SCRITTI MUSICALI DI
SAVINIO APPARSI SU 'DOCUMENTO' mensile
ED IN SEGUITO MAI
RIPUBBLICATI. ASSENTI IN ‘ SCATOLA SONORA’
di Pietro Acquafredda
MUSICA: Uomo Musicale (
febbraio 1941)
Roma è oggi la più
musicale città d’Italia. Non lo diciamo in senso lirico, chè in
questo Roma è sempre stata musicale, ma in senso pratico.
Nessun’altra delle grandi città italiane dà ai suoi musicofili
cittadini tre e anche quattro spettacoli d’opera per settimana
durante la ‘stagione’, due concerti sinfonici, un concerto di
musica da camera, senza contare i concerti minori che quartettisti e
solisti dànno di tanto in tanto nella sala Pichetti.
Certo, si può
deplorare che la severa Euterpe chieda asilo a un locale in cui le
romane oggi nonne, hanno imparato a strisciare il piedino nel valzer
lento, e a spiccare il saltino della mazurca; ma quando abbiamo detto
che Roma oggi vanta la più intensa attività musicale d’Italia,
non abbiamo mica aggiunto che essa dispone anche delle più belle e
dignitose sale di concerto.
Resta a dire che
l’attività musicale romana, per intensa che sia, è ancora ben
poca cosa in comparazione all’attività musicale di alcune città
di fuori, e soprattutto di Germania.
Né si parla di città
mastodontiche, ma di città pari di peso a Roma, o anche minore.
Diamo un esempio.
Al tempo dei nostri
studi musicali, ossia nella prima decade del secolo, andammo per
alcun tempo a Monaco di Baviera, che in quel tempo non superava i
trecentomila abitanti, e ove viveva allora e insegnava Max Reger,
soprannominato ‘il secondo Bach’. E in questa musicalissima città
i concerti sinfonici non avvenivano due volte la settimana, come oggi
nella Roma di un milione e trecentomila abitanti, ma tutte le sere. E
benchè quei concerti fossero in certo modo dei concerti alimentari,
perché durante l’esecuzione dell’Eroica di Beethoven o
delle Eolidi di Cesare Franck, gli ascoltatori potevano
consumare ottime salsicce guarnite di crauti, saporitissimi
Kalbsbraten ossia arrosti di vitello accompagnati con gerosten
Kartoffeln ossia di patate arrostite e accompagnate sia di
eccellente birra scura di Monaco, sia di biondissima e trasparente
birra di Pilsen, quei concerti erano dei concerti serissimi , e tali
da efficacemente contribuire alla formazione di una solida e profonda
coltura musicale. E si aggiunga che con questi concerti alimentari,
alternavano dei concerti anche più seri e ‘a digiuno’. Né deve
stupire l’associazione delle salsicce con l’Eroica di
Beethoven, perché gli olandesi, ad esempio, che sono grandi
fumatori, fumano le … loro grosse pipe di maiolica anche in chiesa.
Contemporaneamente, e
in parecchi per sera, avvenivano i concerti di musica da camera, e i
cosiddetti récitals, nelle sale annesse ai grandi alberghi,
come il Vierjahreszeiten, il Bayerischerhoff, ecc.
Diciamo per inciso che
il récital, ossia il concerto limitato a un solo
strumentista, è una invenzione di Franz Liszt, il quale per primo
riuscì a tener desta, da solo, l’attenzione di un uditorio di
concerti.
A suo tempo, il
concerto del concertista solitario sembrò una prodezza
impareggiabile; mentre ora, l'’bitudine dei récitals
avendo nel frattempo buttato solide radici, concerti solitari ne
danno anche esordienti volenterosi ma impari a tanto compito, e i
quali più che sonare, ciappottano. Vero è che questi
récitals non sono arsi dal delirio che infiammava gli uditorii
dell’abate Liszt, ma si svolgono in sale presso che deserte, nelle
quali siedono solitari i parenti del concertista, in compagnia della
Noia.
In collaborazione con i
concerti sinfonici, i concerti di musica da camera e i récitals,
il Teatro Reale dell’Opera monacense lavorava con una intensità e
una varietà di repertorio, di cui noi quaggiù non abbiamo neppure
l’idea.
Prima di tutto, l’Opera
monacense non era in attività durante la sola stagione, ossia
per alcuni mesi dell’anno, ma per almeno tre stagioni dell’anno.
E se nel cuore dell’estate l’Opera chiudeva le sue porte, non era
tanto per concedersi riposo, quanto per favorire gli spettacoli
wagneriani, allestiti
In un teatro situato nelle
vicinanze di Monaco e costruito sul modello del teatro di Bayreuth, e
i cicli di opere mozartiane che avvenivano con ogni minuzia rococò
nel piccolo Prinzregententheater, affiancato al grande
Operhaus, come il vitellino sta affiancato a sua madre.
E che dire del
repertorio dell’Operhaus? Noi, in meno di un anno, potemmo
udire e vedere, o seduti o in piedi, secondo le nostre possibilità
finanziarie del momento, tutto quanto è stato scritto nel mondo in
fatto di opere, drammi lirici, melodrammi; dal Der Bajazzo di
Ruggero Leoncavallo, ai Troiani di Ettore Berlioz, che, per
la loro mole, erano rappresentati in due sere successive.
I Troiani (
questa opera tratta dall’Eneide e che, nell’intenzione
dell’autore, doveva costituire una specie di Anello del
Nibelungo latino ) sono stati rappresentati la prima volta a
Parigi, nel 1868, in edizione dimezzata, che occupava una sola sera e
s’intitolava I Troiani a Cartagine.
E evidente che, in queste
condizioni, è molto facile farsi una coltura musicale.
Ma è davvero
necessaria la coltura musicale?
Per noi l’uomo àmuso
è un uomo incompleto. Incompleto non solo perché gli manca la
conoscenza della musica, ma perché gli manca quella correzione, quel
perfezionamento di tutte le facoltà, dal modo di pensare al modo
di camminare, che dà la ‘presenza’ della musica nell’uomo.
En
voyage sans livres, à la guerre sans musique.
Musset, da quel
superficialone che era, riduceva la funzione della musica a un
incitamento alla battaglia – quando le battaglie si davano a suon
di musica - ma questo esempio, però, esteso alle altre e più
pacifiche attività dell’uomo, illustra l’importanza, la funzione
vivificatrice della musica.
Arriveremo a dire che,
siccome l’uomo non è completo se privo di coltura musicale, così
nazione non può essere civile, se i cittadini sono privi di
educazione musicale.
Non si guardi indietro.
Non si cerchino esempi che contraddicano quello che noi diciamo: noi
parliamo di una civiltà superiore a quelle che ci hanno preceduto, e
che trarrà in gran parte la sua superiorità, dalla conoscenza
collettiva della musica.
Come mai non è stato
immesso ancora nella scuola obbligatoria un insegnamento musicale sia
pur ristretto al minimo: ossia alla lettura della musica, al
solfeggio, a un po’ di canto corale, a qualche nozione di armonia e
di contrappunto, a qualche inizio di conoscenza degli strumenti
musicali?
Come si impara a
leggere e a scrivere, così si dovrebbe imparare a suonare il
pianoforte, per acquistare il mezzo di leggere, ossia di conoscere
direttamente le opere dei musicisti.
Noi parliamo in nome di
un tipo di uomo civile, a petto al quale l’uomo che oggi si
considera civile, apparirà come un rozzone.
Proteo
MUSICA: Da Gluck a
Riccardo Strauss ( marzo 1941)
L’Opera di Stato di
Berlino è venuta a dare, tra il 4 e il 9 marzo, cinque
spettacoli al nostro Teatro Reale dell’opera. Le opere presentate
erano cinque, e cioè: Orfeo ed Euridice, di Gluck, Il
ratto dal serraglio di Mozart, Fidelio di Beethoven, I
maestri cantori di Norimberga di Wagner, e Il Cavaliere della
rosa di Riccardo Strauss.
Con questo programma
storicamete progressivo, il dottor Heinz Tietjen, sovrintendente
generale dell’Opera di Stato di Berlino, ha inteso probabilmente
dare un quadro dell’evoluzione del teatro musicale tedesco; ma
invece, e come noi sapevamo già, questa evoluzione è in effetti una
involuzione; e se si volesse stabilire una vera graduatoria dei
valori, bisognerebbe capovolgere l’ordine degli spettacoli, e
mettere Gluck al posto di Wagner, e Mozart al posto di Strauss.
Intendiamoci però. La
polifonia più complessa, la voce più possente dell’orchestra, la
sua maggiore flessuosità, gli effetti timbrici più accesi di
Wagner, e soprattutto di Strauss, possono dare a credere che Wagner e
Strauss sono musicisti più evoluti di Gluck e Mozart; ma queste sono
apparenze che non possono se non deviare il giudizio; e la prova dei
fatti invece dà una consistenza più densa a Gluck e a Mozart, una
solidità più robusta, una resistenza maggiore all’azione
corruttrice del tempo; mentre i musicisti di ieri e dell’altro
ieri, ossia Wagner e Strauss, già appaiono infrolliti, e, nel caso
di Riccardo Strauss, si sfaldano pietosamente davanti ai nostri
occhi. A chi dunque la palma del progresso?
Riccardo Strauss,
benchè vivo tuttora e vegeto, lo abbiamo chiamato musicista di
ieri, perché il musicista di oggi della germania è
Hindemith, il quale ha superato quanto a sé quella temporaneità del
gusto che tanto fatale è stata a Riccardo Strauss, e cerca di
ricondurre la musica a uno stile più sobrio, meno appariscente, ma
più solido assieme e tale da ricongiungersi alla linea di Bach, di
Gluck, di Handel.
