domenica 10 gennaio 2016

In ricordo di Pierre Boulez.N.2 Intervista ( Piano Time, n.12 anno II, marzo 1984 ).

Pierre Boulez, dopo molti anni,  è tornato in Italia, a Roma, per partecipare al Festival Varèse' organizzato dall'Accademia di Francia e dall'Assessorato alla cultura del Comune. Lo abbiamo incontrato.

Molti la considerano musicista 'rigoroso e razionale'. Quale è il suo tributo alla dea ragione?
Alla base di tutte le cose vi è un rigore ed una razionalità. Comporre vuol dire distruggere il rigore e la razionalità di partenza. Molte volte ho citato un breve racconto di  Henry Miller, intitolato 'Porto un angelo in filigrana', nel quale l'autore di descrive in procinto di disegnare un cavallo, poiché razionalmente ha deciso di disegnare un cavallo. Ma a furia di disegnare, scopre di aver disegnato un angelo. I compositori sono nella stessa condizione: partono sempre con idee chiare che rimandano ad una precisa concezione della composizione musicale. Il lavoro di composizione, giustamente, consiste nel fatto che l'immaginazione arricchisce talmente questa razionalità di partenza che essa non risulti poi così importante ed interessante. A coloro i quali si sono divertiti o meglio ingegnati ad analizzare le mie opere – e ben pochi sono arrivati alla razionalità di partenza – ho sempre sconsigliato di cercare la razionalità di base, poiché credo sia la cosa meno interessante.

Da molti anni mancava dall'Italia? Perchè tanto tempo prima di rimettervi piede?
Sono molti i paesi nei quali non sono più andato da anni. Precisamente dal 1977, da quando mi sono 'consacrato' alla creazione dell'IRCAM, un'istituzione che vantava già una storia prima della sua creazione. Da quell'anno mi sono dovuto occupare dell' IRCAM e dell' Ensemble Intercontemporain. Da allora non ho più visitato molte città che amo. Non voglio sottovalutare l'importanza di Roma... ma penso che avrebbero potuto pormi la stessa domanda a Vienna e ad Amsterdam e soprattutto a Londra, una città dove andavo spessissimo un tempo. Tutto questo perché ogni mia energia è concentrata innanzitutto sul la composizione e sui due organismi cui sono preposto, che richiedono una costante presenza sul campo.

Che cosa l'ha fatta decidere a passare dalla composizione alla direzione, o meglio di affiancare alla prima la seconda?
HO cominciato a dedicarmi alla direzione d'orchestra quasi per caso direi... o per necessità più che per caso. Quando ero giovane, le opere della mia generazione – quanto all'0esecuzione – dipendevano esclusivamente da due direttori: Scherchen e Rosbaud, ambedue sulla sessantina. Più tardi vi furono Maderna - che conoscete benissimo - e Gielen ed io stesso. Fra gli interpreti della mia generazione, noi tre soli ci siamo occupati della musica contemporanea e della sua interpretazione. Perchè? A Parigi, negli anni Cinquanta, si polemizzava vivacemente sulla musica della mia generazione. Quando si vuol fare polemica - anche la più violenta - la si deve basare su oggetti, fatti concreti e non su idee vaghe. Ciò che mi ha spinto a creare i concerti che dirigo ancora è la convinzione che ogni discussione debba seguire l'ascolto e dipendere da esso. Per la stessa ragione, a Darmstadt, non vi erano solo corsi: la cosa più importante era che i compositori potevano ascoltare le loro opere. E' fondamentale per un compositore non aspettare la gloria postuma o un riconoscimento tardivo, perché egli beneficia, trae utilità da ciò che ascolta.. ed anche il pubblico ne beneficia o forse no... ma ciò che importa soprattutto è che egli sia testimone di ciò, testimone diretto. I risultai, poi, buoni o cattivi, vanno annotati fra i profitti e le perdite.
Ma ribadisco che il compositore, in ogni caso, si avvantaggia del confronto con il pubblico, più del letterato, del poeta del pittore: nella musica e nel teatro, il confronto con il pubblico, può modificare il punto di vista dell'autore, che non potrebbe altrimenti avere una verifica. Ciò non vuol dire che bisogna sempre piacere al pubblico. Però ci si può rendere conto, ad esempio, di difficoltà inutili e superflue. Se tali difficoltà rendono di fatto irrealizzabile ciò che è scritto, non val la pena di scriverlo. La difficoltà non è solo intellettuale, ma anche di comunicazione, e, per questo, credo che l'esperienza della direzione è stata non utile ma insostituibile.

