Una nuova
opera lirica sta per essere tratta da Moravia. Ora dal suo celebre romanzo:’ La
Ciociara’, dal quale De Sica fece un film nel 1960, per il quale
Sophia Loren meritò l’Oscar. L’ha commissionata a Marco Tutino,
l’Opera di san Francisco che la coproduce con il Teatro Regio di
Torino. Debutto previsto, giugno 2015.
Nell' attesa giova ricordare come andò con la prima opera da un racconto di Moravia, quando una bagarre si scatenò alla Scala, volarono insulti ed anche un paio di ciabatte, per la prima dell’opera ‘La gita in campagna’ di Mario Peragallo. Forse la prima 'topolino' in scena ed il soggetto 'social' ebbe qualche responsabilità.
Nell' attesa giova ricordare come andò con la prima opera da un racconto di Moravia, quando una bagarre si scatenò alla Scala, volarono insulti ed anche un paio di ciabatte, per la prima dell’opera ‘La gita in campagna’ di Mario Peragallo. Forse la prima 'topolino' in scena ed il soggetto 'social' ebbe qualche responsabilità.
Sono trascorsi sessant’anni esatti
da quando, prima ed unica volta fino ad oggi, un racconto di Alberto
Moravia divenne libretto. In seguito, visto lo scarso entusiasmo
dello scrittore per l’esperimento, nessuna altro tentativo fu
fatto; mentre diversamente andarono le cose per il teatro ed il
cinema , per i quali lo scrittore non fece mancare il suo assenso a
varie trasposizioni ( su quegli argomenti lo scrittore molti anni
prima aveva anche scritto qualche saggio, sul mensile
‘Documento’(luglio/ agosto; novembre/dicembre 1942): 'Letteratura
e Cinema' e 'Teatro e Cinema'.
Non ci è dato sapere se a Moravia
altri musicisti si siano rivolti in seguito, e se da parte dello
scrittore fosse venuto un diniego a seguito dell’esisto non
entusiasmante del primo esperimento, realizzato da Mario Peragallo
che dal racconto ‘romano’ ‘Andare verso il popolo’, ricavò
il libretto (operando solo qualche leggero cambiamento nei dialoghi
e, diversamente, molti tagli in passaggi di carattere descrittivo)
della sua opera in un atto e tre quadri,‘La gita in campagna’,
andata in scena a Milano, Teatro alla Scala, il 20 marzo del 1954.
Mentre, quasi contemporaneamente, al Piccolo, fu presentato un
lavoro drammatico tratto da ‘La mascherata’, come lo scrittore
annunciava in una lettera dell’ottobre 1953: “a Milano daranno
due cose mie : ‘ La mascherata’ al Piccolo Teatro e un’opera in
un atto del maestro Peragallo, tratto dalla mia novella ‘Andare
verso il popolo’ alla Scala, insieme ad un’altra opera di Menotti
“.
L’artefice di tale nuovo secondo
tentativo, alla prova del palcoscenico a giugno 2015, il cui esito,
nonostante il soggetto prescelto abbia già avuto una fortunata
versione cinematografica con la Loren protagonista non è del tutto
scontato, è Marco Tutino, un compositore molto attivo nel campo del
melodramma, il quale va a far compagnia al compositore Giorgio
Battistelli, che per ogni nuova impresa melodrammatica cannibalizza
il cinema di successo.
Dal racconto che ne ha fatto Tutino, la
nuova impresa melodrammatica moraviana, tratta dal celebre romanzo
‘ La ciociara’, è nata in questi termini. Lui non ne sa nulla
fino ad un momento prima della telefonata, quando in Italia era
notte fonda, che gli giunge da San Francisco. All’ altro capo del
telefono c’é Nicola Luisotti, direttore dell’Opera di san
Francisco, e del san Carlo di Napoli, il quale gli annuncia che il
teatro americano, vuole un’opera nuova su un soggetto italiano già
individuato ed arcinoto: ‘La ciociara’, da Moravia e De Sica.
