L' Anno europeo della musica è intitolato a Johann Sebastian Bach, a Georg Friedrich Haendel e Domenico Scarlatti (per fermarci alle occasioni più ghiotte); ma è soprattutto a Bach che rivolgeremo deferenti pensieri. Degli altri due, Haendel incappò nella censura adorniana ("Sappiamo bene che Haendel non è Bach": e l' insegnamento valse come invito a trascurarlo, e lo trascurammo); Scarlatti venne relegato nella pratica delle Tre Sonate Tre per aprire i concerti pianistici (dopo venivano le cose importanti), ciò che lo degradò a ruolo di rompighiaccio, senza che si intraveda una vera possibilità di recupero. Dunque Bach è l' unico dei tre ad avere una diffusione costante.

Ma c'è veramente una cultura bachiana che vada oltre la venerazione di un feticcio? Le chiese abbondano di echi bachiani, le discoteche private raccolgono Passioni e Cantate, Concerti e Partite; ma Bach continua a essere un autore noto soltanto per pochissime - e non le più alte - pagine. Se la bibliografia e la discografia possono valere come spie di conoscenza diffusa, c'è poco da stare allegri; la quantità e qualità dei titoli, in entrambi i casi, non suggerisce l'immagine del maggior genio (come qualche volta è stato detto, e non ingiustamente) della storia musicale.

Quanto all'altra spia, le stagioni concertistiche, è ben raro poter ascoltare i veri grandi monumenti bachiani: l'Offerta musicale, l'Arte della fuga, le Variazioni Goldberg; raro ascoltare le Cantate sacre, rarissimo quelle profane. Resta, certo, la miniera dei Brandeburghesi, delle Passioni, delle Sonate e Partite rapportate a questo o quel genio dell'arco; ma l'enorme produzione rimane infrequentata. In fondo è sempre stato così. Bach ha avuto nella storia solo la comprensione dei tecnici, i quali gli hanno assicurato una stabile, ma molto discreta, diffusione.

Il pubblico è rimasto sempre fuori dall'esperienza bachiana; e quando ci è entrato, è stato più in virtù di trascrizioni, elaborazioni, utilizzazioni a vario titolo, che non per esperienza diretta. Non c' è musicista, dal Classicismo a oggi, che non si sia soffermato sull'opera di Johann Sebastian abbeverandosene a lungo; ci sono anzi musicisti (come Chopin o Schumann) che mostrano nell'opera loro in quale momento hanno scoperto e tesaurizzato l'opera bachiana. Ma è stato un rapporto privato, l' aspetto pubblico di Bach limitandosi allo sfruttamento delle opere didattiche. Che è un fatto importante, ma anche un passo doloroso, se si pensa per esempio all'uso che viene fatto del Clavicembalo ben temperato nelle scuole di musica: non molto diverso da quello che si fa col Bona (manuale di solfeggio) o con l' Hanon (manuale di tecnica pianistica). Non si sente suonare Bach, nelle scuole; si sentono mani che si arrampicano sulle fughe. E lo fanno perfino in maniera impropria, attribuendo a quelle fughe le caratteristiche di uno sviluppo tematico tipico del Classicismo; per cui non c' è entrata di voce che non sia segnalata da adeguato rinforzo di suono, come a celebrare ritorni di materiali tematici.

Ciò facendo si neutralizza proprio la finalità prima della fuga, che è quella di mostrare quali piacevolissimi intrichi polifonici si possano realizzare con materiali adatti (che possono essere, naturalmente, anche "non belli" in senso classico). Ci si rivolge alle fughe per sfruttarne al massimo l'aspetto didattico, nel senso di una digitazione formativa utile per ben altre imprese pianistiche. Quanto ai Preludi che precedono le fughe (una straordinaria raccolta di avventure musicali), essi appaiono inciampi obbligati per giungere all'esercizio utile. Esistono, nei programmi di diploma del nostro Conservatorio, alcune pagine di Bach utilizzabili in alternativa a certe Sonate di Beethoven: a patto di devitaminizzarle e immergerle in formalina come prassi vuole, e soprattutto a patto di mimare convenientemente il cembalo col pianoforte. Che è poi un aspetto del più generale problema del timbro in cui calare, oggi, e non solo sul piano didattico ma anche su quello concertistico, l' esecuzione delle opere di Bach.

