L'ossimoro, del tutto evidente e dunque non involontario, che balza agli occhi non appena si ha conoscenza del titolo di questo
nuovo lavoro di Lucia Ronchetti, Inedia Prodigiosa -
sottotitolo: Opera corale per coro di voci femminili, coro misto e
coro femminile amatoriale - ha
un gemello nella concezione stessa dell'opera che ha per soggetto le
donne digiunatrici nei secoli, ridotte a scheletri, come attestano,
nel libretto ad opera di Guido Barbieri, i resoconti anatomici, ma
che si esprime attraverso una musica opulenta, ricca di ritmi,
contrasti e colori, a tratti perfino sgargiante per le numerose
tracce della musica di ogni tempo, dal Perotinus della Scuola di
Notre Dame, che apre l'opera, illuminandola di una luce folgorante,
al Monteverdi dei sontuosi Vespri
(1610), che con l'invocazione trinitaria (Gloria Patri), la chiude,
dopo essere passata anche attraverso Giuseppe Verdi, padre
indiscusso del melodramma.
Ma
forse una ragione per questo secondo ossimoro c'è e va individuato
in ciò che Lucia Ronchetti segnala, ad illustrazione di questa
'opera corale' - commissionatale dal Teatro Massimo di Palermo -
quando afferma che il digiuno riduceva sì le donne a scheletri
ambulanti, ma (a differenza di quel che accade oggi a donne giovani,
che praticano il digiuno per inutili ed improduttivi fini estetici)
le rendeva libere dal loro corpo e da qualunque altro bisogno, anche
alimentare, finalizzato alla sopravvivenza, per finalità talvolta
religiose, in generale ascetiche o di protesta, libere e creative al
massimo, visionarie - mentre il mondo circostante le tacciava di
pazzia.
Quelle
donne, cinque in tutto, che rispondono ai nomi di Mollie Fancher,
Anna Garberio, Jeanne Fery, Maria Maddalena de' Pazzi, Christina
Georgina Rossetti, di ogni tempo e paese, esse medesime od altri su
di loro (medici, analisti, sacerdoti) parlano nella loro lingua nel
libretto che mette in fila ( sulla base di ricerche collezionate da
Elena Garcia-Fernandez e Marco Innamorati), oltre i resoconti medici
o cronachistici, alcune parole delle digiunatrici o 'pensieri' di
Leopardi. Ed anche, ma questa volta in latino, qualche testo
liturgico.
Ora
questo spettacolo, che entra per le orecchie e non per gli occhi,
può ancora dirsi 'opera' - come la Ronchetti lo definisce, non
intendendolo nel senso
di 'opus' ?
Perchè
no? Ne siamo convinti. Perchè la drammaturgia, se non c'è
palcoscenico perchè non c'è racconto, può prendere forma nella
musica. E in quella 'corale' in particolare, che consente un doppio
prezioso risultato. Da un lato scolpisce plasticamente la vicenda,
anche quando - come in questo caso – la musica non sembra essere
il pendant espressivo del testo, dall'altro evita di incorrere nel
vero e più grande enigma della scrittura teatrale odierna. Quello
del canto solistico, tuttora irrisolto, sebbene multiforme, ma
tuttora non convincente, nella quasi totalità delle espressioni
conosciute.
I
cori impegnati nell'opera della Ronchetti provengono tutti
dall'Accademia di Santa Cecilia, e vanno da quello 'misto' ufficiale,
all'altro, amatoriale' ( Chorus e Cantoria, affidato alla direzione
di Massimiliano Tonsini) e si avvalgono, nel non facile compito,
della preziosa direzione di Ciro Visco.
I
Cori divisi in due gruppi, numerosi quanto o forse più del pubblico
stesso presente, erano sistemati nella suggestiva cornice delle
Terme di Diocleziano, di fronte ed alle spalle del pubblico, stretto
in mezzo, e perciò costretto qualche volta anche a sbirciare dietro,
al fine di ottenere effetti stereofonici.
Ma
non è detto che non si possa immaginare in una ripresa futura, anche
una collocazione diversa e perfino una 'teatralizzazione', seppur
minima, dell'opera, che rende conto di una maturità della Ronchetti
anche in campo teatrale, nella direzione di un melodramma 'povero' di
mezzi ma ricco di inventiva, ogni volta alla ricerca di nuovi più
efficaci mezzi espressivi. E non è detto che non riesca a trovare
una soluzione convincente anche per il canto solistico.
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