La musica di Strauss,
che l’esecuzione del resto ottima, del Cavaliere della rosa
ha rinfrescato nella nostra memoria, è la dimostrazione più
suadente che l’opera d’arte va confezionata in condizioni di
perfetta calma, di piena padronanza della propria ragione, e in una
atmosfera scolastica, per non dire burocratica. IN questo senso
probabilmente Goethe diceva che l’arte è una lunga pazienza.
Non possiamo prendere
come esempio Gluck, perché Gluck si chiude nel sublime come dentro
una inespugnabile torre, e il sublime non si piò né esaminare né
controllare. Ma l’ esempio del Ratto dal serraglio cade a
proposito per dimostrarci che tanto più alto, tanto più libero,
tanto più folel sale e vola il lirismo, quanto più logica, più
ferma, più ragionata è, sotto, la struttura musicale.
Strauss ha preso alla
lettera le idee di progresso e modernismo, tanto in voga nei primi
anni del secolo, quando egli scriveva Salomè, Elettra, Il
cavaliere della rosa. E la sua opera ha il temporaneo, il caduco,
il superficiale di quelle idee. Si aggiunga che l’adesione a queste
idee è stata rovinosa anche per l’architettura, per le scienze. La
medicina stessa è andata incontro a una specie di grosso
fallimento, per essersi troppo fidata delle idee di progresso e di
modernismo.; senza parlare della psicologia e, in genere, del
‘pensiero’. Strauss è il padre Loyson della musica.
C’è qualcosa di
irragionevolmente caparbio nella musica di Strauss, di
ingiustificatamente ribelle, di ingenuamente anarchico, di insolente,
di petulante. C’è il capriccioso di certe ragazze isteriche e
maleducate.
Che ‘l’anarchismo’
della musica di Strauss non sia avvertito dagli uditori di oggi, è
una quistione di mitridatismo. Io mi riferisco alle reazioni che la
musica di Strauss suscitava al suo nascere. E si aggiunga che se
l’anarchismo di Strauss non ha spaventato nemmeno al suo primo
apparire, è perché è un anarchismo seducente, civettuolo, da
salotto.
Si consideri l’attacco
delle musiche di Strauss, tanto delle opere, quanto dei poemi
sinfonici. Tutte cominciano con una specie di alzata di spalle, di
sgrullata. Anche Il cavaliere della rosa, che comincia con
un grande starnuto dei corni e dei fagotti.
E’ un modo di
presentarsi tra puerile e funambolesco, e soprattutto indelicato: la
buona educazione vuole che si entri in un salotto, e soprattutto in
un salottone pieno di signore come il teatro, senza attirare
l’attenzione sopra di sé; una ricerca dell’effetto immediato;
una maniera di ‘far colpo’, un dire: ‘ Sono qua io!’.
Del resto, la ricerca
dell’effetto immediato non è soltanto nell’esordio delle musiche
di Strauss, ma in tutto il corso del loro sonoro organismo. La musica
di Strauss è una musica imbellettata. Una musica alla moda. Ma ala
moda del 1910, col boa intorno al collo e l’aspri sul
cappello. Ed è per questo che essa non può nascondere i suoi anni,
giocare con le date, sembrare giovane, come così facile riesce alla
musica di Mozart.
Questo esordio
ingenuamente spavaldo della musica di Strauss, ha il suo equivalente
nella pennellata spavalda alla Franz von Stuck. Del resto, questa non
è la sola affinità tra musica di Strauss e pittura di Stuck. Arte
che noi chiamiamo pompiera , e i Tedeschi kitch.
*
* *
Occorre dirlo? Il
cavaliere della rosa è stato il punto di attrazione, il polo
magnetico della settimana romana della Staatsoper di Berlino.
Malgrado la soppressione degli abbonamenti e delle tessere, malgrado
i posti aggiunti, non un centimetro quadrato rimase vuoto nella
immensa sala del Teatro Reale dell’Opera, e noi che, Dio lo sa,
nonandiamo a teatro per il nostro divertimento, eravamo stati
sbattuti in fondo alla sala, all’ultimo posto dell’ultima fila di
poltroncine, sopra un sediolino senza braccioli né spalliera, che
dalle 17.30 alle 21.30 ci costrinse a una sgemba e raggomitolata
posizione di fachiri.
All’eloquenza
dongiovannesca di Strauss, a quel melodismo disteso e senza approdo,
a quella voluttà in perpetua preparazione ma senza sfogo, il
pubbklico pigiatissimo godeva: felice di capire, di apprezzare, di
‘amare’ finalmente e senza sfrozo un artista che, per molti, è
oggi ancora uno dei ‘grandi audaci’ del secolo. Il borghese è
diventato amico del leone.
Nei primi anni del
secolo, il Corriere della Sera aveva affidato la critica
musicale a Giovanni Pozza, che di musica non s’intendeva affatto.
Capitò in quegli anni l’esordio di Strauss in Italia. E Pozza se
la cavò così: disse che come Riccardo preferiva Wagner, e come
Strauss quello dei valzer.
Giudizio stupido. Ma
vero.
Proteo
MUSICA ( aprile 1941 )
Una mattina abbiamo letto
nel giornale: ‘ Il Reale dell’Opera è partito per Berlino’.
Che maniera di esprimersi! Da questa notizia abbiamo visto il teatro
Reale dell’Opera, che di fronte a una drogheria, una macelleria e
un paio di bar se ne sta accovacciato sotto il livello stradale,
quasi non edificio dei nostri tempi, ma contemporaneo del Colosseo e
del Pànteon; lo abbiamo visto gonfio di canori re e regine, e
trovatori, e sacerdoti, e guerrieri, e orchestranti, e ballerini, e
mimi; girare su se stesso e muoversi faticosamente fra le automobili
e i tram dei Castelli, e mettere la prua a settentrione per
traversare il valico delle Alpi e approdare nella città di Federico
il Grande. Passerà la primavera, passerà l’estate, passerà anche
l’autunno, e fino all’inverno venturo non rivedremo la sala rossa
e dorata sfolgorante di luce; poi la luce che si spegne nel mezzo e
lascia brillare torno torno i palchetti a cellule d’alveare; poi la
palpebra d’ombra che scende anche sui palchetti, il buio che invita
al raccoglimento, la testa del Maestro Sarafini ( sic, nel testo )che
sorge laggiù come un rotondo fuoco d’argento dall’alone dorato
del golfo mistico; poi il velario che si fende nel mezzo come una
bocca verticale sui cieli, sulle magioni, sul mondo assurdo e
magnifico del melodramma.
La stagione di
quest’anno si è aperta con la Norma e si è chiusa con
l’Elisir d’amore, passando attarverso l’Alceste
di Gluck, il Crepuscolo degli dei, Fidelio di Beethoven, il
Gallo d’oro di Rimsky-Kòrsakov e due balletti di Stravinski:
Petruska e la Sagra della primavera. Con che quella
progressione non c’è stata che dovrebbe essere in ongni opera
siccome in ogni vita d’uomo, e che nei Gradus ad Parnassum
di Muzio Clementi porta dagli esercizi più facili e bianchi, a
quelli più difficili e neri di biscrome.
La mancanza di
progressione non è la sola ragione per la quale avremmo preferito
che la stagione lirica di quest’anno si fosse chiusa su qualcosa di
più serio, di più importante dell’ Elisir d’amore; e che
più degno di ricordo fosse l’ultimo guardo che Euterpe ci ha dato
da entro l’arco scenico del Teatro Reale dell’Opera.
L’ambientazione dello
spettacolo cui abbiamo accennato poco prima, cioè a dire la sala
intenebrata, il golfo mistico onde sale il suono d’invisibili
strumenti, gli spettatori raccolti in divozione siccome
protocristiani nelle catacombe, è quella voluta da Wagner nel suo
teatro di Bayreuth, e imitata di poi da tutti gli altri teatri; ma se
quest’ambientazione è giustificata alla rappresentazione del
Parsifal, diventa assurda per converso alla rappresentazione
dell’Elisir d’amore.
Al buio, l’esile
musica di questa operetta diventa più esile ancora, la sua
superficialità, le sue marcette da banda militare, le sue arie
aggiunte che strappano l’applauso si troverebbero meglio in una
sala illuminata a festa, sotto un lampadario sfavillante, fra dame e
gentiluomini che nei palchetti si scambiano pettegolezzi dietro il
ventaglio, e gli afficionados che si spellano le mani per
farsi ripetere ‘ Una furtiva lacrima’.
La musica dell’Elisir
d’amore non soltanto manca di profondità, ma non penetra
neppure nel soggetto al quale si è associata per comporre
l’annunciato ‘ melodramma musicale’. ( Profondità non è
soltanto nel tragico, nel patetico, nel melanconico, ma anche nel
comico e nell’allegro, come dimostrano il Barbiere di Siviglia,
il Falstaff, le Nozze di Figaro; ed è anzi la
profondità di qualità migliore). La musica dell’Elisir
d’amore è semplicemenete ‘posata’ sulla commedia di Felice
Romani, a guisa di accompagnamento o abbellimento sonoro. I
personaggi di questa commedia, che nemmeno a farla apposta ne ha due
tipicissimi: il dottor Dulcamara e il sergente Belcore, non sono
minimamente illustrati dalla musica. Le arie che canta il sergente
Belcore potrebbero essere cantate anche da Nemorino, con la sola
trasposizione dalla chiave di basso a quella di tenore; e si pensi
d’altra parte che cosa sarebbe diventato l’arrivo in piazza del
dottor Dulcamara e la scena dell’imbonimento, in mano di uno
Stravinski nato a Bergamo nel 1798.
Scritte queste parole,
già vediamo il postino recapitarci le furibonde lettere di coloro
che ci vogliono punire, perché abbiamo osato ‘stroncare’ l’
Elisir d’amore.
