C’è ancora qualcuno che definisce Elon Musk un genio? Forse il suo discusso consulente Andrea Stroppa, in Italia, è rimasto l’unico. Stroppa sembra instancabile nella sua petulante attività di lobbying per convincere le istituzioni italiane a usare Starlink come infrastruttura nazionale digitale; rimbecca con sarcasmo chi critica il sistema satellitare statunitense perché ne vede i rischi per la sovranità e la sicurezza nazionale: dice che «l’Italia che rifiuta Starlink resta indietro». Ma il tema vero è il modo in cui Musk sta inesorabilmente distruggendo sempre di più la propria immagine pubblica, come un ragazzino che non riesce a contenere gli scatti d’ira. E l’ultimo esempio dell’attacco isterico e scomposto contro l’Unione europea è lì a dimostrarlo.
L’Ue, la svastica nazista e i meme da scuola elementare
Elon a inizio dicembre ha reagito sguaiatamente alla multa di 120 milioni di euro imposta dalla Commissione europea alla sua piattaforma X per presunte violazioni del Digital Services Act, una normativa che impone trasparenza su pubblicità, dati e verifica degli account. In risposta, Musk ha “twittato” su X messaggi in cui sostiene che «l’Ue dovrebbe essere abolita e la sovranità restituita ai singoli Stati», accusando l’Unione di essere una burocrazia antidemocratica e ostile all’innovazione tecnologica. È arrivato poi a smantellare lo spazio pubblicitario utilizzato dalla Commissione su X, prima di condividere addirittura l’immagine di una svastica nazista che spunta sotto la bandiera europea, con tanto di commento “il Quarto Reich“.
Non pago, nei giorni successivi ha pubblicato dei “meme” in cui i Paesi dell’Europa venivano rappresentati come belle ragazze, mentre l’Ue era associata a un uomo con trucco pesante e parrucca da donna. Livello di maturità del dibattito: scuola elementare.
Bruxelles ha definito le sue affermazioni «pazze», ma alcuni politici europei le hanno prese sul serio, condannandole come un attacco alle istituzioni comunitarie. Stroppa pare affranto: Musk ormai nel mondo ha la stessa credibilità che Matteo Salvini ha in Italia. Difenderlo è una missione quasi impossibile.
L’immaginario collettivo lo aveva elevato al rango di genio moderno
E pensare che per qualche tempo (non un periodo lunghissimo a dire il vero: che Musk fosse sostanzialmente una bufala i più svegli lo avevano capito subito) l’immaginario collettivo aveva elevato quest’uomo al rango di genio moderno: colui che lanciava razzi, reinventava l’automobile e aumentava la democrazia digitale. Oggi quel racconto si è malinconicamente incrinato. Nei grandi dossier della stampa americana e nelle inchieste internazionali, l’immagine mitologica del capo salvifico si incrina davanti a una contabilità più prosaica: promesse non mantenute, scelte aziendali avventate e una governance fatta più di colpi d’impulso che di strategia sostenibile.
La metamorfosi di Twitter e l’azzardata scure dei licenziamenti
Il caso più paradigmatico è l’acquisizione di Twitter (ora X). La metamorfosi del social network è stata accompagnata da licenziamenti di massa – migliaia di addetti – e da una gestione che la maggior parte dei commentatori americani ha definito più ideologica che manageriale. Nei mesi successivi alle grandi ondate di tagli, fonti autorevoli hanno documentato che l’azienda stessa ha avviato richieste di richiamo per alcuni ex dipendenti, costretta a riassumere alcuni dei cacciati per ricostruire competenze e operatività perdute. La mappa degli esuberi, delle riammissioni e delle riorganizzazioni è frammentata ma significativa: non si tratta soltanto di numeri, ma di funzioni vitali – moderazione dei contenuti, vendite pubblicitarie, ingegneria – che sono state depauperate in modo brusco da Musk che si era svegliato male una mattina.