Nella sua attività di direttore v'è stato un allargamento del repertorio a ritroso: dalla musica d'oggi a quella del passato. Giungere al repertorio classico o romantico dalla musica contemporanea quali vantaggi reca ad un direttore; ad esempio,  nel confronto con l'opera di Wagner?
Io ho l'occhio del compositore. Quando un compositore guarda o studia una partitura si rende conto di ogni minuzia dell'autore. Se ha scritto così, in quel momento preciso, in vista di un certo risultato, ci si deve preoccupare di quel dettaglio. Ho scritto a proposito di Wagner, anzi è Nietzsche che l'ha scritto per primo, che egli è 'maestro della miniatura'. Per Nietzsche, in un duplice senso: innanzitutto per accennare che, a suo modo, di vedere, il senso epico di Wagner mancava di 'grandeur' - una connotazione che non faccio mia - e poi anche nel senso sopra citato, nel quale caso è verissimo: basta guardare gli infiniti dettagli delle partiture di Wagner.
Ma ciò non vale solo per Wagner ( si confronti, ad esempio, 'Jeux' di Debussy per rendersi conto dell'estrema minuzia dei dispositivi strumentali) ma per qualunque compositore. In questo momento entra in gioco il compositore-interprete che si preoccupa innanzitutto della forma e dell'arco generale della composizione. L'interprete corre a volte il pericolo dell'eccitazione momentanea che alterna a momenti di vuoto. Il massimo dell'interpretazione può offrirlo il grande interprete che è anche compositore, come Furwaengler, non importa se non è grande. L'esperienza del compositore - per concludere - si riflette nel senso della grande forma e della tensione generale.
Quanto al mio caso (un compositore-interprete che per il repertorio fa un cammino a ritroso: dal presente al passato) si tratta di proiettare e riproiettare i compositori contemporanei con i quali ho familiarità come interprete, su quelli con i quali non ho potuto avere tale familiarità. Sta qui il problema. Nasce dal fatto che l'educazione musicale si basa sempre sugli stessi classici: si nasce conoscendo Beethoven,Mozart, Brahms, e, di conseguenza, abbiamo già uno stile in testa.
L'ho ripetuto tante volte e non mi stanco di ripeterlo: non credo ad una tradizione, neppure alla tradizione che io stesso potrò creare; le opere importanti demoliscono ogni tradizione proprio quando la creano; e sono in grado di creare dei punti di vista assolutamente nuovi ed interessanti proprio perché nuovi.

Cè una composizione alla quale si sente particolarmente legato?
Certo vi sono composizioni importanti. Nel mio caso sono tutte importanti per me, anche perché non ne ho scritte molte. Alcune però hanno per me un particolare significato: penso alla 'Seconda sonata' per pianoforte che rappresenta l'acquisizione e, allo stesso tempo, l'addio alla forma classica. C'è poi 'Le marteau sans maitre', attraverso la quale mi sono liberato dallo stretto dogmatismo. 'Eclat' e 'Eclat multiple hanno significato la scoperta dell'improvvisazione e del senso del momento, dell'attimo. In 'Rituel' è evidente la conoscenza e l'esperienza dell'orchestra e della tecnica orchestrale. Penso a questi come momenti importanti... ma ve ne sono naturalmente altri. Ora penso a questi, solo a questi, anche perché non ho scritto che questi lavori che rappresentano punti di passaggio in una certa evoluzione.