Costoro sono i paladini
di ogni riconosciuta fama: noi i persecutori dell’ignavia in
qualunque forma o luogo essa si trovi. E l’ignavia s’incontra
troppo spesso nel nostro melodramma dell’Ottocento, in quelle
partiture raffazzonate alla svelta, scritte in fretta e sotto
l’occhio impaziente dell’impresario, senza sforzo, senza
meditazione, senza giudizio, affidate alla fortuna di un paio di
ariette a affetto, molto spesso estranee al soggetto del melodramma,
e che sono arrivate fino a noi perché queste ariette appunto hanno
acquistato la forza e la tenacia dei ricordi di famiglia.
Lo spettacolo di un
intero pubblico che si rompe la pelle delle mani e si busca la
raucedine per chiedere il bis di ‘Una furtiva lacrima’ al tenore
Beniamino Gigli, non è certo uno spettacolo eroico, non è certo uno
spettacolo confortante, non è certo segno di un’eccelsa civiltà
artistica; ed è lo spettacolo appunto che ci toccò vedere alla
prima dell’Elisir d’amore, nel nostro teatro Reale
dell’Opera.
Con questo non
intendiamo menomamente diminuire la fama dell’ispirato e
malinconico musicista bergamasco. Ma pensiamo che la sua fama è
assai meglio difesa dalle sue opere più serie, e soprattutto dalla
Lucia di Lammermoor, nella quale c’è l’aria bellissima ‘
Tu che a Dio spiegasti l’ali’, che, secondo il computo di un
filosofo viennese, è la melodia più lunga che finora sia stata
scritta.
* * *
In occasione della
Sagra della primavera, rappresentata al Teatro Reale
dell’Opera, qualche giornalista più colto ha rievocato la
‘battaglia’ che questo balletto di Stravinski accese la sera
della prima rappresentazione, avvenuta a Parigi, il 28 marzo ( la
data esatta è 29 maggio , ndr.) del 1913, al Teatro dei Campi Elisi.
Non bisogna esagerare. Noi che avemmo la ventura di assistere a quel
lontano spettacolo, possiamo assicurare che come battaglie ne abbiamo
viste di ben più cruente. Cominciamo col dire che la sagra della
primavera non è tra le opere migliori di Stravinski, anzi una
delle più retoriche ed estetizzanti. Quella sera la furia degli
stravinskiani superò quella degli antistravinskiani. Tra i primi era
anche Gabriele D’Annunzio che, sporto da un palchetto
di proscenio, applaudiva
ostensibilmente, con le mani vestite di candidissimi guanti. Qual
valore di giudizio ha il plauso di Gabriele D’Annunzio? Pochi anni
prima, e con grande ardore, egli aveva lodato Riccardo Strauss,
chiamandolo ‘ il barbaro temerario e magnifico dagli occhi chiari’;
e via via egli lodò Aristide Sartorio e Claudio Debussy, Ildebrando
da Parma e Adolfo De Carolis…”.
Proteo
MUSICA ( Senza titolo)
Maggio 1941
Non tenterò mai più di
udire il pianista Guglielmo Backhaus. Il destino me lo vieta. Lo so,
né mi è più consentito nutrire dubbi in proposito.
La prima volta che
tentai di udire Backhaus, fu a Parigi, nel 1912. Il récital
di questo famoso pianista era annunciato alla salle Gaveau, e
io provvidi tempestivamente a comprarmi il biglietto; ma l’addetto
al botteghino sbagliò, e io, invece che al concerto Backhaus, mi
trovai in una salla secondaria della salle Gaveau, nella quale
operava un quintetto della scoietà musicale ‘ la Trompette’,
il quale stava eseguendo il quintetto di Schubert, detto ‘della
Trota’. Quando l’equivoco fu chiarito, e io potei scendere nella
sala principale, feci in tempo a vedere Backhaus lontano lontano e
piccolo piccolo, seduto al pianoforte, che martellava gli ultimi
accordi; poi lo vidi alzarsi e salutare il pubblico; e questa scena
si svolse in un silenzio totale, perché io la vedevo attraverso
l’occhio di vetro di una porta potentemente imbottita, e
impermeabile ai suoni.
La seconda volta che io
tentai di udire Backhaus, fu in una città della Svizzera, ma
all’ultimo momento, non ricordo perché, il concerto fu rimandato.
Non starò a fare la
storia del terzo, quarto, quinto, sesto tentativo di udire Backhaus,
tutti in egual modo vani.
E arriviamo al settimo e
ultimo tentativo.
Questa volta era sicuro
di riuscire. Ci avrei scommesso. Lo avrei giurato. Pensavo che anche
se perdevo il concerto domenicale, nel quale il valoroso pianista di
Lipsia doveva eseguire, assieme all’orchestra dell’Adriano, il
terzo e quarto concerto di Beethoven, mi sarei rifatto sul concerto
del mercoledì successivo, nel quale questo sultano della tastiera
doveva sonare ben cinque sonate di Beethoven, una di fila all’altra.
La vigilia del primo
concerto, una ragione imprevista e imperiosa mi costrinse ad
allontanarmi da Roma. Ma non per questo mi diedi vinto. Che ne
sarebbe allora della magica potenza dei nostri tempi? Non per nulla
l’uomo ha captato l’ètere. Mi feci portare in camera una radio.
Una radio magnifica, lustra e tracagnotta, dal cruscotto brillante e
complicato, come quello di un’automobile del corpo diplomatico.
Avvenne non so quale
confusione sulle onde, e invece del concerto Backhaus, udii la
trasmissione della partita…
Alla parola ‘partita’,
i musicisti drizzano le orecchie…
…della partita di calcio
Fiorentina – Juventus.
Altri tentativi di
udire il pianista Backhaus, non li farò più. Addio, Guglielmo!
* * *
Ma è veramente
necessario udire il pianista Backhaus? Amici musicalmente coltissimi,
e nel giudizio dei quali io ho fiducia piena, mi assicurano che
Guglielmo Backhaus è pianista tecnicamente impeccabile, ma del tutto
privo di sentimento.
Questo mi dimostra che
il gioco di Backhaus appartiene a un’alta civiltà pianistica.
L’alta civiltà
pianistica esclude il gioco patetico, il gioco caldo, il gioco di
sentimento. Si tratta più che altro di sorvolare, di passare oltre,
mantenendosi sempre rigorosi e puliti.
La positura stessa di
Backhaus davanti allo strumento, quale me la ricordo di quella unica
e remotissima volta che io lo vidi, lontano lontano e piccolo
piccolo, attraverso l’occhio di vetro della porta della sala
Gaveau, conferma questa sua appartenenza all’alta civiltà
pianistica. Egli stava seduto compostamente e discosto, quasi il
pianoforte fosse stato verniciato di fresco ed egli temesse di
insudiciarsi i pantaloni; le sue mani toccavano la tastiera
leggermente e dall’alto, quasi i tasti fossero roventi e ogni nota
gli procurasse una scottatura.
Quanto a suono, un
immacolato silenzio.
Che forse è il modo
migliore di ascoltare un pianista.
Perché se l’alta
civiltà pianistica esclude il patos, il sentimento, il calore; la
suprema civiltà pianistica esclude anche il suono, e si arriva al
pianista perfetto: il pianista silenzioso.
* * *
Poiché la sorte non
ci consentì di godere auditivamente i due concerti beethoveniani per
pianoforte e orchestra, eseguiti a Roma dal pianista Backhaus, usiamo
del modo migliore e ‘più civile’ che ci rimane di assaporare
essi due concerti, che è di rileggerceli in silenzio nei chiari e
impeccabili quaderni delle edizioni Peters.
Nel terzo concerto per
pianoforte e orchestra ( do min.) Beethoven è ancora giovanile e
perentorio. Egli è ancora ‘soltanto’ tedesco: nuhr Deutsch.
La sua faccia è ancora quella del vitello imbronciato. Il tema
iniziale è affermativo fino a diventarne stupido, non lascia la
minima fessura al dubbio, all’interrogazione, al ‘perché’. E
quando il pianoforte riprende in ottave e fortissimo il tema proposto
e sviluppato dall’orchestra in un’abbondante introduzione, egli
lo fa precedere da tre scale ascendenti, in melodico minore, come per
afferrarlo con zampe di leone.
Il carattere di questo
concerto è eloquente e superficiale. La melodia che ogni tanto fa
oasi nel primo tempo ( mi, re mi fa re do, sol ) è, senza dubbio né
inganno, piccola di statura e corta di gambe.
Il largo del secondo
tempo è patetico come si conviene, un po’ stentato nei suoi
sviluppi un po’ troppo fioriti, ma ricco di buoni consigli per il
giovane Chopin. Pettegolo e insistente, il terzo tempo ( rondò )
anticipa piacevolmente l’invenzione della macchina da cucire.
Il quarto concerto per
pianoforte e orchestra è una delle opere più alte, più pure, più
spaziose e alitanti di Beethoven. Platone non ha scritto un dialogo
più leggero e profondo, di quello che in un continuo scambio di idee
fecondantesi a vicenda, cantano il pianoforte e l’orchestra, nel
primo tempo di questo concerto.
Il terzo tempo riapre
per noi l’Età dell’Argento. E non dico dell’Oro, perché l’oro
è troppo rilucente ancora, troppo vibrante, troppo caldo; e solo
l’argento può dare idee di quella ‘luce al di là della luce’,
che il rondò del quarto concerto di Beethoven esprime.
Dopo il quarto concerto
per pianoforte e orchestra, viene il quinto concerto. Ma Backhaus non
l’ha sonato, forse per delicatezza a Wagner. Perché nel quinto
concerto per pianoforte e orchestra, Beethoven ha generosamente
raccolto tutto il materiale, di cui Wagner si è servito di poi per
scrivere la Valchiria e il Tristano.
