Il timore che nessuna sorpresa potrà riservarci il giudizio universale che si abbatterà sulle nostre fondazioni liriche è più che fondato. Perchè quel fatidico 31 dicembre 2018 è troppo vicino per non far sorgere sospetti che sia stato già tutto deciso, mancando i presupposti per salvare dall'inferno i teatri già destinativi per reiterati peccati amministrativi. Se oggi sono troppi quelli che hanno problemi seri di bilancio, aggravati anche dalle lungaggini burocratiche per accedere ai 'benefici' cosiddetti della legge Bray (come nel caso del Nuovo Carlo Felice genovese che soffre di mancanza di liquidità ed è quasi ogni mese nella impossibilità perfino di pagare gli stipendi) come non pensare che non saranno in grado, con la migliore buona volontà, di arrivare al giorno del giudizio con i conti in ordine, che ad essere più precisi, vuol dire: pareggio di bilancio?
Se quella data venisse anticipata di soli due anni, fuori dal novero delle cosiddette 'Fondazioni liriche', in parole povere:declassate, risulterebbero le Fondazioni di Genova, Trieste, Bologna, Firenze, Bari, Palermo, Cagliari e Verona. Mentre per continuare ad appartenere al ristretto salotto buono delle Fondazioni i numeri l'avrebbero solo: Venezia, Torino, Roma, Napoli; escludendo, come lo sono già, perché assurte al ruolo di istituzioni musicali di rilievo nazionale ed internazionale, sia la Scala che l'Accademia di santa Cecilia.
Dunque ben otto delle 14 istituzioni musicali importanti del nostro paese, alcune storiche, verrebbero dallo Stato abbandonate al loro destino ed affidate alle inaffidabili cure ed attenzioni delle autonomie, che girano a seconda del vento.
Tutto questo sarebbe stato deciso da tempo - dietro c'è sempre la mano barbarica di Salvo Nastasi - e la data capestro sarebbe stata fissata, come accade sempre, dai politici mariuoli, in piena estate, quest'anno, quando la gente stanca del vivere vuole godersi la meritata vacanza senza pensieri, caschi pure il mondo - mentre il mondo fisicamente è purtroppo caduto e proprio sulle teste di molti nostri concittadini nel centro Italia, ed ancora non accenna a darsi una calmata.
Che faranno quegli otto teatri condannati ad essere declassati? Mentre il loro numero sembra quasi certo e i predestinati all'inferno del declassamento già decisi, cosa di fatto accadrà loro non si capisce ancora.
E' certo che il declassamento comporterà per loro una drastica riduzione del finanziamento pubblico, perché verrebbero finanziati come gli altri 'teatri di tradizione', dunque assai meno, ma non si sa quale fine faranno, necessariamente, le cosiddette masse artistiche (orchestre e cori - dei corpi di ballo non si parla neppure, perché ormai sono solo due o tre i teatri che ne possiedono uno, tutti gli altri sono stati da tempo sciolti) per il cui pagamento non si avranno più soldi sufficienti.
Insomma in men che non si dica, anche con l'avallo di ministri che molti stimano illuminati, come 'mezzodisastro' Franceschini, il sistema dei grandi teatri, onore e vanto d'Italia, verrebbe di fatto smantellato ( tale disegno molte volte è stato illustrato, più o meno chiaramente, da 'grande&grosso' Nastasi).
La situazione dunque appare fin da oggi drammatica al punto che non potendo più attendere, dopo domani, alla prima veneziana di 'Aquagranda', la nuova opera di Filippo Perocco che racconta l'alluvione disastrosa di cinquant'anni fa a Venezia, i sovrintendenti delle Fondazioni liriche, anch'essi con l'acqua alla gola, hanno deciso di riunirsi alla Fenice, sotto la presidenza di Chiarot, a capo dell'ANFOLS - la loro associazione di categoria - per lanciare un sos all'indirizzo di 'mezzodisastro' Fraceschini e del premier Renzi, ammesso che soprattutto questi abbia tempo, energia e voglia di ascoltarli, stretto fra la stesura della legge finanziaria, le diatribe con l'Europa, e la tragedia, vera ed infinita, del terremoto.
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