La telefonata è arrivata. L’incontro al Quirinale c’è stato. La tensione, per qualche ora altissima, si è allentata. Ma l’episodio che ha preceduto il chiarimento non può essere archiviato come un incidente chiuso. Perché quanto accaduto rivela una torsione profonda: un atteggiamento della destra di governo che vede nei contrappesi non garanzie democratiche, ma ostacoli da superare.
Le accuse rivolte al Colle e le allusioni circolate al vertice di Fratelli d’Italia sono azioni consapevoli. Nulla è casuale. Soprattutto, nulla può essere dissolto da un incontro formale. Le parole restano, e sono parole che feriscono un equilibrio istituzionale costruito in decenni di storia repubblicana.
Il problema non è dunque il chiarimento avvenuto ieri, ma ciò che ha reso necessario quel chiarimento. Perché da mesi la destra italiana nazionalista manifesta un’insofferenza crescente verso ogni limite al potere: verso la magistratura, verso gli organi di controllo, verso la ricerca e la scienza, verso l’Unione Europea, verso qualsiasi autonomia non subordinata all’esecutivo.
Si è visto sul terreno della giustizia, con una riforma costituzionale imposta senza margini di modifica; si è visto nel rapporto con Istat e Corte dei Conti, trattati come intralci quando i loro dati non confermano la narrazione governativa; si vede nella scelta di sostenere in Europa la logica del veto, accanto al modello illiberale di Orbán; si è visto nella disinvoltura con cui vengono accantonate o ignorate persino le valutazioni della Corte Penale Internazionale.
E poi c’è la riforma del premierato. Una riforma che, se portata a compimento, consegnerebbe a Giorgia Meloni un potere di fatto autarchico: la possibilità di scegliere e sciogliere il Parlamento a proprio vantaggio, alterando la natura stessa della democrazia parlamentare. Non a caso la premier oggi la tiene ferma, non perché abbia rinunciato all’impianto, ma perché sa che un referendum su quel testo sarebbe percepito dal Paese come un plebiscito tra lei e il Capo dello Stato. E sa che oggi lo perderebbe. La riforma uscirebbe dal cassetto solo dopo una nuova vittoria elettorale, quando il suo potere politico sarebbe più solido e più difficile da contrastare.
Dentro questo scenario, lo scontro con il Quirinale non è un corpo estraneo: è l’esito naturale di una visione del potere che considera i limiti costituzionali non come garanzie, ma come vincoli da rimuovere. Ma la Costituzione italiana non si regge sulla fedeltà di un governo: si regge sulla separazione dei poteri, sull’autonomia delle istituzioni, sull’equilibrio tra funzioni che nessuna maggioranza ha il diritto di deformare.
E qui sta il punto più inquietante. Non è solo la destra di governo a spingere in questa direzione: è anche una parte dell’opinione pubblica e del sistema mediatico che tende a minimizzare, a relativizzare, a descrivere come “normali tensioni” ciò che normali non sono. Si assiste spesso a una rimozione collettiva, a una sorta di assuefazione: come se l’erosione progressiva dei contrappesi democratici fosse un dettaglio tecnico e non una ferita al cuore della Repubblica.
Oggi, dopo la telefonata e l’incontro, l’emergenza immediata sembra rientrata. Ma l’emergenza politica resta tutta lì. Perché i segnali non vanno ignorati: la destra nazionalista ha imboccato da tempo la strada di un potere meno controllato, meno bilanciato, meno costituzionale. E chi finge di non vederlo, chi continua a liquidare ogni episodio come un eccesso passeggero, contribuisce, magari senza volerlo, a indebolire le fondamenta della nostra democrazia. La Repubblica ha retto a crisi ben più dure. Ma ha retto perché c’era chi riconosceva il valore dei limiti e il ruolo delle istituzioni. È questo principio che oggi va difeso da tutti: non contro un governo, ma per il Paese.



Nessun commento:
Posta un commento