Alberto Savinio
Musica: Purificazione (
settembre 1941)
I critici musicali
esaltano concordemente e assieme stupiscono della nudezza e
frigidità in cui si è ridotta la musica di Igor Strawinski. Per chi
no lo sapesse, dirò che Strawinski si è dato da parecchi anni al
misticismo. E se da quando io non lo vedo più questo fenomeno
spirituale ha continuato a regolarmente svilupparsi, l’autore di
Petruska dev’essere ridotto a quest’ora alle condizioni di un
pope, se non addirittura di quei santoni di cui abbonda il suo paese
d’origine ( russo di nascita, Strawinski si è fatto alcuni anni
sono francese). E poiché il più efficace mezzo di espressione di
questo pope rimane pur sempre la musica, è naturale che l’ascesi
della sua anima in via di purificazione egli la manifesti con i
suoni. Del resto la marcia alla semplicità nell’opera di
Strawinski è cominciata da un pezzo. Prima della Sonata per
pianoforte egli ci aveva dato Persefone, e il Concerto per
due pianoforti, e altre musiche di pretto carattere premozartiano. E
prima ancora ci aveva dato Apollo in cui la semplicità non è
soltanto nella forma della composizione, ma negli stessi mezzi
orchestrali ridotti al solo quartetto d’archi. E prima ancora ci
aveva dato Nozze, esse pure molto semplici e ortodossamente
corali, e appena sostenute dalle aride sonorità di due pianoforti
doppi e della batteria. Singolare l’evoluzione di questo musicista
proteico, che da Dioniso scita diventa a poco a poco una specie di
psaltes da Santo Sinodo. Singolare e contraria a qualunque legge
naturale. Il grande ingegno di cui è fornito Strawinski lo sorregge
ancora e anche le sue musiche più recenti e astratte sono piene di
grandissimi pregi musicali. Ma la parabola del peccatore pentito e
del lupo travestito da agnello mi convince poco. E’ pericoloso
certo, è forse troppo ‘lombrosiano’ considerare la vita sub
specie pathologiae, ma chi assicura che questa marcia alla
semplicità sia in fondo una forma di inaridimento? Quello che me lo
fa credere è che la marcia alla semplicità avvenga di concerto al
progressivo misticismo di Strawinski. A un’arte puramente
spirituale, a un’arte pitagorica, a un’arte del tutto astratta io
non credo. Anche quando egli diventò nemico Nietzsche serbava a
Wagner una profonda riconoscenza: perché da vegetariano lo aveva
fatto diventare carnivoro.
Apollo musagete
è una delle opere più belle, più alte di Strawinski. La libertà
che Strawinski ha conservato pur nel suo rigore attuale, nella sua
attuale castigatezza, gli consente di abbandonarsi senza pericolo di
contagi né di compromissioni a una parafrasi dei più sciatti, dei
peggiori ‘modi’ musicali. In questo Apollo musagete
Strawinski non si pèrita di parafrasare Coppélia, Sylvia di
Léo Délibes. E chi conosce questi balletti da Grand Opéra
di sessant’anni addietro, sa quale odore di paciulì essi esalano.
Ma Strawinski riesce a renderli anatomia pura, pura radioscopia.
Riesce là ove falliscono gl’idealisti innamorati, a portare alla
purezza la prostituta amata.
NdR. L’ultimo brano
dell’articolo, dedicato esclusivamente all’Apollo musagete
di Strawinski è pubblicato in Scatola Sonora a pag. 186-187,
a conclusione di un articolo, intitolato ‘Apollo musagete’ ,
ripreso da Oggi’ dove era apparso qualche mese prima
(14 aprile 1941 ).
Alberto
Savinio
Musica ( febbraio 1942
)
Se musica mai si è fatta
discorso, questa è la musica di Brahms. Del discorso ha il passo
pacato, il tono suadente che viene dal cervello e assieme dal cuore.
La musica di Brahms
invita alla confessione. Della confessione pratica essa pure per
mezzo di ben combinati suoni lo insinuante meccanismo. Infonde essa
pure in noi la dolce persuasione che peccati vergognosi non esistono
e che tutto può esser detto.
Evidente è l’affinità
tra Giovanni Brahms e Giovanni Bosco. Archivista d’Euterpe,
riunirei tutte le opere di Brahms sotto questo titolo comune: ‘Musica
del Buon Consiglio’.
Nessuno meglio di
Brahms ha messo a profitto il precetto che il passo non deve superare
la gamba. Nessuno meglio di lui ha meditato la favola della lepre e
della tartaruga. In gara podistica con Lodovico van Beethoven, Brahms
riesce talvolta a battere il campione del mondo di parecchie
lunghezze. Nel giornali sportivi del tempo si legge che Lodovico ha
perduto tempo per istrada, dava ascolto all’usignolo che canta e al
ruscello che fruscia, voleva captare la folgore per accendere brividi
a grande effetto nelle sue sinfonie, voleva porre montagne una
sull’altra come altre volte i giganti di Tessaglia e tirare giù
dal cielo le nuvole a bracciate; si faceva prendere da attacchhi di
epilessia per il gusto di sentirsi gridare sehr interessant
dai tifosi raccolti sul margine della strada, e infine arrivò con
parecchi minuti di ritardo.
Si sente dire di tanto
in tanto che Brahms ‘ è un po’ pesantuccio’, ma da coloro
soltanto che alla saggezza di Brahms vogliono opporre la pazzia della
genialità, al legalismo borghese di Brahms l’ “ anarchia
dell’arte”.
* * *
Brahms scrive musica in
prosa. Ma la prosa di questo prosatore della musica è
commoventemente bella. Una prosa che finisce per essere più
armoniosa, più sonora, più dolce della poesia. Toccò a Brahms come
a Manzoni, questi due mirabili prosatori: la necessità di farsi da
sé, senza aiuti, a poco a poco, con molta pazienza – loro che non
erano stati particolarmente favoriti dalle muse né avevano trovato,
come Mozart, come Leopardi, fra i doni appesi alla culla anche lo
strumento perfetto della loro futura arte – di farsi uno strumento
per dare voce agli accenti della loro anima un po’ tarda, un po’
opaca, ma colma di buoni, di onesti, di profondi, di poetici
sentimenti.
I temi di Brahms, i
suoi spunti melodici non hanno il lampeggio della trovata che non
ammette repliche. Presentano una faccia buona ma comune. Sembra che
Brahms se li sia andati a scegliere uno per uno, tra la enorme
confusione dei temi che ingombrano i Magazzini Generali della Musica.
Ma come se li cura poi
questi temi il bravo e paziente Brahms! Come se li alliscia, come se
li lavora! Nella musica di Brahms si ritrova la pazienza
dell’orologiaio, al quale Brahms del resto somiglia anche
fisicamente, curvo sul desco sparso di rotelline dentate, il tubo
della lente incastrata nell’occhio.
Brahms fu rivelato da
Schumann. Costui scriveva nel 1853: ’E’ venuto questo giovine
sangue, alla culla del quale hanno vegliato Grazie e d Eroi. Si
chiama Giovanni Branms; raccomandatomi poco prima da un Maestro
conosciuto ed amato, è arrivato da Amburgo, dove componeva in un
silenzio oscuro, ma dove un maestro eccellente ed entusiasta (
Edoardo Marxen ) lo educava alle forme più difficili dell’arte.
Trasparivano dalla sua persona tutti quei segni che ci annunciano:
ecco un eletto! Quando si mise al pianoforte cominciò a scoprirci
regioni meravigliose: noi venimmo attirati in un circolo sempre più
magico’.
Schumann è musicista
di una sola stagione. La parabola vitale e artistica di Schumann è
conchiusa in una prolungata adolescenza. Premesso ciò, diventa
facile la spiegazione del ‘ romanticismo’ di Schumann.
Era naturale che
Schumann scoprisse Brahms: era naturale che un romantico scoprisse un
altro romantico. Brahms è stato chiamato ‘l’ultimo dei
classici’, ma da gente che non se ne intende. Da gente che crede il
romantico un agitato, un tenebroso, un perpetuo sospirante. E non sa
che i più romantici sono questi uomini di apparenza tranquilla, di
aspetto patriarcale come Brahms: che guardano con occhio calmo ma non
si accontentano di quello che vedono, perché nella loro mente
portano un mondo molto più bello, al quale sempre anelano e fino
alla morte sperano di arrivare.
Nel romantico c’è
l’educatore. Perché soltanto il romantico ha la possibilità, ‘il
diritto’ di segnalare qualcosa all’allievo, di guidarlo, di
additargli questa meta, se intravista sempre e sempre sfuggente non
importa.
Non sappiamo nulla
della vita di Brahms: non vogliamo sapere nulla. Amori? Drammi?
Felicità?
Dolori?… Per noi Brahms
è solo: il buon maestro barbuto, appoggiato con le forti spalle agli
scaffali della sua biblioteca.
E’ una sorpresa ogni
volta ricordarci che Brahms è morto; e da tanti anni ormai; dal
1897. Per non Brahms è presente. Per il dovere che hanno gli
educatori di essere sempre presenti.
Il Vater, il
Padre Musico, il Contrappuntista Consolatore non ci abbandona. Il suo
fiato caldo ci sfiora la guancia, il suo sguardo calmo e forte ce lo
sentiamo alle spalle, come un muro.
Nei momenti difficili,
tra le facce anonime della folla, quando più forte ci stringe la
paura di trovarci soli, vediamo d’improvviso il suo volto passare
come una luce rapida.
Di notte, quando più
densa preme l’angoscia che tutto è finito e ogni ritorno chiuso,
la sua testa bianca passa lentamente e di profilo dietro i vetri
della finestra, e la notte acquista il suo ‘perché’.
Così sarà, ne sono
certo, anche nella stretta finale. Quando la mia finestra sarà la
soglia della vita e il cielo notturno il cielo della morte. Lui, il
Consolatore, l’indice sulle labbra di nuovo apparirà per darmi
dopo tante ‘penultime’, anche l’Ultima Speranza.
