Sulla Venezianità - che si richiederebbe al Teatro La Fenice credo di essere più ferrato, perchè per oltre dieci anni mi sono anch'io posto il problema, occupandomi del Concerto di Capodanno, per il quale qualcuno aveva richiesto, oltre la sua italianità, una impronta veneziana - lo aveva fatto anche Cacciari, sindaco di Venezia. Come cioè dare al Concerto di Capodanno una impronta veneziana.
Tale problema addossato al Concerto televisivo era naturalmente di porta molto inferiore alla identità veneziana che si richiede, a ragione, al Teatro La Fenice, che una identità ce l'ha già scritta.
Per infinite ragioni che riguardano sia il grande repertorio - i capolavori che sono stati tenuti a battesimo a Venezia, La Traviata fra le prime - sia il teatro musicale di ogni tempo, visto che le origini del teatro pubblico affondano le loro radici proprio nei tanti teatri veneziani, dal Seicento in avanti. Intendiamo da Monteverdi a Vivaldi a Cavalli, tanto per fare alcuni dei nomi più risplendenti. Ma si può anche arrivare ai nostri giorni: quello che viene definito l'ultimo capolavoro operistico, e cioè La carriera del libertino di Stravinskij, alla Fenice ebbe il suo tormentato, avventuroso battesimo. E anche a Luigi Nono.
La Fenice, oltre il repertorio che non può certo trascurare, dovrebbe incaricarsi di riscoprire o rispolverare la vastissima letteratura operistica incardinata nella sua storia, potendo contare anche sulla presenza in laguna di istituti di ricerche e studio che possono darle una mano, non lasciando che tale lavoro sia frutto quasi esclusivo la volenterosa caparbietà di qualche studioso.
Un esempio clamoroso raccontato anche, in parte in un libro di memorie. Paolo Isotta smise di chiamare spregiativamente Ortombina, 'diplomato in trombone, solo dopo che questi aveva raccolto un suo suggerimento a riprendere Meyerber.
Tornando alla venezianità che potrebbe essere l'identità della sua programmazione, e riducendo il discorso al Concerto di Capodanno, lasciato nella mani incapaci di Ortombina dopo anni di gloriosa gestione 'quasi' comune, avevo proposto per dare al Concerto anche un 'profumo' di venezianità, di commissionare ogni anno ad un compositore noto ed abile e già provato in un simile lavoro, la riscrittura, senza fargli perdere i connotati originali di riconoscibilità, anzi esaltandoli, di un celebre brano del repertorio strumentale, a cominciare dalle famose e bistrattate Stagioni vivaldiane, tenendo presente la particolare durata dei singoli brani del concerto veneziano. Non se ne fece nulla perchè anche lì non si poteva programmare nulla da un anno all'altro, con quei dirigenti che c'erano ( Chiarot, Ortombina). Già era tanto se l'esperto Ortombina riusciva a trovare cantanti, direttore e a convenire con noi sul programma presentatogli in tempo, ancora a fine estate. C'era sempre qualche cantante che non voleva cantare questo o quel pezzo, la stessa cosa dicasi, ma in misura molto minore, di quale direttore. Ortombina, chissà per quale ragione, non sapeva mai imporre loro il programma da noi stilato con cura e logica. Quando poi Chiarot, di sua iniziativa, aveva commissionato a Battistelli un brano, da scrivere e poi situare in apertura di concerto e noi ci opponemmo non solo alla scelta (a scatola chiusa) ma soprattutto alla sua collocazione, la nostra collaborazione con la Fenice e soprattutto con Chiarot terminò. Avevo commesso un peccato gravissimo: lesa maestà. Comunque, sulla 'venezianità' ci siamo capiti.
Passando al Teatro di San Carlo, il più antico e più celebre dei nostri teatri, beh, a Napoli c'è solo l'imbarazzo della scelta. La sua identità non può prescindere dalla sua storia, che è poi anche la storia di buona parte del melodramma. Chi non ne fosse ancora convinto si legga le pagine mozartiane al riguardo, ma anche quelle dei numerosi viaggiatori - basti Burney - che dirigendosi a Napoli erano, a ragione, convinti, che andavano nella capitale assoluta della musica. Che aspettano perciò a cogliere questi suggerimenti, in cerca della propria identità? E qui mi fermo.
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