosfera dell'opera lirica” .( Sipario, 1964, n.224)
Ma forse una qualche colpa dell’esito disastroso della serata l’ebbero i dirigenti scaligeri, come faceva notare fin dal titolo in una acuta recensione della serata, intitolata ‘Un trittico forzoso’, Emilia Zanetti, ancor dalle pagine de ‘ La Fiera Letteraria’.
“Concentrare tre primizie in una sola serata - come ha fatto la Scala per il secondo ed ultimo spettacolo di novità liriche offerte dal cartellone di quest’anno - è cosa alquanto inusuale quando non si tratti di festivals e di stagioni d’eccezione. Ma ci permetteremo di considerare ottimistica quella interpretazione che ha esaltato il procedimento come una sorta di giustizia economica a beneficio dei compositori contemporanei. Continuando questi a preferire l’atto unico è anche spiegabile che gli organizzatori finiscano col provvedere per proprio conto ad associarli in una rappresentazione di durata normale. Quanto al vantaggio che ne ricaverebbero i compositori stessi è più esatto negarlo, sia per la difficoltà che incontra la preparazione artistica, sia per la ricettività del pubblico messa a troppo dura prova dal contrasto di stili e di tendenze che, intrinseco alla situazione operistica di oggi, non può non sottolinearsi quando si mettano tre autori a contatto di gomito”.
E, proseguendo: “Del clamoroso rifiuto che gli ha opposto il pubblico della Scala, si è sufficientemente letto sui quotidiani per tornare a riferirne. Pittoresco a vedersi e candidamente sproporzionato alla portata del fatto, esso ha inoltre molte probabilità di venire smentito in altre sedi meno ‘storiche’ o un po’ più spregiudicate ed ospitali alle voci d’oggi. Il che non significa che vogliamo dipingere Peragallo nelle spoglie dell’agnello innocente…”.
E, infatti, quando nel 1958 l'opera di Peragallo/Moravia fu ripresa a Roma (trasmessa anche alla radio), per iniziativa della Filarmonica, al Teatro Eliseo, in un ambiente molto più consono alle dimensioni 'cameristiche' dell'opera di Peragallo, considerata alla stregua di un antico 'intermezzo', e non più davanti ad un pubblico come quello della Scala, considerato tradizionalista e provinciale, l'opera fu accolta bene, come del resto era già accaduto nelle numerose riprese che si ebbero, dopo la Scala, in Germania e America. A Roma l'opera fu diretta da Bruno Bartoletti, sul podio dell'Orchestra della RAI di Roma, ed ebbe la regia di Luigi Squarzina.
Da allora e fino ad oggi non si ricordano altre più recenti riprese.
Dal cinema all'opera
Gli esempi di melodrammi 'cinematografici ' sono ormai numerosi. Tralasciando Philip Glass, il più illustre fra quelli che hanno pescato nel cinema, nella fattispecie quello di Cocteau, per un trittico di ‘opera con film’ non privo di originalità (Orphée, La belle et la bete, Parents terribles), se ci limitiamo a casa nostra, dopo il caso di Bussotti, anni Ottanta, rimasto senza seguito, con L’ispirazione - debutto a Firenze, regista Derek Jarmann - la lunga lista delle opere ‘cinematografiche', reca sempre una sola firma: Giorgio Battistelli. Tale lista, troppo lunga per non destare sospetti, non accenna a concludersi: Prova d’orchestra, Miracolo a Milano, Teorema, Divorzio all’italiana, Il fiore delle mille e una notte, Una scomoda verità, (attesa per l’Expo 2015, dal film documentario di Al Gore); e Il medico dei pazzi, (debutto italiano alla Fenice, la prossima stagione) dall’omonimo film di Mario Mattòli, Totò protagonista, a sua volta derivato dalla celebre commedia di Eduardo Scarpetta.
Marco Tutino, nuovo in questo genere di imprestiti ‘cinematografici’, prima de ‘La ciociara’, che a San Francisco avrà libretto italiano ma titolo americano (Two Women, come il titolo americano del film di De Sica), è tuttavia abbastanza navigato nel melodramma, dove ha sempre privilegiato il campo della favolistica ( Pinocchio, Il gatto con gli stivali, La bella e la bestia, Peter Pan, Peter Uncino) o del fumetto, con Dylan Dog; favolistica e fumetto dal quale il cinema ha attinto a piene mani.
Philip Glass ha motivato le sue 'opere con film' con il bisogno di cogliere ispirazione anche da altre forme di espressione della creatività contemporanea, fra le quali il cinema è la più recente e ricca. E, comunque, compiuto l'esperimento del trittico da Cocteau, ha voltato pagina. Diverso il caso di Battistelli che persegue ostinatamente in questo filone di imprestiti creativi, per i quali viene da domandarsi se lo fa perchè non trova altrove soggetti interessanti o perchè spera che il successo cinematografico di un soggetto e di un titolo si riversi sul palcoscenico del teatro d’opera, considerato abbastanza marginale nella creatività contemporanea, o perchè individuata una formula fortunata intende sfruttarla all'infinito

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