Alberto
Savinio
Musica: Si comincia a
veder uno spiraglio ( ottobre 1942)
Ho udito nel settembre
passato, a Siena, il Guglielmo d’Aquitania di Giambattista
Pergolesi; ho udito nel maggio passato, a Torino, il Peer Gynt
di Werner Egk; dai quali esempi mi è parso intravedere il delinearsi
di una nuova forma di teatro musicale ( intendi opera, melodramma):
quella nuova forma di teatro musicale che dalla fine del teatro
wagneriano in qua , tante volte si è creduto di scoprire, ma sempre
invano: quando nel balletto russo, quando in certe operine come
l’Heure espagnole di Ravel, o Mavra, l’Usignolo
di Strawinsky.
A ragion veduta non ho
citato fra i tentativi di creare, dopo il teatro wagneriano, una
nuova forma di teatro musicale anche il melodramma verista, perché
nella storia del teatro musicale il melodramma verista è una triste
parentesi: una parentesi tutta istintiva, tutta spontanea ( io, mi si
perdoni l’insanità del sentimento, nutro una profonda repulsione
per tutto quanto è istintivo, spontaneo) priva della coscienza e
degli accorgimenti dello stile; e qui noi parliamo dei soli fatti
musicali che rientrano nella zona dello stile. Rimane da dare una
spiegazione: come mai tra gli esempi che mi hanno fatto intravedere
la formazione di un nuovo teatro musicale, è anche il Guglielmo
d’Aquitania, ossia un ‘dramma sacro’ che Giambattista
Pergolesi scrisse nel 1731?…
Mi spiego: la
rappresentazione del Guglielmo d’Aquitania che nel
settembre scorso abbiamo veduta a Siena, è stata profondamente,
radicalmente elaborata da Corrado Pavolini, divisa in parti recitate,
parti recitate in canto ( recitativo) e parti cantate, onde si può
dire che come opera drammatica e di teatro, questa versione senese
del Guglielmo d’Aquitania è molto più di Corrado
Pavolini, ossia di un nostro contemporaneo, che di Ignazio Maria
Mancini, autore del ‘dramma sacro’ che Pergolesi adornò di
suoni.
Ho intraveduto il
delinearsi di una nuova forma di teatro musicale… L’ho
intraveduta soprattutto nell’aspetto frusto delle due opere citate:
nella loro superficie traforata, nel loro manto musicale ‘ a
giorno’, nel loro mantello musicale di mendichi, ossia costellato
di buchi. Forse ora solamente sta cadendo l’ultimo ostacolo
‘wagneriano’ che impediva al teatro di musica di riprendere la
sua vita indipendente. Si trattava di liberare il teatro di musica
dal chiuso, dal totalitarismo wagneriano, come si tira su dal fondo
del mare un sommergibile naufragato, per ridargli aria e salvare così
la vita dell’equipaggio. Wagner aveva pensato il teatro di musica
alla guisa di uno stufato ( una cottura musicale a l’ etuvée)
e l’opera wagneriana è tutta immersa, tutta sommersa nella musica;
è priva di ogni spiraglio onde l’aria del mondo possa entrare e
mischiarsi all’aria metafisica della poesia, e comporre le
misteriose mescolanze che generano l’arte; è assente dunque di
ogni senso, di ogni possibilità drammatica, poiché la scintilla
drammatica non può sprizzare se non dal violento contrasto tra
fisico e metafisico.
Ci si è mai domandata
la ragione della singolare, della straordinaria, della vertiginosa
poesia di alcuni melodrammi come il Trovatore, il Ballo
in maschera?…La ragione è questa: il violento contrasto tra
fisico e metafisico.
Guglielmo
d’Aquitania, Peer Gynt: opere ‘fornite di sfiatatoi’; opere
perforate di buchi, come le scatole per far viaggiare i canarini.
L’aria circola in queste opere – ancorchè non quanto noi si
vorrebbe. Per ridare possibilità di vita al teatro di musica,
bisogna anzitutto metterlo in condizione di suscitare una nuova e
forte drammaticità; per suscitare una nuova e forte drammaticità
nel teatro musica, bisogna anzitutto rompere la continuità della
musica. Assioma: un nuovo teatro di musica, deve prima di tutto
togliersi dalla musica. Poi, sopra un terreno sgombro, asciutto,
farà tornare la musica all’improvviso, inaspettatamente, come
un’apparizione, come una sorpresa: sorpresa demonica a volte e a
volte angelica: ma a piccole dosi – sempre, intermittentemente.
Evitare l’immersione musicale e la conseguente asfissia.
Altra condizione
indispensabile alla rinascita del teatro musicale, è il bando dei
cantanti dalla scena. Nell’Ottocento la presenza dei cantanti sulla
scena non infirmava il carattere burattinesco, cioè a dire
metafisico del melodramma, perché nell’Ottocento i cantanti erano
dei burattini viventi. Ma tra l’Ottocento e oggi si è frapposto il
melodramma verista, i cantanti hanno imparato a comportarsi sulla
scena come uomini veri, e nulla è esiziale al
melodramma quanto la verità.
Il rimedio c’è:
basta generalizzare quello che fu fatto l’anno passato nella
rappresentazione di Mavra di Igor Strawinsky:
l’interpretazione più spiritosa e intelligente che finora ci abbia
data il Teatro Reale dell’Opera. I cantanti erano stati calati in
orchestra e sostituiti sulla scena da mimi.
Ottima l’idea di
mettere in orchestra i cantanti, che da sotto prestano la loro voce
ai mimi che operano sulla scena. Molti vantaggi di questa
disposizione: maggiore portata delle voci, che non hanno dietro a sé
l’immenso vuoto del palcoscenico, ma il fondo sonoro della cavea;
agilità e disinvoltura di movimenti dei personaggi sulla scena, i
quali non hanno la preoccupazione di
cantare e assieme di
recitare; e soprattutto raggiungimento dello stile indiretto,
ossia dello stile.
Proteo
Ricordi del Teatro
Lirico ( Nov.-Dic. 1942 )
I teatri d’opera
continuano a funzionare con esemplare regolarità. Di anno in anno le
stagioni liriche si rinnovano in un’atmosfera di trionfo, tra folle
plaudenti e perentorie richieste di bis. Che più? Dopo un triste
interregno di ‘colpi d’ugola’ e di enfatica urlanza, il
miracolo si ripete sulle nostre scene del bel canto, e se Arrigo
Beyle tornasse in vita ritroverebbe i suoi gaudii preferiti, e se li
potrebbe assaporare dentro un palchetto della Scala, al fianco della
Bibin Catena.
Eppure il teatro lirico
non ha vita; diciamo meglio: non ha vita presente. E se non
fosse la forza di propulsione che gli viene ancora dal melodramma
dell’Ottocento prima, poi più giù dal melodramma verista, oggi il
teatro lirico non camminerebbe come cammina, ma starebbe fermo:
stecchito. Vogliamo dire in altre parole che se l’opera non fosse
stata inventata tre secoli fa, oggi nessuno si sognerebbe
d’inventarla. Passiamo agli esempi. Quello che noi diciamo è
confermato anche da questo, che le ancor fortunate stagioni d’opera
sono alimentate unicamente da opere ‘di repertorio’, ossia da
opere di rendimento sicuro, prive di ogni sorpresa o lieta o triste,
e appartenenti al passato. Ma le opere nuove dove sono che dovrebbero
venire ad arricchire il repertorio e a poco a poco a rinnovarlo? A
rompere l’ostile tradizione si sono costituite quest’anno
generose ancorchè brevi stagioni di opere ‘contemporanee’,
pregustazioni delle stagioni maggiori e regolari della Scala e del
Teatro Reale dell’Opera. Quali frutti hanno dato? L’opera che più
è ‘andata’ fra quelle presentate dal Teatro Reale dell’Opera è
Wozzeck di Alban Berg, che è un’opera di pretto carattere
espressionista, ossia un esempio di ciò che gl’igienisti dell’arte
vogliono rigorosamente vietare e che del resto danno come ‘superato’.
Resterebbe a vedere se opere come Wozzeck sono così nocive
alla nostra salute artistica, e se veramente sono ‘superate’ e
da che; ma questo è un altro discorso. Sta per nascere tra noi una
nuova forma d’opera, come dopo l’opera del Settecento nacque
l’opera dell’Ottocento, e come dopo l’opera dell’Ottocento
nacque il melodramma verista? Per parte nostra non ci crediamo
affatto, e del resto noi qui non siamo stati invitati a fare opera di
profeti. L’opera cominciò a morire nel giorno stesso in cui il
wagnerismo cominciò a nascere. Quello che a tutta prima sembra un
arricchimento e una rinascita, tante volte è un impoverimento e una
morte. Quasi ciò non bastasse, Debussy, Strawinsky e altri ‘balletti
russi’ si adoprarono a dare al teatro musicale, già mortalmente
ferito, il colpo di grazia. Nuoce al teatro di musica ogni tentativo
d’ingrandimento, di atmosfera nuova, di idee audaci.
Se si voleva che l’opera
continuasse a vivere bisognava lasciarla ‘cuocere nel suo brodo’,
che è un brodo nel quale innovazioni, intelligenza e altri simili
ingredienti si trasformano in tossine. L’opera è conservatrice per
sua natura e, diciamolo senza vergogna, stupida. E’ in virtù del
suo conservatismo e della sua sana e onesta stupidità che l’opera,
ancorchè vecchissima, si mantiene ancora viva e in gamba; simile in
questo a tanti altri culti, e istituzioni, e costumi, che pure in
mezzo a evoluzioni e mutamenti continuano a stare in piedi, canuti ma
robusti. Che altro possiamo dire del teatro lirico?… Nulla.
Passiamo dunque a rievocarne alcuni ricordi.
