Pierre Boulez, dopo molti
anni, è tornato in Italia, a Roma, per partecipare al Festival Varèse'
organizzato dall'Accademia di Francia e dall'Assessorato alla cultura
del Comune. Lo abbiamo incontrato.
Molti la considerano
musicista 'rigoroso e razionale'. Quale è il suo tributo alla dea
ragione?
Alla
base di tutte le cose vi è un rigore ed una razionalità. Comporre
vuol dire distruggere il rigore e la razionalità di partenza. Molte
volte ho citato un breve racconto di Henry Miller, intitolato 'Porto
un angelo in filigrana', nel quale l'autore di descrive in procinto
di disegnare un cavallo, poiché razionalmente ha deciso di disegnare
un cavallo. Ma a furia di disegnare, scopre di aver disegnato un
angelo. I compositori sono nella stessa condizione: partono sempre
con idee chiare che rimandano ad una precisa concezione della
composizione musicale. Il lavoro di composizione, giustamente,
consiste nel fatto che l'immaginazione arricchisce talmente questa
razionalità di partenza che essa non risulti poi così importante
ed interessante. A coloro i quali si sono divertiti o meglio
ingegnati ad analizzare le mie opere – e ben pochi sono arrivati
alla razionalità di partenza – ho sempre sconsigliato di cercare
la razionalità di base, poiché credo sia la cosa meno interessante.
Da molti anni mancava
dall'Italia? Perchè tanto tempo prima di rimettervi piede?
Sono
molti i paesi nei quali non sono più andato da anni. Precisamente
dal 1977, da quando mi sono 'consacrato' alla creazione dell'IRCAM,
un'istituzione che vantava già una storia prima della sua creazione.
Da quell'anno mi sono dovuto occupare dell' IRCAM e dell' Ensemble
Intercontemporain. Da allora non ho più visitato molte città che
amo. Non voglio sottovalutare l'importanza di Roma... ma penso che
avrebbero potuto pormi la stessa domanda a Vienna e ad Amsterdam e
soprattutto a Londra, una città dove andavo spessissimo un tempo.
Tutto questo perché ogni mia energia è concentrata innanzitutto sul
la composizione e sui due organismi cui sono preposto, che richiedono
una costante presenza sul campo.
Che cosa l'ha fatta
decidere a passare dalla composizione alla direzione, o meglio di
affiancare alla prima la seconda?
HO
cominciato a dedicarmi alla direzione d'orchestra quasi per caso
direi... o per necessità più che per caso. Quando ero giovane, le
opere della mia generazione – quanto all'0esecuzione –
dipendevano esclusivamente da due direttori: Scherchen e Rosbaud,
ambedue sulla sessantina. Più tardi vi furono Maderna - che
conoscete benissimo - e Gielen ed io stesso. Fra gli interpreti della
mia generazione, noi tre soli ci siamo occupati della musica
contemporanea e della sua interpretazione. Perchè? A Parigi, negli
anni Cinquanta, si polemizzava vivacemente sulla musica della mia
generazione. Quando si vuol fare polemica - anche la più violenta -
la si deve basare su oggetti, fatti concreti e non su idee vaghe. Ciò
che mi ha spinto a creare i concerti che dirigo ancora è la
convinzione che ogni discussione debba seguire l'ascolto e dipendere
da esso. Per la stessa ragione, a Darmstadt, non vi erano solo corsi:
la cosa più importante era che i compositori potevano ascoltare le
loro opere. E' fondamentale per un compositore non aspettare la
gloria postuma o un riconoscimento tardivo, perché egli beneficia,
trae utilità da ciò che ascolta.. ed anche il pubblico ne beneficia
o forse no... ma ciò che importa soprattutto è che egli sia
testimone di ciò, testimone diretto. I risultai, poi, buoni o
cattivi, vanno annotati fra i profitti e le perdite.
Ma
ribadisco che il compositore, in ogni caso, si avvantaggia del
confronto con il pubblico, più del letterato, del poeta del pittore:
nella musica e nel teatro, il confronto con il pubblico, può
modificare il punto di vista dell'autore, che non potrebbe altrimenti
avere una verifica. Ciò non vuol dire che bisogna sempre piacere al
pubblico. Però ci si può rendere conto, ad esempio, di difficoltà
inutili e superflue. Se tali difficoltà rendono di fatto
irrealizzabile ciò che è scritto, non val la pena di scriverlo. La
difficoltà non è solo intellettuale, ma anche di comunicazione, e,
per questo, credo che l'esperienza della direzione è stata non utile
ma insostituibile.