Tutino, in perfetto stile melodrammatico, cade dalle nuvole (o
finge?); vuole rifletterci prima di accettare; ma poi richiama
Luisotti e gli comunica che accetta. Debutto il 15 giugno del 2015
all'Opera di san Francisco. Immediatamente il musicista chiede agli
eredi di Moravia l’autorizzazione, che gli viene naturalmente
concessa, e tira fuori il libretto, accettato anche questo. E subito
al lavoro, non c’è un attimo da perdere. Tutino conosce già i
cantanti, compresa la protagonista, Cesira, che sarà Anna Caterina
Antonacci, già protagonista di un‘altra opera di Tutino, ‘Vita’,
andata in scena alla Scala nel 2003. Altro non sappiamo che possiamo
anticiparvi fin d' ora.
Mentre sappiamo abbastanza di quella
prima opera, rimasta unica fino ad oggi, su libretto tratto da
Moravia, musica di Mario Peragallo, ‘La gita in campagna’, che
ebbe il battesimo movimentato sul palcoscenico della Scala,
esattamente sessant’anni fa, il 20 marzo 1954. Il libretto - per
buona parte il testo stesso di Moravia, scritto quasi totalmente in
forma di dialogo fra i personaggi, con la sola eccezione di un coro
finale aggiunto - era quello del suo racconto breve: 'Andare verso il
popolo', da Moravia definito ‘novella’.
‘La gita in campagna’ andò in
scena assieme a due altri atti unici: ‘La figlia del diavolo’,
esordio operistico di Virgilio Mortari, su testo di Corrado Pavolini;
e ‘Amelia al ballo’ di Giancarlo Menotti, scritta nel 1937, alle
spalle un successo consolidato , che ebbe il compito di concludere
positivamente la serata che con l’opera di Peragallo/Moravia aveva
toccato il suo punto più contrastato.
Per la cronaca, direttore del trittico
di opere contemporanee Nino Sanzogno; e nel caso dell’opera di
Peragallo/Moravia, la regia era di Enrico Colosimo; bozzetti per
scene e costumi di Renato Guttuso, direttore dell’allestimento
Nicola Benois.
L’opera racconta di una coppia di
giovani, Ornella e Mario, che in una ‘Topolino’ girano per la
campagna romana, nell’inverno del 1944. La loro macchina è in
panne, serve acqua per il radiatore, e Mario pensa di andare a
prenderla in una capanna poco distante; approfitterà anche per
condurre le sue indagini di cronista sulle condizioni del popolo, a
guerra appena finita. Giungono alla capanna - nel corso del cammino
Ornella, prima riluttante, si fa anche baciare da Mario - dove vive
in miseria una famigliola. La contadina, di nome Leonia, dà a Mario
un recipiente e gli indica il pozzo, dove attingere l’acqua, là
c’è suo marito, Alfredo. Leonia, restata sola con Ornella, la
deruba di tutto, lamentando l’assoluta mancanza di ogni cosa. Quel
poco che aveva la sua famiglia glielo hanno portato via i tedeschi.
Medesima sorte toccherà a Mario, il quale con Ornella, ambedue
quasi nudi, raggiungono la macchina per far ritorno a Roma. Prima di
partire circondano la topolino altri contadini e ragazzi che chiedono
la carità, perché a loro volta derubati di ogni cosa dai tedeschi.
Per fortuna la macchina riparte, mentre il gruppetto li insegue
invano, gridando ‘la carità, fateci la carità…’.
Con l’opera di Peragallo/Moravia, la
cronaca fece irruzione nel melodramma, come aveva già fatto nel
cinema neorealista italiano, che tanta influenza ebbe nello sviluppo
della cinematografia mondiale.
Nel presentare l’opera, sul
programma di sala della Scala, Massimo Mila accennava alle difficoltà
in cui si dibatteva l’opera che attendeva ancora chi avrebbe
raccolto il testimone di Mascagni, Giordano, Zandonai, mentre allora
contavano i nomi di Pizzetti, Casella, Malipiero che avevano
imboccato strade proprie ed alternative rispetto alla tradizione.
