L'occasione di questa intervista fu data dall'inaugurazione, il 21 aprile 2002, della sala media (Sala Sinopoli) dell'Auditorium di Roma, alla quale Boulez partecipò, invitato da Luciano Berio, con il 'suo ' Ensemble Intercontemporain. In quell'occasione il musicista visitò il grande complesso architettonico destinato alla musica.
"Fa un gran bell’effetto,
la sala media (Sala Sinopoli) - attacca Boulez .Dal palcoscenico dove
ho provato, rimanda un suono chiaro, con bella risonanza, ed anche
l’amalgama di più strumenti è soddisfacente. Naturalmente dovrei
stare in sala ed ascoltare di lì per confermare la prima impressione
che, comunque, è ottima. Ho visto anche la sala piccola, quella con
il palcoscenico (Sala Petrassi). Mi ha fatto impressione il bel
materiale con cui le sale sono rivestite. Noi all’Ircam non ci
siamo potuti permettere tanto bel legno. Perchè Parigi non può
avere una grande sala da concerto come Roma, che ora ne ha
addirittura tre? Continuerò a battermi per ottenerla".
A Roma con l’
Ensemble Intercontemporain, Boulez ha visitato il nuovo
Auditorium-Parco della Musica, ma non da solo come avrebbe
desiderato, bensì in compagnia di un architetto collaboratore di
Renzo Piano, e senza nessun giornalista 'indiscreto' al seguito. Il
bello però viene ora. Lei maestro cosa ci farebbe?
Per
fortuna non devo occuparmene; richiederebbe un grande impegno, ed io
non avrei neppure il tempo per farlo. Basandomi sulla conformazione e
sulla capienza delle tre sale, si potrebbe destinare la sala più
grande - quella da 2800 posti, di prossima inaugurazione - al
cosiddetto ‘repertorio’, alla musica più familiare ; la sala
media ( battezzata: Sala ‘Giuseppe Sinopoli’, da 1200 posti)
potrebbe ospitare un mélange fra musica di repertorio e musica non
altrettanto nota per organici cameristici; e la terza sala, la più
piccola (da 700 posti , dotata anche di palcoscenico, Sala
'Petrassi') potrebbe rappresentare una fucina per le novità. E poi
c’è il grande foyer circolare che abbraccia le tre sale - ci si
potrebbe fare una biblioteca ‘itinerante’ legata alle attività
delle tre sale; e poi c’è la cavea all’aperto… quante altre
idee potrebbero venire.
Basta così poco per
farlo funzionare?
Per carità. Occorre
cambiare anche mentalità. Ai responsabili musicali consiglio di
osservare ciò che hanno fatto i responsabili di musei, per aumentare
il numero dei visitatori. E ci sono riusciti. Esistono musei
‘generalisti’, altri specializzati in questo o quello stile;
gallerie, infine, che espongono ciò che di nuovo succede nell’arte.
Non si può mostrare tutto a tutti in una volta, costringendo anche i
più riottosi, ma non bisogna neppure desistere dal tentativo di far
conoscere il nuovo.
Perdoni, maestro, ma è
proprio quello che Lei fa da sempre: costringere tutti quelli che
decidono di venire ai suoi concerti a conoscere il nuovo. Le spiace
spiegare perchè, per poterla ascoltare, occorre pagare questa tassa,
l’ascolto – obbligato - della sua musica e di quella di pochi
altri, come Berio?
La ragione è semplice.
Sono una persona molto esigente e dedico il mio tempo solo a ciò che
mi interessa veramente, che è poi la musica di oggi, e in
particolare quella dei giovani che mi obbliga a pensare in maniera
diversa da come ho sempre pensato. A me interessa l’evoluzione
della musica e questa evoluzione si ha con le nuove leve.
Recentemente ho diretto un opera dell’inglese Geoge Benjamin che
ha quarant'anni, dunque quasi la metà dei miei anni; Berio… perchè
siamo coetanei; perchè è fra le persone con cui ho maggiore
familiarità e perchè posso dire che mi trovo a condividere un
percorso musicale assai simile al suo, al punto da invidiargli alcune
sue opere che vorrei aver scritto io. Naturalmente Berio non lo
dirigo solo a Roma e perché mi ha invitato.
Maestro, conosce
Michael Nyman?
No.
E Uri Caine, direttore
della Biennale Musica di Venezia(2002); e Arvo Part? li conosce?
No! Dovrei conoscerlo,
Caine? Part lo conosco. Ma perché mi domanda di Nyman, Caine e Part?