Abbiamo raggiunto il
mezzo secolo di vita: abbiamo fatto in tempo a conoscere il tempo del
melodramma verista, quando il melodramma verista era ancora caldo di
vita e di successo. L’epicentro del melodramma verista era Milano,
e a Paneropoli appunto, come Ugo Foscolo chiama la capitale
lombarda, ossia ‘città della panna’, noi ci trovammo nella prima
decade del secolo, in pieno fulgore ancora del puccinismo e del
leoncavallismo. La vita teatrale si avvolgeva intorno alle due case
editrici che si spartivano la produzione dei compositori di teatro, e
che erano la casa Ricordi e la casa Sonzogno. Questa aveva la sua
sede in via Pasquirolo, che più che una via di Milano sembra una
calle di Venezia. Altro punto ‘veneziano’ di Milano era la via
Fatebenefratelli, veduta al crepuscolo dal parapetto del ponte sul
Naviglio e con lo sfondo della chiesa di San Marco fiancheggiata dal
suo campanile alto e puntato; ma il coprimento del Naviglio, che da
una parte ha contribuito a diradare il famoso nebbione di Milano, ha
svenezianizzato dall’altra questo punto di Milano. La chiesa di
San marco era stata scelta per la sua buona sonorità da Giuseppe
verdi per eseguirvi la Messa di Requiem che Verdi aveva
scritto per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni,
e dopo che altre chiese, compreso il Duomo, erano state scartate per
la loro cattiva sonorità. Non si capisce dunque perché questo
stesso Requiem, quando fu ripetuto in occasione della morte
di Verdi, non fu eseguito nella chiesa di San Marco ma in Duomo. C’è
in questo piccolo aneddoto la psicologia della scolaresca che in
assenza del maestro… Come si sa, la proprietà delle opere di Verdi
appartiene alla casa Ricordi, e così quella delle opere di Puccini (
che, dalle più recenti statistiche, risulta più rappresentato di
Verdi; opera in capo alla classifica: la Bohème). E quando
avremo aggiunto che la casa Ricordi è anche proprietaria per
l’Italia delle opere di Wagner, sarà facile capire l’importanza
e la potenza di questa celebre e antica casa editrice.
Sulla morte di Wagner,
Gabriele D’Annunzio ha scritto nel Fuoco delle pagine
commosse da quel gagliardo eroismo, che richiama alle illustrazioni
di Adolfo De Carolis. Per quale ragione Adolfo De Carolis scriveva
talvolta il suo cognome con K: De Karolis? Della morte di Wagner noi
conosciamo una versione più modesta.
Avemmo la ventura di
conoscere alcuni anni or sono un uomo irrequieto e arguto, figlio di
un capostazione. Suo padre, campestre e dialettale, aveva la
sorveglianza di una piccola stazione del Veneto. Un giorno un
telegramma giunse in quella stanzioncella che annunciava il passaggio
per l’indomani del treno che portava Riccardo Wagner a Venezia; e
il capostazione, nella sua schietta ingoranza, tradusse in famiglia
il telegramma così: ‘ Domani alle diciassette e qundici passa el
Vanièr’. E l’indomani, all’ora indicata, il figlio del
capostazione, curioso di sapere chi era el Vanièr, si piantò
sul marciapiede della stazione, vide il treno arrivare, vide a un
finestrino un signore rosso di pelo, a naso uncinato e ganascia a
scarpa, che reggeva un libro con la sinistra e con la destra
carezzava un cagnolino, e capì che el Vanièr era lui. Poi
il treno ripartì e il bambino non ci pensò più. Qualche tempo dopo
però, un altro telegramma avverte il capostazione che l’indomani,
alle 16 e quarantotto, el Vanièr sarebbe ripassato; e
l’indomani, alle 16 e quarantasette, il bambino torna a piantarsi
sul marciapiede della stazione, vede il treno arrivare, lo vede
ripartire, ma non vede al finestrino il signore rosso di pelo, col
libro in mano e il cagnolino. Questa volta il signore rosso di pelo
stava nel furgone di coda dentro una bara, e ‘viaggiava verso la
collina bavàra ancora soptita nel gelo’.
Tanti conoscono a
memoria i Leitmotive della Trilogia ( sic nel testo ): quel
modesto funzionario delle FF.SS visse e morì senza sapere chi fosse
quel misterioso Vanièr che ora arrivava e ora ripartiva.
La sede della casa
Ricordi era in quel tempo in via Omenoni, vicino al palazzotto
sorretto dai telamoni del cavalier Aretino. Si traversava l’uscio
della portineria che annunciava il visitatore con un argentino ‘dan’,
e si saliva al primo piano. Al mezzanino erano le stanze dei
‘riduttori’, ossia degli specialisti che riducevano a canto e
piano o a pianoforte solo le partiture delle opere. Famoso fra i
riduttori era il maestro Carignani, autore della riduzione a piano e
canto e a piano solo della partitura del Falstaff. Un altro
riduttore, che noi avemmo la ventura di conoscere personalmente, si
chiamava Sollazzi ma era l’uomo più malinconico del mondo. Mite,
chiuso con rassegnazione nella mediocrità della sua vita, nascosto
dietro le lenti azzurre che proteggevano i suoi occhi miopi e stanchi
di decifrare sui grandi fogli rigati di venti, trenta e trentadue
pentagrammi le ‘zampe di mosca’ di tutti i ‘Grandi’ davanti
ai quali egli si sentiva così piccolo.
Giulio e Tito Ricordi,
padre e figlio, dirigevano unanimemente la celebre casa. Giulio era
anche compositore di musica leggera ( autore fra l’altro di una
Secchia rapita ) che firmava Burgmein. Se invece che musico
Giulio Ricordi fosse stato letterato, si sarebbe scelto uno
pseudonimo di sonorità francese: Rastignac. L’egemonia letteraria
della Francia e musicale della Germania, era in quel tempo fuori
discussione. Ridotto a forma di statua e collocato nel cortile della
nuova sede della casa editrice in via Berchet n.2, questo vecchietto
appuntito col temperalapis continua ad accogliere dall’alto del suo
piedistallo i cantanti e le cantanti, gl’impresari, i maestri di
musica: ma ora costoro gli passano davanti e non lo guardano neppure.
Nella sala d’aspetto,
intorno a una grande tavola rettangolare sulla quale erano sparsi con
pittoresco disordine i fascicoli di Ars et Labor, organo
della Casa ( in questo titolo è tutto il profumo ‘socialista’
dell’epoca) sedevano in atteggiamento o di attesa febbrile, o
d’impazienza, o di rassegnazione, o di noia, cantanti d’ambo i
sessi, compositori, impresari, maestri, concertatori. Le cantanti più
giovani, le debuttanti, quelle che tenevano gli occhi chini e le mani
in grembo, erano accompagnate da altra donna più matura, madre forse
o zia, o sciolta magari da qualunque vincolo di parentela, che gli
uscieri chiamavano fra loro ‘il madro’. Capo degli uscieri era
Palumbo, esempio vivo della fatale somiglianza che unisce l’uomo al
proprio nome.
Il canto favorisce lo
sviluppo del petto, e i soprani lirici, quelli drammatici, i
contralti riuniti nella sala d’aspetto di casa Ricordi in attesa di
scrittura, costituivano uno stupendo campionario di mammiferi. Su
quella dovizia mammaria, su cui le ali del bolero non riuscivano a
combaciare, i carré di trina galleggiavano a ritmo, come zattere sul
mare. Gli occhi nerissimi erano pieni di rammi di Violette e di
Amneris, di Floria Tosca e di Mimì. Al sommo, qualche coperchio
posato su tanto ribollire di passioni, stava il cappello colossale e
carico di uve opime, di frutti cananei, di galli cedroni ad ali
spase, di piume e di ‘aspri’. Palumbo era uomo di esperienza
antica, profondamente edotto delle simpatie o, come si dice in
linguaggio psicanalitico, delle ‘cariche affettive’ dei suoi
principali; e secondo che l’aspirante alla scrittura era acerbetta
o maturona, ossuta o bene in carne, bionda o bruna, egli la
indirizzava sia all’ufficio del commendatore Giulio , sia a quello
del commendatore Tito. Talvolta, la capellatura gravata di un
vascello a tre ponti, il corpo di sirena avvolto nelle spire del boa,
una donna frusciante e odorosa traversava il vestibolo con imperioso
tacco, guardava diritto davanti a sé, entrava perentoria e senza
scorta, meno quella d’onore di Palumbo, nel reparto dei direttori.
Nella sala d’aspetto i colli si allungavano, gli occhi uscivano
dalle orbite, un gran nome correva su quelle bocche arrotondate dal
do di petto: ‘ Hai visto?…
Lina Cavalieri!’.
In quel tempo la faccia
rasata era ancora prerogativa degli attori e dei camerieri. Uno dei
più spiritosi collaboratori del Corriere della Sera, non
ricordo bene se Amedeo Morandotti o altri, scrisse a questo proposito
che l’uomo rasato somiglia a una donna brutta. Tito Ricordi
tuttavia era completamente rasato, e certamente teneva molto a questa
sua condizione di glabrità, quando Madame Butterfly fece
fiasco alla Scala ( celebri sono negli annali del teatro lirico
alcuni fiaschi seguiti da clamoroso e persistente successo, come il
Barbiere di Siviglia, la Traviata, la Carmen
e questa Butterfly )
egli fece voto di non più radersi né la barba né i baffi finchè
durava la cattiva sorte di questa opera, e non si sciolse dal voto se
non dopo la trionfale rappresentazione della Butterfly al
teatro Grande di Brescia, che gli consentì di riacquistare la sua
faccia di ‘donna brutta’.