Fuga degli inserzionisti da X ed emorragia di ricavi
Intanto decine di suoi profili falsi su X continuano a reiterare la tragica domanda: «Cosa ne pensate se chiamiamo X di nuovo Twitter?». Sono thread virali di utenti che si divertono a sbeffeggiare l’assurdità del rebranding, voluto da Musk, di un social che tutti continuano a chiamare Twitter, mentre il verbo «twittare» (è l’unico social che aveva, anzi ha, un verbo apposito come sinonimo di «postare») non c’è verso di sradicarlo. L’effetto di questa confusione sul modello di business non si è fatto attendere. Inserzionisti e partner hanno progressivamente ritirato investimenti pubblicitari o richiesto garanzie, determinando un’emorragia di ricavi che ha messo in discussione la sostenibilità immediata della piattaforma.
Smontata la retorica dell’ex genio: le ambizioni tecnologiche non bastano
Cronache finanziarie e analisi quotidiane hanno mostrato come la retorica della libertà di parola sia stata pagata a caro prezzo sul piano commerciale: meno inserzioni, più incertezza normativa e reputazionale. Questa discrepanza fra narrazione e pratica – il visionario che progetta il futuro sostituito dall’operatore che svende asset, taglia personale e deve poi ricollocare – ha prodotto un nutrito gruppo di osservatori sarcastici: Musk viene criticato per aver trasformato la leadership in un atto performativo, dove l’annuncio sostituisce il progetto a lungo termine. Editoriali autorevoli, dal New York Times al Washington Post, hanno smontato pezzo per pezzo la retorica dell’ex genio: le grandi ambizioni tecnologiche non bastano, se la gestione quotidiana mina la capacità di produrre valore stabile.
La bromance con Trump è andata in mille pezzi
La sfera politica non ha fatto che complicare il quadro. Il rapporto personale e pubblico fra Musk e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è andato in malora: dall’inclusione di Musk come consulente della Casa Bianca subito dopo l’elezione di Trump, fino alle reciproche critiche più recenti, da veri narcisisti patologici (chi se lo sarebbe mai aspettato?). La bromance (da “bro”: fratello, amico e “romance”: storia quasi sentimentale per intensità, attenzione reciproca e attestati di stima) è andata in pezzi, e ha finito per esporre le aziende di Musk a rischi politici concreti, dall’attenzione regolatoria alla minaccia di perdita di contratti e sussidi.
Il fallimento dell’esperimento Doge: «Non lo rifarei»
Recentemente la tensione è addirittura degenerata in attacchi pubblici e in minacce di taglio di sovvenzioni governative. E le persone che Musk ha licenziato quando era a capo del Doge, il Dipartimento per l’efficienza governativa che ha chiuso i battenti a fine novembre 2025, con otto mesi di anticipo, che fine hanno fatto? Il grande tagliatore di teste ha appena ammesso che «il Doge ha avuto un certo successo, ma non lo rifarei» e infatti, come per X, molte delle persone tagliate sono state richiamate a singhiozzo, pena la paralisi delle istituzioni.
La burocrazia, intesa come processi, controlli e sistemi di governance fondamentali per un’impresa complessa come uno Stato, non sembra migliorata: la stampa americana non fa che descrivere vuoti di responsabilità, scarsi controlli interni e una cultura che premia l’urgenza e la decisione istantanea rispetto alla pianificazione strutturata.
Un furbetto abile nell’abbindolare un pubblico qualunquista
L’eroe solitario, il demiurgo capace di fare tutto da sé, appare oggi sempre meno coerente e sempre più confuso. La stampa americana, con inchieste, editoriali e reportage, suggerisce una lettura alternativa di questo ex genio: quella del manager che, alla prova dei fatti, somiglia più a un furbetto abile nel capitalizzare l’immaginario di un pubblico qualunquista che a un pianificatore strategico in grado di governare rischi sistemici e risorse umane con continuità.
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