Semplicemente perché
appartengono a quella schiera di compositori che vampirizza troppo
spesso i musicisti del passato. Anche il suo amico Berio non è
estraneo a questo pratica. L’ha fatto con Mozart, Boccherini,
Schubert, ed ora anche con Puccini. Cosa pensa di chi si rivolge
troppo spesso alla musica del passato, e non per studiarlo o per
prendere in prestito qualche tema?
Non intendo giustificare
nessuno. Semplicemente le dico che non mi interessano e perciò non
me ne occupo. Nella storia tutte le volte che non si riesce a trovare
un rimedio presente ci si rivolge alla 'biblioteca'. Ma la biblioteca
deve avere uguale sorte della fenice, il mitico uccello: deve
bruciare. Un fenomeno analogo alla cosiddetta contaminazione fra
generi. Non è nuovo, lo si registra anche nelle arti visive: quando
un genere mostra segni di stanchezza, gli artisti si rivolgono ad
altri, in cerca di possibili modelli. Il passato è prezioso ma non
può pesare come un macigno sul presente e costituire un'ipoteca sul
futuro. Quando morì Schoenberg scrissi un saggio che intitolai
“Schoenberg è morto!”. Naturalmente la mia non era una scoperta.
Mio intento era ribadire che la storia della musica non finiva con
Schoenberg e che Schoenberg non poteva costituire un impedimento per
chi desiderasse andare avanti. Agli apocalittici di oggi voglio dire
che occorre giudicare ‘a distanza’ e non nell’immediato. E
questo vale anche per la musica
Cosa resterà della
musica del secondo Novecento. Può, già oggi, azzardare una
profezia?
Certamente 'Gruppen' di
Stockhausen; 'Sinfonia' di Berio e i 'Concerti per violino e
pianoforte' di Gyorgy Ligeti.
E John Cage , secondo
Lei, non ha significato nulla nella musica del Novecento? Cage,
l’ho conosciuto ed anche molto amato. Tutti subimmo il suo fascino.
Ma devo ammettere che John è stato più geniale nella vita che nelle
opere. Ha avuto idee importanti ma non i mezzi per realizzarle. Il
piano ‘preparato’, ad esempio, è soltanto una trovata, per
effetto del nuovo timbro e basta. Stesso discorso per il concetto di
‘opera aperta’. L’Europa conobbe Cage e l’America a Darmstadt
, un luogo d’incontro fondamentale per i giovani musicisti. E non è
vero che Darmstadt unificò il linguaggio di tutti i musicisti
presenti. Devo anzi dire che avvenne il contrario, in quel luogo
d’incontro tutti i musicisti trovarono la forza per proseguire per
la propria strada. Faccio un esempio: Luciano Berio non sarebbe lo
stesso senza la cultura italiana di provenienza. Per tutte queste
ragioni ritengo necessario continuare ad incontraci .
Alla musica si domanda
spesso di dire o fare cose che forse non può dire né riesce a fare.
E’ ragionevole pensare che la musica - linguaggio universale, come
si sottolinea in tempi di guerra - possa abbattere barriere, odii,
antagonismi?
Tante volte in passato si
è tentato di ‘politicizzare’ o ‘religionizzare’ la musica;
la musica non fa politica né proseliti. E tuttavia ciò che da
qualche anno, assai coraggiosamente, tenta di fare Barenboim,
costituire cioè un’orchestra di giovani israeliani, arabi e
palestinesi è molto meritorio e va fatto. Serve almeno a far
riflettere i giovani, almeno i giovani, sulla possibilità di
superare particolarismi ed antagonismi, lavorando gli uni assieme
agli altri. Questo esempio almeno occorre darlo.
Cosa spinge il
musicista a scrivere ancora oggi musica?
L’utopia. Il dialogo
dell’utopia con la realtà è uno stimolo importante per l’artista.
Occorre essere coraggiosi e curiosi. E i musicisti molto spesso non
hanno nè coraggio né curiosità. E’ un rimprovero severo che mi
sento di fare a tutti, compositori ed interpreti, senza distinzione.
Il loro scarso coraggio e l’assenza di curiosità fanno molto danno
al pubblico. In Italia avete interpreti come Abbado, Chailly,
Pollini. Tutti e tre sono musicisti sempre curiosi e molto coraggiosi
e il pubblico li segue fedelmente anche quando presentano musica
moderna o contemporanea, la qual cosa fanno con una certa regolarità.