Nella sua attività di
direttore v'è stato un allargamento del repertorio a ritroso: dalla
musica d'oggi a quella del passato. Giungere al repertorio classico o
romantico dalla musica contemporanea quali vantaggi reca ad un
direttore; ad esempio, nel confronto con l'opera di Wagner?
Io ho
l'occhio del compositore. Quando un compositore guarda o studia una
partitura si rende conto di ogni minuzia dell'autore. Se ha scritto
così, in quel momento preciso, in vista di un certo risultato, ci si
deve preoccupare di quel dettaglio. Ho scritto a proposito di Wagner,
anzi è Nietzsche che l'ha scritto per primo, che egli è 'maestro
della miniatura'. Per Nietzsche, in un duplice senso: innanzitutto
per accennare che, a suo modo, di vedere, il senso epico di Wagner
mancava di 'grandeur' - una connotazione che non faccio mia - e poi
anche nel senso sopra citato, nel quale caso è verissimo: basta
guardare gli infiniti dettagli delle partiture di Wagner.
Ma
ciò non vale solo per Wagner ( si confronti, ad esempio, 'Jeux' di
Debussy per rendersi conto dell'estrema minuzia dei dispositivi
strumentali) ma per qualunque compositore. In questo momento entra in
gioco il compositore-interprete che si preoccupa innanzitutto della
forma e dell'arco generale della composizione. L'interprete corre a
volte il pericolo dell'eccitazione momentanea che alterna a momenti
di vuoto. Il massimo dell'interpretazione può offrirlo il grande
interprete che è anche compositore, come Furwaengler, non importa se
non è grande. L'esperienza del compositore - per concludere - si
riflette nel senso della grande forma e della tensione generale.
Quanto
al mio caso (un compositore-interprete che per il repertorio fa un
cammino a ritroso: dal presente al passato) si tratta di proiettare e
riproiettare i compositori contemporanei con i quali ho familiarità
come interprete, su quelli con i quali non ho potuto avere tale
familiarità. Sta qui il problema. Nasce dal fatto che l'educazione
musicale si basa sempre sugli stessi classici: si nasce conoscendo
Beethoven,Mozart, Brahms, e, di conseguenza, abbiamo già uno stile
in testa.
L'ho
ripetuto tante volte e non mi stanco di ripeterlo: non credo ad una
tradizione, neppure alla tradizione che io stesso potrò creare; le
opere importanti demoliscono ogni tradizione proprio quando la
creano; e sono in grado di creare dei punti di vista assolutamente
nuovi ed interessanti proprio perché nuovi.
Cè una composizione
alla quale si sente particolarmente legato?
Certo
vi sono composizioni importanti. Nel mio caso sono tutte importanti
per me, anche perché non ne ho scritte molte. Alcune però hanno
per me un particolare significato: penso alla 'Seconda sonata' per
pianoforte che rappresenta l'acquisizione e, allo stesso tempo,
l'addio alla forma classica. C'è poi 'Le marteau sans maitre',
attraverso la quale mi sono liberato dallo stretto dogmatismo.
'Eclat' e 'Eclat multiple hanno significato la scoperta
dell'improvvisazione e del senso del momento, dell'attimo. In
'Rituel' è evidente la conoscenza e l'esperienza dell'orchestra e
della tecnica orchestrale. Penso a questi come momenti importanti...
ma ve ne sono naturalmente altri. Ora penso a questi, solo a questi,
anche perché non ho scritto che questi lavori che rappresentano
punti di passaggio in una certa evoluzione.
Fra i suoi maestri ve
ne sono stati di importanti?