(Nel comunicare a Tutino la commissione della nuova opera, il teatro
americano ha fatto esplicito riferimento al melodramma verista,
precisamente a quello mascagnano!). A Peragallo, che già aveva dato
al teatro altri titoli prima della ‘Gita in campagna’, si
guardò come a colui che poteva ripetere i successi dell’ultima
grande scuola melodrammatica italiana. Che era poi anche la segreta
speranza dello stesso Peragallo che dopo i successi delle sue
precedenti opere ( Ginevra degli Almieri,1937; Lo stendardo di
s.Giorgio,1941), e dopo un periodo di crisi compositiva, tacendo
quasi del tutto, ora si rimetteva all’opera, dopo alcune prove
strumentali ben accolte. Sulla sua sincerità, nell’assoluta
autonomia del nuovo linguaggio musicale, era pronto a scommettere lo
stesso Mila, che sottolineava:” il particolare biografico che
Peragallo non abbia alcun bisogno dei diritti d’autore per condurre
una vita più che passabile, cessa di essere una futile indiscrezione
e diviene invece elemento da tenere in conto come indice della sua
assoluta sincerità, anche in questa prima fase di attività
artistica”. Insomma, voleva dire Mila, Peragallo è ricco e quindi
se intraprende una strada nuova, abbandonando quella passata che gli
aveva meritato un bel successo, non lo fa per guadagnarsi da vivere
con i diritti d’autore, puntando sulla novità per lanovità, e
dunque va considerato sincero e meritevole di fede ed attenzione,
nonostante che nello specifico si fosse avvicinato alla dodecafonia;
lui che a differenza di molti compositori dell’avanguardia musicale
dell’ epoca che avevano già amoreggiato anche con la dodecafonia,
veniva dal teatro tradizionale ottocentesco. Aveva cioè lasciato il
certo per l’incerto e per il difficile. Andava Peragallo per la
sua strada, mentre parallelamente era già spuntato il partito di
chi aveva smesso di scrivere musica per i critici e i colleghi ed
aveva ‘tentato di stabilire intorno a sé un contatto umano’ (
antenati dei cosiddetti neoromantici, neomelodici, neotonali?).
Paragallo sta lontano dall’uno e l’altro schieramento, quando
scrive ‘La gita in campagna’, come annota Mila, nella
presentazione dell’opera:” Peragallo si è accostato nuovamente
all’opera musicale, con la volontà di farsi capire e seguire, e
nello stesso tempo di non abdicare a quella decenza di stile cui
dovrebbe restar fedele ogni musicista onesto. Proprio nella
difficoltà di tale tentativo, concludeva Mila, v’ha cercata la
ragione per cui Peragallo s’è mantenuto nel ristretto cerchio
dell’atto unico, meno rischioso, rientrando nel mondo dell’opera
quasi in punta di piedi; ha voluto lanciare un segnale nella
speranza che qualche altro musicista lo colga, evitando, perfino, di
raccogliere ‘le insinuazioni di amarezza sarcastica' che erano
implicite nel racconto di Moravia”.
Luigi Pestalozza su ‘Il Verri’ (
n.4, dicembre 1958), scriverà anni dopo, al tempo della ripresa
romana, per la Filarmonica, nel 1958, dopo che l’opera era stata
ben accolta all’estero, che “La gita in campagna ha
rappresentato l’unico tentativo serio della musica italiana di
inserirsi, e di prendere posizione, sulle questioni di fondo, sui
conflitti umani che segnano i nostri giorni…”. E ancora, che
Peragallo “ ha saputo conciliare l’engagement sociale con
l’avanguardismo musicale, ed è approdato ad un risultato di
comunicazione, di espressione, di stile e dunque di originalità”,
il che – spiega - vuol dire che Peragallo ha compiuto “un
tentativo, fuori d’ogni demagogico semplicismo di ricondurre la
nostra musica, il nostro teatro musicale ad una tematica realistica”.
Fin qui pareri e reazioni degli addetti ai lavori. E il pubblico come
reagì? Ci vengono in aiuto alcune cronache anche autorevoli di quei
giorni milanesi. Pasquale Festa Campanile (La Fiera Letteraria) va a
sentire lo stesso Moravia, che di lì a pochi giorni avrebbe
assistito a quello che egli considerava il suo vero debutto
drammatico, con ‘Commedia tragica’( da 'La mascherata'), regia di
Strehler, al Piccolo Teatro. E ne scrive nel suo pezzo, intitolato
‘Due ciabatte a teatro’.
