Non sono terre (sono in verità metalli) e non sono neppure così rare. Ma sono comunque fondamentali in decine di settori industriali, spesso a elevato tasso di innovazione. La decisione della Cina, annunciata il 4 aprile e ora operativa, di imporre restrizioni all’esportazione delle terre rare rischia di provocare un altro choc nelle catene di approvvigionamento globali.
Pechino richiede licenze speciali per l’export di sette terre rare pesanti, una sottofamiglia che comprende quelle con numero atomico più alto. Si tratta di samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio. Il rilascio dei lasciapassare va a rilento e il risultato, di fatto, è il blocco delle spedizioni. La dipendenza dell’Occidente da questi minerali viene esposta in maniera brutale.
A essere impattati sono settori chiave come l’automotive, l’industria della difesa e le tecnologie per la transizione green. Quanto possono resistere senza questi metalli? «Le terre rare sono usate in tantissimi ambiti: elettronica di consumo, fibre ottiche, laser, sensori, display, catalizzatori, magneti permanenti, superconduttori, componenti di veicoli ibridi. Ne rimane fuori poco del mondo tecnologico di oggi. Per questo un blocco totale delle esportazioni sarebbe un’arma nucleare dal punto di vista economico, un’arma di ultima istanza» dice Giuliano Noci, professore ordinario al Politecnico di Milano e prorettore del Polo territoriale cinese dal 2011.
Le terre rare sono il vero cuore invisibile della tecnologia moderna e la loro lavorazione è particolarmente complessa. «La loro estrazione è estremamente inquinante: per ogni tonnellata di terre rare si producono circa 2.000 tonnellate di scorie tossiche», spiega Noci. Questo è uno dei segreti dietro al dominio cinese nel settore, frutto di decenni di politica industriale strategica, di investimenti mirati e di vantaggi competitivi legati alla volontà di sopportare i pesanti costi ambientali.
Le cifre del 2024 sono eloquenti: la Cina controlla circa il 70% dell’estrazione mineraria globale (con una produzione stimata di 270.000 tonnellate di su un totale mondiale di 390.000). Gli Stati Uniti, secondi produttori, estraggono 45.000 tonnellate, seguiti da Australia e Birmania. Ma il vero collo di bottiglia, e fonte del potere cinese, è la fase di lavorazione e raffinazione. Pechino controlla quasi il 90% della capacità globale. Questo dominio è praticamente totale (99.9%) per le terre rare pesanti, come disprosio e terbio: anche i minerali estratti altrove vengono spesso spediti in Cina per la raffinazione finale. Lo stop all’export si concentra come detto proprio su quelle pesanti, utilizzate nei cosiddetti magneti permanenti.
«Le terre rare hanno proprietà magnetiche uniche e imbattibili – spiega Nicola Armaroli, chimico e dirigente di ricerca presso il Cnr -. Non è possibile sostituirle facilmente, ad esempio, nell’automotive, dove sono impiegate nei veicoli elettrici che utilizzano motori a magneti permanenti, che non sono tutti ma circa il 70-80% del totale».
Altri settori a rischio? «Tutti quelli più avanzati e a maggior valore aggiunto: tecnologie pulite come turbine eoliche, ma anche aerospazio e difesa per sistemi radar, sonar e missili guidati — spiega Giuliano Noci —. Noi siamo totalmente dipendenti dalla Cina perché mentre l’Occidente cercava petrolio, loro 20 anni fa stringevano accordi per i giacimenti di terre rare. Hanno visto più lontano».
Quanto possono reggere gli Stati Uniti e la stessa Europa se messe di fronte un embargo pressoché totale? Difficile valutare, anche per gli addetti ai lavori, il totale delle scorte occidentali, perché molte aziende non le dichiarano. Molte imprese americane ed europee, per ottimizzare i costi, comunque operano con magazzini minimi. «Gli Stati Uniti hanno la miniera di Mountain Pass in California che 30 anni fa era la più grande del mondo. Ma comunque non ha il suo prodotto principale nelle terre rare pesanti, benché stiano provando ad accelerarne la produzione. Quelle pesanti sono state inserite anche dall’Europa nell’elenco dei materiali strategici, essenziali per l’industria, la difesa, la transizione digitale e quella verde» spiega Nicola Armaroli evidenziando il punto critico del problema.
Il Vecchio Continente sconta decisioni lontane nel tempo. «Storicamente le terre rare sono state scoperte in Europa — aggiunge Armaroli —. In Scandinavia in particolare, basti pensare a nomi come scandio o terbio, itterbio, ittrio ed erbio, tutti legati alla miniera di Ytterby in Svezia. Tutti separati in Europa perché la chimica si faceva qui. Poi cent’anni fa abbiamo deciso che l’estrazione mineraria andava fatta altrove, nelle colonie». In Scandinavia e anche in Serbia esistono riserve già individuate, ma trasformarle in miniere attive è un processo lungo, decennale, e richiede ripensamenti dolorosi.
«Per l’Occidente sarà una durissima presa di realtà: se vogliamo questo livello di progresso tecnologico, dobbiamo accettare di inquinare anche noi per produrre queste materie» chiosa Giuliano Noci. E il riciclo? Anche qui Armaroli ci riporta coi piedi per terra: «È molto difficile recuperare i pochi milligrammi di terre rare usati nei dispositivi elettronici, a differenza, ad esempio, dei chilogrammi di litio in una batteria. Avviare una filiera di riciclo è complesso, richiede grandi investimenti e tempi lunghi».
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