Dall'aggressione russa in Ucraina alla dottrina Trump, passando per quel che accade a Gaza, il diritto internazionale è sotto attacco. I giuristi: bisogna resistere ai disegni dei padroni del mondo
La sede della Corte penale internazionale, nel mirino degli Usa di Trump

La sede della Corte penale internazionale, nel mirino degli Usa di Trump - ImagoEconomica

 
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Nel tempo della guerra e della forza, gli uomini al comando dispongono e decidono, mentre gli altri si adeguano, sperando di limitare i danni. Sembra essere questo lo scenario con cui fare i conti, in una tremenda accelerazione mondiale partita con l’aggressione della Russia all’Ucraina nel febbraio 2022 e proseguita il 7 ottobre 2023 con il pogrom di Hamas e la successiva, smisurata vendetta di Israele su Gaza. Anche nella definizione di possibili tregue e cessate il fuoco, la legge del più forte vince a mani basse. Sessanta giorni di “dottrina Trump” in materia sono lì a dimostrarlo: se va bene, si decide tutto tra lo Studio ovale, Mar-a-Lago e i caminetti convocati via via in “Paesi sicuri”. Viene meno tutto il resto, a partire dal rispetto del diritto internazionale. Non solo: l’offensiva della Casa Bianca nei confronti di istituzioni come la Corte penale internazionale e l’Oms, la decisione di Washington di uscire dagli accordi sul clima di Parigi e l’insofferenza mostrata verso soggetti come l’Onu e la stessa Nato dimostrano che non siamo in presenza di colpi di testa del tycoon, ma di una vera e propria strategia. Qual è l’obiettivo? E quali sono i rischi? L impressione è che per le due grandi superpotenze più una (Usa e Cina, più la Russia) da cui dipende una parte dell’assetto mondiale, si debba procedere a un progressivo riallineamento del sistema politico e diplomatico, dopo una fase di disordine internazionale che ha messo in crisi soprattutto il quarto attore-chiave, l’Europa. Il tutto deve avvenire a partire da un principio base: esistono gli Stati, che possono fare e disfare a loro piacimento, come se intorno a essi non ci fosse nulla. La regolazione dei rapporti tra gli Stati pare prescindere da entità sovranazionali, in una prospettiva di disintermediazione sorprendente: il pallino è in mano ai singoli leader, che si mostrano all’opinione pubblica dotati di superpoteri, compresi quelli di provocare le guerre o decretarne la fine. Eppure le norme internazionali non sono cambiate, dal divieto all’uso della forza come strumento di risoluzione delle controversie internazionali (con le eccezioni previste espressamente dalla Carta delle Nazioni Unite, quali la legittima difesa e il sistema di sicurezza collettiva) al perseguimento di coloro che sono ricercati per crimini internazionali contro l’umanità. «Attraversiamo una fase storica che chiede alle democrazie di resistere su quelle leggi e su quei principi che le hanno ispirate» spiega Chiara Ragni, ordinario di Diritto internazionale all’Università degli Studi di Milano. Una resistenza che va attuata a partire dal legame di cooperazione e mutuo riconoscimento alla base di soggetti come la Corte penale internazionale, che in questi giorni è tornata a far parlare di sé con l’arresto di Rodrigo Duterte, già presidente delle Filippine, accusato di essere responsabile di migliaia di stupri, torture e omicidi commessi da persone sotto il suo comando. Un caso “eccellen-te”, che dimostra semmai ce ne fosse stato bisogno, la necessità e la centralità della Cpi, messa pesantemente nel mirino a febbraio dagli Usa. «È il segnale che il diritto internazionale funziona e non è affatto cambiato. Non è in atto alcuna ridefinizione. Semmai – osserva Edoardo Greppi, professore di Diritto internazionale all’Università di Torino – si sta verificando un processo più subdolo di delegittimazione delle autorità internazionali. Di questo passo, saranno proprio gli obblighi internazionali tra gli Stati a poter essere violati non nella forma, ma nella sostanza». Seguendo questo schema, ad esempio, si continua a tollerare il fatto che leader come Vladimir Putin possano essere accolti senza problemi in Paesi che pure hanno sottoscritto il Trattato di Roma e hanno riconosciuto la Cpi: è accaduto in Mongolia, recentemente. Nel frattempo, l’appello dell’Onu con cui 79 Paesi (esclusa l’Italia) si sono espressi contro le sanzioni annunciate da Washington ai danni di giudici e funzionari dell’Aja, dimostra che esiste una mobilitazione ostinata e contraria all’annacquamento degli accordi, in ossequio alla volontà del potente di turno. « L’ordinamento internazionale si regge su un principio – spiega Greppi –: è il principio pacta sunt servanda, i patti devono essere rispettati. Il diritto internazionale non cambia, è semmai la politica ad esser cambiata. E ciò a cui stiamo assistendo non è la débâcle del diritto, ma della politica». È quello che Luca Masera, docente di Diritto penale all’Università di Brescia, definisce come «il riemergere della politica di potenza pura, che fa da cornice a qualsiasi relazione internazionale, e che finisce per considerare l’esistenza di regole alla stregua di un orpello. Ma se viene meno l’architettura del diritto, rischia di venir giù tutto il sistema». Poi, certo, ci sono differenze tra Stati Uniti ed Europa: nel primo caso la struttura istituzionale è più semplice e a far da contraltare alla Casa Bianca ci sono solo il Congresso e la Corte Suprema, mentre nel Vecchio continente i contrappesi sono più numerosi e la mancanza di una configurazione politica unitaria rende tutto più controllabile (e farraginoso). Sullo sfondo, infine, c’è lo stato di salute delle democrazie occidentali oggi. A cosa servono, sembrano chiedersi i nuovi padroni del mondo, trattati e istituzioni, se l’unica fonte di legittimità per i governi è il consenso popolare? C’è dunque un problema culturale in radice ed è «su questo piano che le categorie del diritto sono sotto attacco – continua il giurista -. A non interessare sembra essere il concetto stesso di limitazione del potere, con il riconoscimento innanzitutto delle istituzioni di garanzia e di controllo». Se si parla di violazione delle norme in atto, il riferimento non è solo alle guerre combattute sul terreno, dove pare sfumare anche la distinzione tra Paese aggredito e Paese aggressore. Basta pensare a un nuovo tipo di guerre, quelle commerciali, condotte a colpi di dazi (e di annunci). La fine della globalizzazione e la riscrittura dei rapporti bilaterali anche in chiave economica porterà anche al ripensamento di soggetti come la Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio? È un punto molto sensibile, su cui anche i mercati finanziari hanno dato segnali di forte nervosismo sulle due sponde dell’Oceano, mentre viene sottovalutata ancora una volta la portata neocolonialista dei cambiamenti in atto. Nessuno lo dice, ma c’è un incubo che ha assalito in queste settimane storici e giuristi: è il fatto che la riscrittura dell’ordine mondiale avvenga sempre e soltanto dopo un grande conflitto. È uno scenario sciagurato, da scongiurare subito, capovolgendo semmai la prospettiva. Anche la guerra, per chi si occupa di diritto penale internazionale, si può giudicare e gli strumenti non mancano. Le difficoltà di questo momento storico sono evidenti a tutti, ma l’impunità non può essere garantita da nessuno.