Se casa Ricordi ha la
proprietà per l’Italia delle opere di Wagner, casa Sonzogno in
compenso è proprietaria per l’Italia delle opere francesi: Bizet,
Massenet, ecc. Casa Sonzogno è anche proprietaria delle opere di
Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, altri. In uno dei primi anni
del secolo, Guglielmo II, le cui fragorose manifestazioni o
politiche, o militari, o artistiche, o astronomiche ( al principio
del secolo Guglielmo II annunciò che il secolo non cominciava
nell’anno in cui tutti gli altri credevano che cominciasse ma un
anno prima, al che alcuni spiritosi protestarono che questa
anticipazione li invecchiava) erano ampiamente propagate dalla stampa
dei due mondi, proclamò inaspettatamente che Ruggero Leoncavallo era
‘ il più grande compositore lirico dell’universo’. Questa
notizia non rimase sterile, come generalmente è la sorte di notizie
di tal genere, ma alcun tempo dopo i giornali fecero sapere che
l’autore dei Pagliacci era ospite dell’imperatore a
Postdam, a imitazione di Voltaire o di Francesco Algarotti, e stava
lavorando a un’opera su un libretto che i bene informati dicevano
scritto di pugno dallo stesso imperatore; e a suo tempo venne fuori
il Rolando di Berlino che fu rappresentato nella capitale
della Germania con gran fracasso di stampa e abbondante invio di
gionalisti m usicali, ma che malgrado ciò non riuscì a toccare i
fastigi della gloria. Strane preferenze aveva quel versatile monarca
per i nostri artisti, e mentre fra i nostri musici preferiva Ruggero
Leoncavallo, fra i nostri pittori preferiva Francesco Paolo Michetti,
e con regale liberalità acquistava i quadri di questo pittore, che
poi con liberalità altrettanto regale donava ai musei di Berlino.
Nel tempo in cui casa
Ricordi aveva sede in via degli Omenoni, era l’epoca d’oro del
melo- dramma verista. La Scala, il Dal Verme, il Carcano, il Lirico
si contendevano le opere nuove. Fiorivano i melodrammi nella loro
giornata breve: il Manuele Menendez di Lorenzo Filiasi, la
Nave Rossa di Sepilli, una ‘seconda’ Cavalleria rusticana
scritta da un maestro Monleone, di cui, se non andiamo errati, i
giornali hanno annunciato or non è molto la morte avvenuta a Genova.
Esordiva in quel tempo Riccardo Zandonai aol Grillo del focolare,
e presso a poco nello stesso tempo aveva esordito anche Franco Alfano
con Principe Zilha e con Resurrezione. Ogni sera un
debutto: nella camera della pensione che andammo a occupare in via
Oriani, dietro la Scala, trovammo un telegramma dimenticato
dal nostro predecessore nel cassetto del comodino, che diceva: ‘
Debutto Tromben’ ed era firmato ‘ Delilier’.
Un’aura musicale
avvolgeva la città, sonorizzava la morbida coltre di nebbia. Quando
la buona stagione apriva le finestre, vocalizzi e gorgheggi uscivano
da tutte le case. I gigioni signoreggiavano in Galleria.
Paltò con martingala, bavero di castorino, bombetta ributtata sulla
nuca. Tre, in un angolo, presso l’ingresso del Ristorante
Economico, provavano le note di petto turandosi l’orecchio e
riunendo le tre teste in una carambola perfetta. Nella mia pensione
il tenore Borgatti cantava: ‘ Infrante son le catene…’ e a
tavola il baritono Pacini si faceva servire un intero occhio di bue e
pasteggiava ciclopicamente. Borella, ufficiale di cavalleria che
aveva lasciato l’Esercito per dedicarsi ai libretti d’opera, una
sera, in salotto, improvvisò alcuni senari a una giovane scandinava,
venuta a Milano a farsi ‘ impostare’ la voce:
O bionda
figurina
Che tutta
in te nauni
La
bellezza divina
Del volto
e del sentir,
Non mi
guardare ché affanno
A volta a
volta e gioia
Gli
occhioni tuoi mi danno
E non li
so fuggir…
Se non quelli di Borella,
i libretti di Illica e Giacosa erano considerati opere di poesia, e i
versi di Giacosa, che in quei libretti aveva la speciale cura della
verseggiatura, erano mandati a memoria:
O belle mani
Mansuete e
pure
O mani elette
Ad opere
pietose:
A carezzar
fanciulli,
A coglier
rose…
La confetteria Cova era
in quel tempo il centro intellettuale di Milano, e tra le cinque e le
sei Giacomo Puccini veniva al Cova a prendere un cappuccino col
petibùrr, perché i filologhi di buona volontà non avevano
ancora provveduto in quel tempo a rinettare il nostro vocabolario di
tutti i barbarismi che lo deturpano e a sostituirli con voci di
pretto conio italiano.
Il tenore Borgatti, che
nella nostra pensione cantava l’aria di Sansone ed è stato un
famoso Sigfrido, ha avuto una sorte tragica, ma che nella vita di un
cantante può essere considerata fatale: è diventato cieco. Alle
Canarie accecano i canarini per farli cantare meglio e, per figura,
anche i rapsodi erano ciechi. Per questo la leggenda rappresenta
Omero con gli occhi alzati al cielo ma torbidi e senza sguardo, quasi
il buio degli occhi sia necessario perché la voce dia maggior luce.
Nivasio
Dolcemare
Musica: Le nove
sinfonie ( novembre-dicembre 1942)
Ho accennato altre volte
all’inversione che io do all’ordine d’importanza e di valore
delle nove sinfonie di Beethoven, anteponendo la Seconda, la Quarta e
l’Ottava alla Terza, alla Quinta e alla Nona, e la Prima a tutte,
e lasciando come in un ‘limbo’ la Sesta e la Settima. Anche al
criterio che mi ha guidato in questa inversione ho accennato altre
volte, ma tornando ad accennarvi non credo d’incorrere in peccato
di ripetizione.
L’arte è una
condizione d’innocenza. Non si dica tuttavia che l’arte è al di
là dal bene e dal male. L’arte è di là dal male, ma quanto al
bene essa lo contiene in sé. Si distingue l’arte vera dall’arte
falsa, dal che l’arte vera ci rapisce di là dal male, mentre
l’arte falsa ci lascia ancora nel mondo del male e non ci fa
sentire la felicità, la purezza, l’innocenza di un mondo senza
male.
L’arte è una
continua ricerca dell’innocenza primitiva, dell’innocenza
perduta. Non è soltanto il ricordo del paradiso perduto, ma è
anche, e soprattutto, il tentativo di ritrovarlo.
Delle nove sinfonie di
Beethoven la Prima è la più bella, perché la più vicina
all’innocenza del paradiso terrestre. Le altre via via sono dei
tentativi sempre più lontani, sempre più disperati, sempre più
esasperati di ritrovare l’innocenza e la felicità della Prima
sinfonia. E se l’andante della Settima è una danza, essa è una
triste danza davanti alle chiuse porte del Paradiso.
Un genio agenio
Le storie della musica
pongono Ettore Berlioz nella categoria dei ‘ rivoluzionari’. Che
ettore berlioz fosse un rivoluzionario, nessuno si sogna di
contestarlo. Che dico rivoluzionario ? Berlioz era un genio. Per
meglio dire Berlioz possedeva tutti gli attributi del genio:
inquietudine, angoscia, nevrastenia, amori frenetici e diversi, umore
nero, irritabilità, infelicità, povertà, salute cagionevole; e i
caratteri somatici pure: naso aquilino, occhi inofssati, magrezza
spaventosa. Gli mancava soltanto la musicalità: il che, per un
musico, è abbastanza grave. Fino alla morte, Berlioz aspettò ‘ la
sua ora’. Morto lui, l’ora di Berlioz ciontinuano ad aspettarla i
suoi ammiratori; i quali però non sono molti, nemmeno in Francia.
Quanto a me, io credo che l’ora diBerlioz non verrà mai. Né c’è
ragione che venga. C’è in lui qualche cosa che ‘non funziona’.
E’ come della musica fatta col legno. Il meglio che ci rimane di
lui, è forse il ritratto che gli ha dipinto Courbet.
Ndr. Ai due altri
brevi capitoletti della rubrica, intitolati rispettivamente ‘
Strawinski’ e ‘Strawinsky e l’ironia’, presenti – come
abbiamo già segnalato - in Scatola Sonora, manca una nota riportata
da Documento, e che qui vogliamo, di conseguenza, riprodurre. ‘
Nella musica di Strawinsky, nonostante la sua riconosciuta
originalità, si possono fare gl’incontri più impensati. Così,
nel secondo tempo del Concerto per piccola orchestra in sol (
Dumbarton Oaks) si trova un tema della Sinfonia n. 1 di Martucci.
Incontro da segnalare, perché qui non si tratta di quegl’incontri
che Strawinsky fa a ragion veduta, come l’incontro col tema del
Barbiere in Jeu de cartes’.
Perseo
Musica: Poliuto col
basco ( gennaio 1943)
Prima che alla prima, ho
assistito alla prova generale di Poliuto. Attesti anche
questo particolare il mio zelo di critico musicale. Del resto non io
solo assisto alla prova generale delle opere, ma tutti coloro che
come me fanno professione di critici musicali. E’ un’abitudine ed
è una necessità.
Lo spettacolo della
prova generale non differisce essenzialmente dallo spettacolo della
prima rappresentazione e da quello delle rappresentazioni successive:
è uno spettacolo già completo e pronto per il pubblico. Differisce
invece la situazione dello spettatore, la quale alla prova generale è
alquanto simile a quella dell’infelice Luigi di Baviera, allorchè
solo in un palchetto in mezzo al teatro vuoto e nascosto dietro una
gratella dorata con la porporina, egli ascoltava per suo uso
esclusivo e in pieno rapimento i melodrammi del suo diletto Riccardo
Wagner.
