Non
è una giornata qualsiasi per chi di mestiere guida un governo
europeo,
e non è sicuramente la giornata migliore per andare in televisione a
rispondere a domande che ovviamente
non potevano che partire da lui, da Donald Trump, e dal documento
sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale che sentenzia la
liquidazione dell’Europa da parte della Casa Bianca.
Giorgia Meloni ascolta, seduta in studio accanto al direttore Enrico Mentana, i servizi del TgLa7. Poi commenta. Si dice «assolutamente d’accordo». Non drammatizza, si mostra tranquilla, pronta a dare la sua interpretazione diversamente europeista: «Non parlerei di incrinarsi dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Quel documento dice con toni assertivi qualcosa che si dibatte da tempo. È un processo storico inevitabile». La tesi è conseguente: «L’Europa deve capire che, se vuole essere grande, deve decidere da sola e non dipendere da altri. Quando tu appalti la sicurezza a un altro, devi sapere che c’è un prezzo da pagare». Dunque, nessuna difesa da Trump, piuttosto una difesa di Trump, e delle sue ragioni, cosa che contraddistingue l’atteggiamento di Meloni sin dal giorno uno del giuramento del tycoon: «Gli americani difendono i loro interessi perché hanno la forza di farlo. Deve farlo anche l’Europa». Meloni ha le sue idee a riguardo, e in questi mesi ha sempre sostenuto la necessità di non perdere l’alleanza con Washington. Alleanza strategica che però rischia di mancare proprio sul lato americano, se quel documento produrrà i suoi effetti: e cioè se gli Usa guarderanno più ai problemi di sicurezza interna (vedi l’immigrazione) e sposteranno la punta del compasso geopolitico verso il Sudamerica, mentre contemporaneamente riapriranno a un rapporto più sereno con Mosca. Questo scenario viene eluso nel ragionamento di Meloni.
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Sorvolando sui rapporti tra Trump e Vladimir Putin, secondo la premier il sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa è un turning point della storia europea. La sveglia data dalla guerra e poi dall’arrivo di Trump hanno dato la spinta a «un processo inevitabile» sul riarmo e sulla difesa europea. Per questo non vede nel presidente Usa solo una forza distruttiva, ma anche «un’occasione per noi» che «avrà certamente un costo economico importante ma produrrà una libertà politica».
È un tema che sa bene difficile da digerire da parte dell’opinione pubblica e da cui appare sempre più lontano uno dei suoi principali alleati, il vicepremier Matteo Salvini. Ieri il segretario della Lega è tornato sul tema armi, sostenendo che sarebbe più prudente fermarsi a riflettere «mentre ci sono tavoli negoziali aperti». Nelle sue parole a Mattino 5, però, Salvini aggiunge un concetto alla base della propaganda russa: «La storia è maestra. La Russia ha sconfitto Hitler e Napoleone, sono più attrezzati di Zelensky e hanno qualcuno di meno corrotto». Anche qui, Meloni è controllatissima, attenta a non scivolare in sconfessioni dirette. La prende larga, dice di ascoltare sempre con attenzione i suggerimenti degli alleati – come già aveva detto dal Sudafrica – ma poi ricorda che «la postura seria e forte» mostrata dall’Italia è dovuta «a una maggioranza compatta». «Sento parlare di filorussi e filoucraini, filo di qua e filo di là, i fili li hanno i burattini. Noi siamo filoitaliani. E seppure l’Ucraina sembra lontana, quel che accade laggiù ci riguarda». Il che pare intendere che non si aspetta un voto contrario della Lega quando il decreto Ucraina, entro dicembre, arriverà in Consiglio dei ministri e poi a gennaio in Parlamento.
Non una parola sulla ancora mancata adesione al Purl, il programma che prevede acquisti di armi americane in ambito Nato, né sulla proposta della Commissione europea di usare il Mes, il fondo salva-Stati, come garanzia per girare agli ucraini i guadagni provenienti dagli asset russi congelati in Europa. Ipotesi che dopo la Lega ieri ha bocciato anche Fratelli d’Italia: «Strumento troppo coercitivo, rigido e poco conveniente», secondo Marco Osnato, responsabile economico del partito della premier.
Salvini: "Meloni sostenga l'interesse dell'Italia. Il riarmo non lo è"

La coda dell’intervista è dedicata alla politica interna. Sui salari che affogano ai livelli più bassi d’Europa sostiene di aver fatto più dell’opposizione; si svincola dall’esito del referendum sulla giustizia, ribadendo che in caso di sconfitta «il governo non andrà a casa ma concluderà la legislatura»; alla segretaria del Pd Elly Schlein che è stata nello stesso studio il giorno prima e che torna a invitarla a un confronto risponde che lo farà quando «si capirà chi è il leader dell’opposizione».
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