Dici Frank Gehry e pensi al Museo Guggenheim di Bilbao, l’opera di architettura pubblica forse più sorprendente e più popolare del Novecento, un “monumento” che ha fatto epoca, che è stato imitato, che ha dato il via in mezzo mondo a una stagione di nuove costruzioni per musei. Come il Guggenheim di Gehry, realizzato nel 1997, ha proiettato la città basca nella cultura pop e nel turismo di massa, così altre città, altre istituzioni hanno pensato di poter seguire la via indicata dal principe degli archistar, nato in Canada poi vissuto negli Stati Uniti, morto ieri nella sua celebre casa di Santa Monica, in California, all’età di 96 anni. Affacciato sul fiume Nervión, il Museo di Bilbao è un’esplosione di volumi fluidi, rivestiti da quasi 33.000 lastre di titanio; la forma può ricordare un fiore, o un’imbarcazione, a seconda del punto di osservazione. È un’architettura monumentale, modernissima per forme e materiali, ma sembra una scultura, modellata con cura artigianale.
Decostruttivista, post modernista, comunque sia stato definito, Gehry si è preso un posto centrale nella storia dell’architettura contemporanea e basta scorrere una galleria di fotografie delle sue opere più note per cogliere il segno della continuità. Tutto cominciò, per Gehry, con la sua stessa casa di Santa Monica, “ristrutturata“ nel 1978 con un intervento di riduzione all’essenziale degli elementi portanti, salvo costruirvi attorno una struttura di lamiera ondulata, con sporgenze asimmetriche in tondino d’acciaio e vetro, generando quella sensazione di movimento che avrebbe ispirato le costruzioni pubbliche più rivoluzionarie.
Dal “pesce” (“El Peix”) costruito davanti al porto di Barcellona per le Olimpiadi del 1992, alla sinuosa e svettante “Dancing House” di Praga (ribattezzata “Ginger e Fred“ per la torre in vetro che sembra ballare con quella in cemento), fino a opere più recenti, come il Lou Ruvo Center di Los Angeles (2010) – una struttura che sembra collassata su sé stessa, in una collisione di facciate – o la sede della fondazione Luma di Arles in Provenza (2021) – una torre irregolare, ispirata ai dipinti di Van Gogh, rivestita con undicimila placche di metallo – Gehry è rimasto sempre fedele alla sua idea di architettura, che lo portava a concepire ogni opera come "un oggetto scultoreo, un contenitore spaziale, uno spazio con luce e aria". Quell’aria e quella luce, per citare un’altra delle sue creazioni più celebri, che sembrano animare le “vele“ che al Bois de Boulogne a Parigi disegnano il profilo della sede della Fondazione Louis Vuitton.
Amato e ammirato in tutto il mondo, ma anche giudicato spesso eccessivo e “troppo pop“, Gehry è stato un archistar globale. Si è cimentato in imprese sempre ardite nei più diversi contesti, con l’energia e il coraggio di chi è convinto che "l’architettura dovrebbe parlare del suo tempo e luogo, ma ambire all’eternità".

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