Due
gli incontri importanti della mia vita di musicista: Messiaen e
Webern. IL primo è stati mio professore e quindi l'ho conosciuto
anche come uomo. Il secondo non l'ho conosciuto, ma ha comunque
segnato la mia vita. Messiaen è stato mio insegnante di armonia, una
tecnica classica, accademica. Ma ciò che contrassegnava il suo
insegnamento era il fatto che non considerava l'armonia come un
esercizio accademico, nel quale si dispone di un certo vocabolario e
si ubbidisce a precise regole. Il grande vantaggio del suo
insegnamento e la grande novità era basarsi su dati storici:
mostrava l'evoluzione del linguaggio armonico, nel corso dei tre
secoli, dalla quale scaturiva la necessità delle regole interne
allo stesso. Ma la mia conoscenza di Messiaen è nata anche dalla
conoscenza delle sue opere, mentre gli altri insegnanti per la
ragione opposta, non esercitavano su di me che un interesse relativo.
Con lui ho avuto l'opportunità di fare cosi di analisi, anche fuori
del Conservatorio, su opere niente affatto rivoluzionarie, come ''Ma
mère l'oye' di Ravel. Le sue analisi non erano solo precise ed
intelligenti, ma anche 'inventive'. Ed io preferisco un'analisi
'falsa' ma 'inventiva' piuttosto che una 'vera' ma 'sterile'. In tali
analisi si toccavano talvolta anche le sue opere. Di Messiaen,
perciò, ammiro anche il coraggio di introdurci nel suo laboratorio
musicale; la qual cosa, ad esempio, io non amo fare con le mie opere.
Per
Webern il discorso è diverso. Ricordo ancora la sensazione di
'baratro' destata in me dall'ascolto dell'op.21. E quella sensazione
di 'buco nero' era accresciuta in me anche dal fatto che non
conoscendo nient'altro di Webern non potevo percorrere il suo iter
compositivo. Ricordo anche una circostanza non marginale:
l'esecuzione fu pessima. Ma di quella non posso incolpare gli
interpreti. Cercai la partitura per rendermi conto direttamente di
cose che mi sembravano non quadrare: essi suonavano senza nessun
senso di continuità, ogni discorso era cancellato, sembravano dire
cose senza senso. A rendere meglio l'impressione avuta al cospetto di
Webern, mi è utile l'immagine di un lavoro di Genet, 'Les
paravents'. Anche per Webern, come nel lavoro di Genet, occorre
sfondare il paravento ed attraversarlo, come fanno al circo gli
animali con il cerchio di fuoco. Non è concesso fermarsi davanti al
paravento o al cerchio di fuoco ad ammirarli, occorre attraversarli.
Un'impressione che, ovviamente, non ho avuto con Messiaen, il cui
vocabolario mi era più vicino, più familiare, come anche le sue
radici: Debussy, Berlioz. Era una tradizione che conoscevo molto
bene, malgrado le innovazioni ritmiche, queste sì radicali, che
tutt'oggi mi impressionano ed affascinano della sua invenzione.
Webern
era per me l'antidoto contro l'accademismo neoclassico di Schoenberg.
E Berg il romanticismo che no accettavo più. Stravinsky aveva
liquidato, distrutto questa eredità postromantica, ma io non
riuscivo a guardare più in là; in Berg, soprattutto, ai problemi
posti sotto la crosta del romanticismo apparente: problemi di forma,
citazione, di costruzione tematica.
Si dice che oggi si
assiste ad un revival del pianoforte. Lei è d'accordo?
No,
e il concetto stesso di recital pianistico appartiene al secolo
scorso. Assistervi è come collezionare vecchi mobili.
Lei, in particolare,
che rapporti ha con il pianoforte?
Ottimi.
E' stato lo strumento con il quale ho avvicinato la musica. Opggi
suono il pianoforte per diletto personale e come mezzo per la
composizione, anche se il mio interesse per la musica con strumenti
tradizionali è scemato a vantaggio di quella elettronica. Resta
comunque un compagno prezioso.
Ancora sul pianoforte.
I pianisti possono ripensare, rinnovandolo, il loro ruolo di
interpreti?
Nel
lavoro gomito a gomito con i compositori, con reciproco scambio di
idee, ipotizzo il futuro per i pianisti. Conosco naturalmente molti
pianisti, fra i quali innanzitutto Maurizio Pollini che è un
grandissimo pianista calato nei valori della musica d'oggi. I grandi
virtuosi della tastiera non mi interessano affatto...
alors
je vous remercie beaucoup, vous en savez maintenant, sur tout, sur
moi aussi.
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RispondiEliminaChe Dio vi benedica.