Ho associato al nome di
Luigi II l’aggettivo ‘infelice’ non per conformarmi io pure a
un’usanza banale, sì per ricordare la singolare forma d’infelicità
di questo ofelio monarca; il quale infelice non era perché mancasse
di condizioni di felicità, ma perché i suoi desideri erano
infinitamente maggiori alle umane possibilità di godere. E’ buon
precetto d’igiene nutritizia levarsi da tavola con un residuo
d’appetito: Nietzsche per parte sua consiglia nell’ Ecce Homo
di riempire completamente la capacità dello stomaco, ma tuttavia non
dice di superarla. Questa sproporzione fra desiderio e possibilità
di godimento è la ragione profonda perché Luigi II si porta così
meritatamente il titolo di ‘grande romantico’, perché il senso
del romanticismo è tutto in questo desiderare ciò che possedere non
si può, e stupisce che nessuno finora abbia pensato di considerare
il senso romantico della vita, così vivo in molti uomini, in molti
artisti, in molti poeti, in molti popoli, come una delle più ampie e
feconde forme di masochismo. Leggete dell’angelico Apollinaire una
minuscola narrazione intitolata Re Luna, nella quale
spiritosamente trapela la misteriosa ed affascinante figura di Luigi
di Baviera: Affascinante del pari è la lirica, la mecenatesca
amicizia che Luigi di Wittelsbach nutriva per Riccardo Wagner, a
patto però di considerarla da lontano; perché avvicinata all’occhio
questa fulgida amicizia perde di fascino, e sbiadisce al crudo lume
di certi soldi richiesti da una parte e negati dall’altra.
Torniamo alla prova
generale del Poliuto. Alla prova generale il reparto delle
poltroncine nel Teatro Reale dell’Opera è folto di spettatori
oscuri che vagolano come ombre dell’Ade e si palpano l’un l’altro
per riconoscersi, mentre il reparto più vasto delle poltrone è
vuoto invece di spettatori e però la sala in penombra, rischiarata
dalle sole luci del palcoscenico e molto debolmente quando sul
palcoscenico si rappresentano quelle scene notturne che nei
melodrammi sono purtroppo tanto frequenti, somiglia a una faccia
virile che in parte si è fatta la barba e in parte non se l’è
fatta.
Quando il primo atto è
finito e tre occhi si accendono lassù nell’aereo lampadario e
lasciano piovere nel sottostante baratro tre amare lacrime di luce, e
gli spettatori delle poltroncine possono finalmente riconoscersi fra
loro e si accorgono con raccapriccio che colui vicino al quale
durante l’atto avevano anche sussurrato le loro più intime
confidenze essi non lo conoscono affatto, arriva il commendatore
Giuseppe Maria Viti, amico e guida dei critici musicali e capo
dell’ufficio stampa del Teatro reale dell’Opera, e a noi docili e
grati distribuisce il ‘santino’, cioè a dire un foglietto di
carta sul quale è riassunto il libretto dell’opera, che il critico
musicale afferra subito con amore e va in un angolo del ridotto a
impararselo a memoria. Non so chi per primo abbia dato a questo
foglietto di carta il nome ‘santino’, ma si tratta indubbiamente
di uomo di finissimo intelletto, perché nulla somiglia tanto al
catechista che distribuisce immagini sacre ai catechizzati, quanto il
commendatore Giuseppe Maria Viti che con gesto pieno di dolcezza
distribuisce a noi critici mansueti il soggetto del melodramma che si
sta rappresentando.
Per insolito caso,
alla prova generale di Poliuto lo spettacolo era incompleto:
incompleto in minima parte ma tuttavia incompleto. Scenari, luci,
costumi, ogni cosa era apprestata per lo spettacolo, solo che tre dei
personaggi principali, e cioè Poliuto, Severo e Paolina non erano in
costume ma vestiti come voi e me. Poliuto il pio magistrato di
Mitilene era impersonato da Beniamino Gigli, il quale portava un
completo di stoffa scura con giacca a doppio petto e un basco stretto
al capo e leggermente calato sull’orecchio; Paolina la sposa di
Poliuto era la signora Maria Caniglia, la quale portava una pelliccia
di visone tre quarti e delle scarpe ortopediche; Severo il proconsole
dell’Armenia era il baritono Gino Bechi, e questi, se la memoria
non mi tradisce, portava una giacca marrone a martingala e una
vitamaglia di colore cupo ( vitamaglia è un nuovo vocabolo proposto
dall’Accademia per sostituire i vocaboli stranieri che presso di
noi significavano farsetto).
In una mia nota sul
Poliuto pubblicata giorni sono in altra sede, dicevo lo sforzo
che quest’opera di gaetano Donizetti fa per uscire dal suo caos
originario alla luce, e la sua angoscia perché non ci riesce.
L’impressione è quella di un fantasma che non diventa corpo, di
una voce che non diventa parola, di un suono che non diventa musica;
intendendo la musica in questo caso nel senso di ottocentesco
melodramma italiano, ossia di una serie di ‘pezzi’ peregrini e
ben riusciti, che anche la prima volta che tu li odi ti fanno
l’effetto di vecchie conoscenze e con dolce prepotenza ti si
allogano dentro il cavo dell’orecchio. Voglio dire con questo che
la musica del Poliuto non mi sedusse né mi rapì, e
l’impressione più viva che io ebbi alla prova generale di questo
melodramma incerto come Amleto tra l’essere e il non essere, me la
diede l’inaspettato e spiritoso aggirarsi sulla scena, e gestire, e
cantare di quei tre personaggi dei nostri giorni, in mezzo a edifici
e a personaggi dell’” anno 257 di nostra salute”, com’è
detto nel libretto di Salvatore Cammarano.
Il Caso, e in sua vece
la sartoria del teatro reale dell’Opera aveva dato la più
inaspettata soluzione
al problema della
messinscena: soluzione inaspettata e assieme felice.
Teatro vale per ‘cosa
degna di essere veduta’ e in altre parole ‘ cosa che attira lo
sguardo’, e nessuno vorrà negare che un proconsole che entra in
scena su una biga dorata come una confettiera di nozze, reggendo lo
scettro del comando in mano e vestito di una giacca a martingala,
attira molto più lo sguardo di un proconsole che entrasse in scena
fornito degli attributi proconsolari e vestito della toga
regolamentare. Il simile si dirà di una patrizia romana che si
accinge a farsi divorare dai leoni del circo in scarpe ortopediche e
pelliccia tre quarti, e di un neofito del secondo secolo che si
prepara alla stessa morte in completo a doppio petto e basco sulle
ventitrè.
A fine di rompere la
monotonia della rispettata verità storica, alcuni teatranti più
fantasiosi avevano staccato le opere di teatro dal loro tempo nativo
e trasportate nel nostro; e Amleto per merito di Max Reinhardt, Orfeo
per merito di Cocteau, Ulisse per merito mio avevano rotto gli
ormeggi storici ed erano riemersi fra noi più vivi, più
confidenziali, più poetici persino; perché anche la poesia vuole
scaldarsi al calore del nostro presente e lontana da noi si raffredda
e intristisce. Nella quale occasione i soliti stupidoni non mancarono
di gridare all’iconoclastia, loro che non si erano mai sognati di
protestare perché Giovanni Bellini fa ritornare Ulisse a Itaca in
abito non del tempo di Ulisse ma del suo proprio. Ma a che si
riducono queste totali trasposizioni da un tempo in un altro tempo,
a petto al ‘naturale’ incontro di uomini del nostro tempo con
uomini del secondo secolo dopo Cristo?
Questo vedemmo noi quel
giorno alla prova generale del Poliuto, nella sala del
Teatro Reale dell’Opera rasata per metà; e quelle sono cose che,
vedute una volta, ti si figgono nell’occhio e non le dimentichi
più.
Come crederemo in
avvenire che quello è Poliuto, magistrato di Mitilene e candidato
alla palma del martire, e non porta il basco sulle ventitrè?
Nivasio
Dolcemare
Musica :Indelicatezza
( giugno 1943)
Giorni fa e lemme lemme,
mi andavo ripassando il ‘Clavicembalo ben temperato’ al
pianoforte in una edizione curata da Ferruccio Busoni. Per poco che
si sia colti in materia musicale, si sa che Giovanni Sebastiano Bach
è il meno mattacchione dei musici, il più austero, il più
sacerdotale. Queste sapienti reazioni armoniche, questi
elaboratissimi precipitati contrappuntistici partecipano meno degli
edonistici ludi della chimica pura, e a ragioni veduta il loro autore
è da considerare il fondatore di quella Farbenindustrie di
cui la Germania a buon diritto va orgogliosa. La musica di Giovanni
Sebastiano, così profondamente religiosa, non è certo la più
indicata ad allietare le notti di una compagnia di bookmackers
ubriachi di gin, ma in compenso testimonia di una ispirazione così
casta, di una dignità così alta, di uno stile così compiuto che a
riguardo di essa ben si può parlare di ‘musica pura’ e nel
significato acquisito, e soprattutto in quello letterale. Se c’è
musica al mondo che basta a se stessa né ha bisogno di commenti e
didascalie, questa è appunto la musica di Giovanni Sebastiano Bach.
Molto ho stupito dunque l’altro ieri pescando tra le chiose
interprettative anteposte dal buon Busoni a ciscuno di questi
mirabili chimismi sonori, perle di questa fatta: ‘Andante con un
certo sentimento severo’, ‘ Andantino idillico’, ‘Andantino
lusingando’ (?),
‘Allegro volante’,
ecc. ecc. Qui non è più quistione di proprietà: è quistione di
tatto. Annotazioni così licenziosette non s’affarrebbero neppure
allo spartito di ‘Funiculì-Funiculà’: usarle nell’opera di
colui che Beethoven chiamava der Urvater der Harmonie, il
Patriarca dell’Armonia, è come inchinarsi a una vecchia duchessa
paralitica e supremamente formalista, e invitarla a ballare la
carioca.
Nivasio
Dolcemare
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