«It’s the economy, stupid!». La frase iconica coniata da James Carville, lo stratega elettorale di Bill Clinton nella campagna del 1992, torna oggi più attuale che mai. E, a forza di sconfitte, sembra essere la lezione che Donald Trump — il presidente che avrebbe dovuto occuparsi meno di geopolitica e più dei problemi quotidiani degli americani — sta iniziando a imparare. Un presidente che invece di concentrarsi sul costo della vita o sui salari stagnanti, passa le giornate tra improbabili mediazioni internazionali, bordate contro gli alleati e improbabili lezioni di geografia russa ai media. E sul fronte interno? O tace, o non trova il tempo.
I risultati si vedono. Da quando è tornato alla Casa Bianca, i repubblicani hanno incassato una serie di sconfitte: hanno perso la Virginia, il New Jersey (già democratico), e poi città simbolo come New York, Pittsburgh, Seattle, Santa Fé e, forse la più bruciante, Miami. La città repubblicana dal 1997 è passata a una candidata democratica, Eileen Higgins, che ha sconfitto lo sfidante appoggiato personalmente da Trump e dal governatore DeSantis.
I sondaggi registrano un malessere crescente per l’aumento del costo della vita — in buona parte legato ai sovrapprezzi generati dai dazi sulle merci straniere — e per la stagnazione del mercato del lavoro. Secondo l’ultima rilevazione Reuters-Ipsos, gli elettori statunitensi guardano con favore a politiche di accessibilità economica, aumento del salario minimo, controllo degli affitti e nuovi sussidi: temi che fino a ieri venivano etichettati come “progressisti”, ma che oggi raccolgono un consenso trasversale.
Trump, invece, continua a produrre guerre commerciali, a inseguire un improbabile Nobel per la Pace e a impartire lezioni di storia europea e di geografia degli oceani. L’ultimo dato sulla sua approvazione è impietoso: 38%. Significa che il 14% dei suoi stessi elettori oggi si sente tradito.
Nonostante ciò, molti analisti — più cheerleader che osservatori — continuano a rilanciare il mantra secondo cui “i democratici sono allo sbando”. È il proverbiale dito scambiato per la luna. Perché, in qualunque contesto, i democratici vincono: sia presentando un “socialista” a New York, sia una candidata conservatrice in Virginia. E se nulla cambierà, nelle midterm il governo rischia seriamente di perdere la maggioranza in entrambe le Camere.
Resta da capire quali potrebbero essere le conseguenze per la democrazia del grande paese di un Trump furioso di fronte a un simile scenario. E, soprattutto, come i democratici lavoreranno per il 2028, quando sulla scheda non ci sarà più il nome di Trump. Sono questi i veri nodi da analizzare per comprendere cosa accade nel mondo reale, provando a uscire dal circo mediatico autoreferenziale.

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