“E’ andata malissimo - gli disse
tranquillamente Moravia - peggio di così non poteva certamente
andare. Debbo dire, comunque, che quello della Scala è un pubblico
provinciale. Esso si è comportato male perché è venuto a teatro
con l’idea preconcetta di far giustizia sommaria. Hanno tirato due
ciabatte sul palcoscenico: quindi le ciabatte se le erano portate da
casa. Forse su questo comportamento hanno influito le idee politiche
e le scene di Guttuso per esempio. Forse è stata l’irritazione per
un argomento sgradevole, neorealistico direi. La presenza di due
poveri sulla scena ha fatto pensare che si trattasse di un’opera di
sinistra, mentre era semplicemente un grottesco. A mio avviso non
c’era motivo per una protesta così violenta e, in ogni caso, si
poteva aspettare la fine dello spettacolo. A me personalmente la
musica dodecafonica di Peragallo è piaciuta come del resto è
piaciuta a tutti coloro che se ne intendono”.
Per la cronaca della serata, Festa
Campanile annotò: “ Fu forse la presenza sulla scena di una
macchina vera - una Topolino A. balestra lunga ( e alla Scala non
s’era mai vista una cosa del genere) - a sconcertare il pubblico
fin dall’inizio. Oppure fu l’apertura sociale intravista
da qualcuno e sottolineata dalle scene di Guttuso; o, in effetti, la
musica di Peragallo. Certo è, per la cronaca, che alla fine dello
spettacolo il pubblico mostrò i pugni tesi agli autori e si mise a
scandire ‘Buffoni,buffoni’. Sul palcoscenico arrivarono perfino
due ciabatte, lanciate dal loggione. Il giorno successivo, in sede di
resoconto, un quotidiano spingeva la sua critica al punto di
scrivere:’Quanti milioni sarà costato l’allestimento di
quest’opera alla Scala? A proposito di aperture sociali, non
sarebbe stato meglio offrirli, per esempio, al soccorso
invernale?”.
Certamente quanto accadde quella sera
alla Scala non incoraggiò successivamente Moravia a intrecciare
altre volte la sua opera al melodramma; ma, forse, più semplicemente
nella sua attività di scrittore si sentiva estraneo al mondo
dell’opera, che pure ammirava, come dichiarò in seguito: “ per
me l'opera lirica ha il valore che poteva avere cento o duecent'anni
or sono. E' vero che sembra essere morta o quasi dal momento che si
scrivono e rappresentano pochissime opere liriche nuove oggi; ma è
anche vero che la particolare esperienza culturale e artistica
dell'opera lirica è sempre quella e non è cambiata, ed è
insostituibile e inconfondibile. Con questo voglio dire che l'opera
ha le sue ragioni d'esistenza eterne e sempreverdi come la tragedia
greca o il dramma elisabettiano; e che chiunque riesca a 'vivere' a
fondo queste ragioni,non possa non trovarsi a suo agio nell'atmosfera
dell'opera lirica” .( Sipario, 1964, n.224)
Ma forse una qualche colpa dell’esito
disastroso della serata l’ebbero i dirigenti scaligeri, come faceva
notare fin dal titolo in una acuta recensione della serata,
intitolata ‘Un trittico forzoso’, Emilia Zanetti, ancor dalle
pagine de ‘ La Fiera Letteraria’.
“Concentrare tre primizie in una sola
serata - come ha fatto la Scala per il secondo ed ultimo spettacolo
di novità liriche offerte dal cartellone di quest’anno - è cosa
alquanto inusuale quando non si tratti di festivals e di stagioni
d’eccezione. Ma ci permetteremo di considerare ottimistica quella
interpretazione che ha esaltato il procedimento come una sorta di
giustizia economica a beneficio dei compositori contemporanei.
