Quelle azioni dimostrative erano, apparentemente, dettate dall’imperativo di difendere la nostra grande tradizione musicale. Quale? Quella dei nostri grandi compositori richiesti ed apprezzati nel mondo, quella dei nostri bravissimi interpreti, vanto un tempo della nostra scuola musicale, oggi un po’ meno, ma pur sempre capace di accudire talenti che non mancano, esattamente come non mancano in tante altre categorie – l’affermazione internazionale di molti di loro, riuniti sotto l’etichetta di ‘cervelli ‘in fuga’, sta a dimostrarlo.
Ma, intanto, che fine hanno fatto tutti i nostri ottimi compositori, i nostri bravi interpreti? Un paio di esempi lo chiariranno.
Risparmiamo al lettore i nomi di direttori e solisti (vocali e strumentali) impegnati nelle due stagioni sinfoniche più prestigiose del nostro paese: l’Accademia di Santa Cecilia a Roma e l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, con sede a Torino, della quale ultima, nel numero precedente di Music@, abbiamo fornito l’inimmaginabile elenco: italiani, solo un paio di direttori e neanche un solista. Santa Cecilia per la stagione appena iniziata non è da meno. Diranno che gli italiani sono presenti; sì, le prime parti solistiche dell’orchestra - tutti bravissimi, senza dubbio!- ma ad essi si ricorre solo perché non si hanno i soldi per pagare solisti esterni. Perché non l’hanno fatto anche negli anni passati? E’ dal 2002 che quei bravissimi solisti siedono stabilmente nell’Orchestra ceciliana. Vanno a suonare altrove ma nella loro orchestra mai. O quasi.
Negli stessi giorni in cui venivano presentate le stagioni - con giusto anticipo! - sui giornali italiani imperversava la polemica attizzata dagli architetti francesi i quali lamentavano la loro bocciatura nei concorsi per le grandi opere in patria. E una archistar italiana, Fuksass, riportando il discorso in casa nostra, attribuiva al ‘provincialismo’ italiano - ora anche francese - una situazione analoga in campo architettonico. E, noi aggiungiamo, anche musicale.
Quale può essere la ragione profonda di tale evidente ed inammissibile assenza? La superiore bravura degli artisti stranieri; cioè a dire che gli stranieri sono sempre più bravi degli italiani? Tesi difficile, comunque, da difendere, ed ancor meno dopo che un giudice super partes, come Salvatore Accardo, ha difeso i giovani violinisti italiani, ritenendoli più bravi, più colti di tantissimi stranieri. E lui di violinisti nelle sue classi di perfezionamento ne ha visti passare tanti, forse tutti! Gli stranieri costituiscono, forse, un vantaggio per le casse delle nostre istituzioni musicali? Assolutamente no; anzi, è vero il contrario; con gli italiani si può forse trattare meglio, specie agitando il capestro della crisi terribile di questi anni. Ma allora, perché? C’entrano le agenzie internazionali, quelle più potenti che hanno artisti per ogni esigenza? Forse sì. Una delle ragioni andrebbe ricercata proprio nello strapotere delle agenzie, che in Italia - paese nel quale i cachets sono più alti che in tutto il resto del mondo - fanno il bello e cattivo tempo, vantando la rappresentanza di molti direttori d’orchestra che sono a capo di importanti istituzioni e che perciò possono contare sulle scritture anche di molti solisti - e nel campo del teatro d’opera l’influenza è ancora più evidente. I casi di alcuni agenti del passato e presenti che in Italia hanno trovato l’America, o il ‘Nuovo mondo nel Vecchio continente’, sono ben noti a tutti coloro che si occupano di organizzazione musicale, il che ci esime dal fare i loro nomi, tante altre volte fatti. Che ci siano interessi economici o di altro genere - musicisti di poco valore che hanno responsabilità artistiche potrebbero giovarsene, nella logica di scambi lontani dagli occhi attenti del proprio teatro d’azione - sì è spesso parlato, oggi come ieri; e qualche volta si è anche ipotizzato, a carico di grandi personalità dell’organizzazione musicale italiana, il loro cointeressamento nelle grandi agenzie internazionali, a livello societario, magari attraverso prestanomi di comodo. Certo se anche non è vero e non si può dimostrare, il sospetto viene.
C’è anche qualche altra ragione? Sicuramente, e forse più d’una. Ma prima di qualunque altra l’incapacità di molti (troppi!) direttori artistici di giudicare un solista o un direttore attraverso audizioni. Non è un accusa, è semplice constatazione. Chi non sa discernere una voce da un’altra, e la sua idoneità a sostenere un ruolo, come può fare il mestiere di direttore artistico? Per questo ricorre all’agenzia, la quale è ben felice della situazione in cui versano molte istituzioni musicali che hanno a capo persone incapaci, ai quali prestare soccorso con le loro proposte che fanno gli interessi degli artisti ed anche quelli propri, ossia delle agenzie. Queste non sono farneticazioni. Quante volte leggiamo, perfino nei resoconti giornalistici di colleghi che hanno anche rapporti di lavoro con le stesse istituzioni, che il cast di questa o quell’opera non era all’altezza, che non era stato scelto come si doveva. E per dirlo loro, che poi sono stipendiati dalle istituzioni, vuol dire che non potevano farne a meno, per non essere lapidati nella pubblica piazza. Con questo si spiega come mai alcuni direttori artistici gestiscano contemporaneamente più istituzioni: queste possono fregiarsi di un nome altisonante al loro vertice, ed i direttori artistici, facenti funzione, offrire un ventaglio ancora più ampio alle agenzie che gestiscono a tutti gli effetti tali istituzioni.
Chi qualche volta ha tentato di porre tale problema ed avanzato la necessità di risolverlo, a livello ministeriale, è stato accusato di voler incatenare la libertà del direttore artistico. Vero? No, quella proposta voleva solo liberare numerosi direttori artistici dalle catene della loro incapacità e della inevitabile schiavitù nei confronti delle agenzie.
Ancora oggi la musica in Italia esiste, perché ci sono i finanziamenti pubblici, senza i quali - assenti quasi del tutto quelli privati - il sistema collasserebbe. Allora il Ministero, le cui commissioni centrali ‘consultive’ offrono pareri al Ministro sulla distribuzione dei finanziamenti, potrebbero introdurre il parametro ‘artisti italiani’, come elemento incentivante per la determinazione dei finanziamenti medesimi. Non per favorire gli inetti, semplicemente per non assistere più all’indecente spettacolo di vedere intere stagioni costruite esclusivamente con artisti stranieri, mentre i nostri bussano invano alla porta o emigrano. Gli esempi dai quale ci siamo mossi, dell’Accademia di Santa Cecilia e dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, non traggano in inganno, facendo concludere che si tratta di casi isolati e casuali che variano da stagione a stagione. Sono esempi eclatanti, certamente i più eclatanti; ma basta dare un’occhiata anche a istituzioni meno blasonate ma ugualmente importanti per rendersi conto della esistenza di fatto di piccoli potentati, province dell’impero raggruppate a due o a tre, a capo delle quali esistono ufficialetti con l’ordine perentorio del generale che gli ha affidato tale missione, di smistare sul territorio, quanto proposto dalle agenzie. Sempre loro, in assenza di direttori artistici capaci e dediti al loro lavoro.
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