Certo, è possibile suonare le pagine clavicembalistiche sul pianoforte, purché si sfruttino le risorse dello strumento moderno per mettere in luce certe caratteristiche espressive della musica bachiana nel momento in cui si rinuncia ad altre. La stessa destinazione di molte pagine al Klavier, tastiera, anzi che al clavicordo o al clavicembalo o al fortepiano (che comunque Bach conobbe e finì con l' apprezzare) consente di ottenere esecuzioni al pianoforte; le quali, fatta salva la realizzazione di ciò che è scritto, dovrebbero cavarne anche diverse suggestioni.

La sostituzione del cembalo col pianoforte sembra invece più difficile nei lavori cameristici, col violino o col flauto; perché in tal caso i rapporti timbrici vengono fatalmente mutati e compromessi. Il caso non è specioso. Basti pensare alle esecuzioni, anche a quelle in molti sensi rivelatrici, che ci hanno proposto un Bach del tutto inattendibile. Perfino Furtwn- gler, in una grande lettura della Matthauspassion, compie soprusi di ogni genere, a cominciare dalla soppressione di un terzo circa della partitura, per finire alla radicale alterazione del timbro. E sarà un caso se i maggiori direttori di oggi non eseguono Bach?

Lo esegue poco (e male) Karajan, poco Maazel, pochissimo Abbado, niente Bernstein, poco o niente Muti e Giulini, niente del tutto Kleiber. E comunque sempre con organici pletorici e tecnica esecutiva moderna. Pure, in assenza di esecuzioni filologiche (e di pensiero filologico), la formazione di tutti i musicisti moderni è passata attraverso mediazioni strumentali, se non attraverso trascrizioni, delle opere di Bach. E non senza frutti. Ma quei frutti, non per caso, sono stati sempre rivolti all'impareggiabile maestro di contrappunto, non all'illimitata fantasia creativa che da quella maestria contrappuntistica partiva per realizzare anche poesia di suoni. Ma allora, se Bach non è stato spiegato dai musicisti, da chi è stato sollevato ai vertici della "fruizione" d' oggi?

Paradossalmente, dai musicisti non accademici: dai Swingle Singers, che davano di Bach un' immagine alterata, anche se di indubbio lusso timbrico, puntellata da batterie e bassi elettrici, confezionata sullo standard dei 45 giri (che poi chiudessero l' esecuzione in una rigida gabbia ritmica è altra cosa: non inutile, tuttavia, per mostrare come molto Bach respirasse col ritmo della respirazione, pulsasse sul ritmo del battito cardiaco: fonte non trascurabile di facile, consolante fruizione). E anche da chi, come Pasolini, lo utilizzò in colonne sonore che opponevano il massimo della brutalità al massimo della spiritualità. E anche da alcuni esecutori indifferenti alle regole accademiche, che accettarono di apparire irregolari pur di non castrare le pagine predilette: i Casals, le Landowska, gli Heifetz, i Gould. Siamo in grado, oggi, di festeggiare Bach in modo degno? Quantitativamente, sì; qualitativamente, con ogni probabilità, no. Continueremo a farne un uso improprio, per chissà quanto tempo ancora, perché i vizi esecutivi richiedono tempi lunghi per essere assorbiti e perché il gusto del pubblico chiede tempi lunghissimi per essere modificato.

Tuttavia, anche annaspando nella fruizione impropria, saremo sicuramente raggiunti da una tale quantità di proposte da costringerci a dilatare l' orizzonte della attuale conoscenza di Bach. E chissà che non possa apparire chiara la necessità di una autentica chiave di lettura, in grado, se non di recuperare gli errori del passato, di suggerire una maniera degna per leggerlo in futuro.