A volte leggendo i programmi dei concerti di certi notissimi
pianisti, mi domando se siamo nel 2002 oppure nel 1880. E man mano
che passa il tempo mi scopro sempre più impaziente verso questo
stato di cose.
Insomma con qualche
Abbado, Chailly e Pollini in più, la musica moderna e contemporanea
risolverebbe i suoi problemi di pubblico e di accettazione?
Non basta. Una istituzione
musicale non deve interessarsi esclusivamente al concerto, che
tuttavia resta un fatto centrale nella vita musicale. Occorre
stimolare in tutte le maniere soprattutto i giovani e gli studenti.
Le case della musica non possono comportarsi come dei 'restaurant'
che osservano un orario rigido di apertura e chiusura, al di fuori
del quale non c’è verso di far aprire la cucina. Il concerto resta
il piatto forte, ma il contorno deve avere più peso. Intorno al
concerto occorre inventarsi qualunque cosa per incuriosire, specie
quando il pubblico è più disponibile, come nel fine settimana:
aprire le prove ai giovani, spiegare tutto quello che possono capire
di un brano musicale non particolarmente facile – io stesso l’ho
fatto con molto successo a Londra, per la serie ‘Discovery Concert’
della London Symphony Orchestra, spiegando e dirigendo Bartok. Pian
piano si può far capire al pubblico, almeno a quello più attento,
che esistono vari punti di vista sulla medesima musica; in occasione
dell’esecuzione di musica nuova, si dovrebbe effettuare una
registrazione dal vivo, in maniera da offrire immediatamente
l’opportunità di far riascoltare, seppure in disco, una musica che
dal vivo sarà possibile riascoltare forse dopo anni e anni. Occorre
muoversi e subito anche nella pedagogia musicale visto che la scuola
non lo fa; noi musicisti dobbiamo darci da fare, dobbiamo investire
sul futuro, ne va di mezzo anche la sopravvivenza della musica
stessa, oltre che nostra.
Il cosiddetto
repertorio - Bach, Mozart, Beethoven, per intenderci- non la
interessa affatto?
No, per carità. Io sono
un caso molto speciale. Sono innanzitutto compositore e, in
subordine, direttore, e direttore in primis della musica di oggi. E
per la musica del passato, solo di quegli autori e di quel repertorio
che non ritengo ancora valorizzati a dovere. Lo faccio anche spesso
per riequilibrare il peso di certi autori ed opere nella storia
generale della musica. Non c’è ragione perché io diriga autori
che altri fanno già bene e forse meglio di come farei io. Dirigere
il repertorio è un regalo che io faccio al pubblico. E un bel regalo
per essere apprezzato non può essere fatto ogni giorno, ma solo in
particolari occasioni.
E quali sarebbero
queste occasioni particolari per meritarci un suo cadeau musicale
estratto dalla tradizione?
Mi hanno invitato, a
Salisburgo, per questo gennaio, per un concerto di Mozart con Pollini
e i Wiener. Di per sé dirigere Mozart, nonostante la presenza di
Pollini, che è un musicista assai stimolante, per me non è
sufficientemente interessante. Sono riuscito ad inserire nel concerto
le due 'Kammersymphonie' di Schoenberg. Con quest’accostamento il
concerto è diventato stimolante, ed ho accettato. Penso che lo sarà
anche per il pubblico. Un altro esempio. A Chicago, dirigo la 'Grande
Messe des Morts' di Berlioz, che lì, stranamente, non è stata mai
eseguita. Ecco, ancora una ragione valida per tornare al repertorio:
presentarlo ad un pubblico ‘vergine’. La prossima Pasqua, a
Lucerna, dirigerò la 'Sesta' di Mahler e, nella stessa serata, anche
due strabilianti capolavori del Novecento, con evidenti echi
mahleriani: i 'Tre pezzi per orchestra' op. 6 di Alban Berg e i 'Sei
pezzi' op.6 di Anton Webern, nella versione originale. Ma, insisto,
se non posso accostarmi al repertorio alla mia maniera preferisco
dedicarmi a ciò che veramente mi interessa: la musica d’oggi,
compresa la mia. Le dò una primizia: tornerò ancora a Bayreuth nel
2004 per dirigere Parsifal. E sa perché? Per il forte valore
simbolico di quel teatro. A Bayreuth, con Wagner, vado a ritrovare la
sorgente della modernità. Voglio dire all’Europa che come Wagner
riuscì a costruire lì il suo ‘teatro dell’avvenire’, è
giunta l’ora che anche noi ci decidiamo a costruire il teatro del
nostro futuro!
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