Fra i suoi maestri ve ne sono stati di importanti?
Due gli incontri importanti della mia vita di musicista: Messiaen e Webern. IL primo è stati mio professore e quindi l'ho conosciuto anche come uomo. Il secondo non l'ho conosciuto, ma ha comunque segnato la mia vita. Messiaen è stato mio insegnante di armonia, una tecnica classica, accademica. Ma ciò che contrassegnava il suo insegnamento era il fatto che non considerava l'armonia come un esercizio accademico, nel quale si dispone di un certo vocabolario e si ubbidisce a precise regole. Il grande vantaggio del suo insegnamento e la grande novità era basarsi su dati storici: mostrava l'evoluzione del linguaggio armonico, nel corso dei tre secoli, dalla quale scaturiva la necessità delle regole interne allo stesso. Ma la mia conoscenza di Messiaen è nata anche dalla conoscenza delle sue opere, mentre gli altri insegnanti per la ragione opposta, non esercitavano su di me che un interesse relativo. Con lui ho avuto l'opportunità di fare cosi di analisi, anche fuori del Conservatorio, su opere niente affatto rivoluzionarie, come ''Ma mère l'oye' di Ravel. Le sue analisi non erano solo precise ed intelligenti, ma anche 'inventive'. Ed io preferisco un'analisi 'falsa' ma 'inventiva' piuttosto che una 'vera' ma 'sterile'. In tali analisi si toccavano talvolta anche le sue opere. Di Messiaen, perciò, ammiro anche il coraggio di introdurci nel suo laboratorio musicale; la qual cosa, ad esempio, io non amo fare con le mie opere.
Per Webern il discorso è diverso. Ricordo ancora la sensazione di 'baratro' destata in me dall'ascolto dell'op.21. E quella sensazione di 'buco nero' era accresciuta in me anche dal fatto che non conoscendo nient'altro di Webern non potevo percorrere il suo iter compositivo. Ricordo anche una circostanza non marginale: l'esecuzione fu pessima. Ma di quella non posso incolpare gli interpreti. Cercai la partitura per rendermi conto direttamente di cose che mi sembravano non quadrare: essi suonavano senza nessun senso di continuità, ogni discorso era cancellato, sembravano dire cose senza senso. A rendere meglio l'impressione avuta al cospetto di Webern, mi è utile l'immagine di un lavoro di Genet, 'Les paravents'. Anche per Webern, come nel lavoro di Genet, occorre sfondare il paravento ed attraversarlo, come fanno al circo gli animali con il cerchio di fuoco. Non è concesso fermarsi davanti al paravento o al cerchio di fuoco ad ammirarli, occorre attraversarli. Un'impressione che, ovviamente, non ho avuto con Messiaen, il cui vocabolario mi era più vicino, più familiare, come anche le sue radici: Debussy, Berlioz. Era una tradizione che conoscevo molto bene, malgrado le innovazioni ritmiche, queste sì radicali, che tutt'oggi mi impressionano ed affascinano della sua invenzione.
Webern era per me l'antidoto contro l'accademismo neoclassico di Schoenberg. E Berg il romanticismo che no accettavo più. Stravinsky aveva liquidato, distrutto questa eredità postromantica, ma io non riuscivo a guardare più in là; in Berg, soprattutto, ai problemi posti sotto la crosta del romanticismo apparente: problemi di forma, citazione, di costruzione tematica.
Si dice che oggi si assiste ad un revival del pianoforte. Lei è d'accordo?
No, e il concetto stesso di recital pianistico appartiene al secolo scorso. Assistervi è come collezionare vecchi mobili.

Lei, in particolare, che rapporti ha con il pianoforte?
Ottimi. E' stato lo strumento con il quale ho avvicinato la musica. Opggi suono il pianoforte per diletto personale e come mezzo per la composizione, anche se il mio interesse per la musica con strumenti tradizionali è scemato a vantaggio di quella elettronica. Resta comunque un compagno prezioso.

Ancora sul pianoforte. I pianisti possono ripensare, rinnovandolo, il loro ruolo di interpreti?
Nel lavoro gomito a gomito con i compositori, con reciproco scambio di idee, ipotizzo il futuro per i pianisti. Conosco naturalmente molti pianisti, fra i quali innanzitutto Maurizio Pollini che è un grandissimo pianista calato nei valori della musica d'oggi. I grandi virtuosi della tastiera non mi interessano affatto...
alors je vous remercie beaucoup, vous en savez maintenant, sur tout, sur moi aussi.



1 commento:

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    Che Dio vi benedica.

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