Continuando questi a preferire l’atto unico è anche spiegabile che
gli organizzatori finiscano col provvedere per proprio conto ad
associarli in una rappresentazione di durata normale. Quanto al
vantaggio che ne ricaverebbero i compositori stessi è più esatto
negarlo, sia per la difficoltà che incontra la preparazione
artistica, sia per la ricettività del pubblico messa a troppo dura
prova dal contrasto di stili e di tendenze che, intrinseco alla
situazione operistica di oggi, non può non sottolinearsi quando si
mettano tre autori a contatto di gomito”.
E, proseguendo: “Del clamoroso
rifiuto che gli ha opposto il pubblico della Scala, si è
sufficientemente letto sui quotidiani per tornare a riferirne.
Pittoresco a vedersi e candidamente sproporzionato alla portata del
fatto, esso ha inoltre molte probabilità di venire smentito in
altre sedi meno ‘storiche’ o un po’ più spregiudicate ed
ospitali alle voci d’oggi. Il che non significa che vogliamo
dipingere Peragallo nelle spoglie dell’agnello innocente…”.
E, infatti, quando nel 1958 l'opera di
Peragallo/Moravia fu ripresa a Roma (trasmessa anche alla radio), per
iniziativa della Filarmonica, al Teatro Eliseo, in un ambiente molto
più consono alle dimensioni 'cameristiche' dell'opera di Peragallo,
considerata alla stregua di un antico 'intermezzo', e non più
davanti ad un pubblico come quello della Scala, considerato
tradizionalista e provinciale, l'opera fu accolta bene, come del
resto era già accaduto nelle numerose riprese che si ebbero, dopo la
Scala, in Germania e America. A Roma l'opera fu diretta da Bruno
Bartoletti, sul podio dell'Orchestra della RAI di Roma, ed ebbe la
regia di Luigi Squarzina.
Da allora e fino ad oggi non si
ricordano altre più recenti riprese.
Dal cinema all'opera
Gli esempi di melodrammi
'cinematografici ' sono ormai numerosi. Tralasciando Philip Glass,
il più illustre fra quelli che hanno pescato nel cinema, nella
fattispecie quello di Cocteau, per un trittico di ‘opera con film’
non privo di originalità (Orphée, La belle et la bete, Parents
terribles), se ci limitiamo a casa nostra, dopo il caso di
Bussotti, anni Ottanta, rimasto senza seguito, con L’ispirazione
- debutto a Firenze, regista Derek Jarmann - la lunga lista
delle opere ‘cinematografiche', reca sempre una sola firma:
Giorgio Battistelli. Tale lista, troppo lunga per non destare
sospetti, non accenna a concludersi: Prova d’orchestra, Miracolo
a Milano, Teorema, Divorzio all’italiana, Il fiore delle mille e
una notte, Una scomoda verità, (attesa per l’Expo 2015, dal
film documentario di Al Gore); e Il medico dei pazzi, (debutto
italiano alla Fenice, la prossima stagione) dall’omonimo film di
Mario Mattòli, Totò protagonista, a sua volta derivato dalla
celebre commedia di Eduardo Scarpetta.
Marco Tutino, nuovo in questo genere di
imprestiti ‘cinematografici’, prima de ‘La ciociara’, che a
San Francisco avrà libretto italiano ma titolo americano (Two Women,
come il titolo americano del film di De Sica), è tuttavia abbastanza
navigato nel melodramma, dove ha sempre privilegiato il campo della
favolistica ( Pinocchio, Il gatto con gli stivali, La bella e la
bestia, Peter Pan, Peter Uncino) o del fumetto, con Dylan Dog;
favolistica e fumetto dal quale il cinema ha attinto a piene mani.
Philip Glass ha motivato le sue 'opere con film' con il bisogno di
cogliere ispirazione anche da altre forme di espressione della
creatività contemporanea, fra le quali il cinema è la più recente
e ricca. E, comunque, compiuto l'esperimento del trittico da Cocteau,
ha voltato pagina. Diverso il caso di Battistelli che persegue
ostinatamente in questo filone di imprestiti creativi, per i quali
viene da domandarsi se lo fa perchè non trova altrove soggetti
interessanti o perchè spera che il successo cinematografico di un
soggetto e di un titolo si riversi sul palcoscenico del teatro
d’opera, considerato abbastanza marginale nella creatività
contemporanea, o perchè individuata una formula fortunata intende
sfruttarla all'infinito
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