«Prima di andare avanti, prova a rispondere a due domande. La prima: ci sono regole nelle negoziazioni? La risposta giusta è, no, nessuna. La seconda: è permesso mentire, barare, ingannare? Sì, certo, tutto è possibile». George Ross, uno degli uomini che meglio conosce Donald Trump essendo stato a lungo suo consulente legale, sintetizza così, in un libro del 2006, “Trump style negotiation”, le regole base delle tattiche negoziali apprese dal tycoon ai tempi della sua ascesa nel mercato immobiliare di New York. La pubblicazione, una raccolta di aneddoti sulle compravendite attraverso cui Trump ha costruito il suo impero tornata in auge in questi giorni, fornisce dettagli sulla personalità dell’allora imprenditore che aiutano a comprendere meglio quella dell’attuale presidente ovvero dell’uomo che non tratta più l’acquisto degli edifici più ambiti di Manhattan ma la Riviera a Gaza e la pace nel mondo. Ross parla del suo ex boss come di un personaggio «creativo, geniale, visionario e camaleontico» che, tuttavia, è spesso inciampato nella disattenzione verso i dettagli e, soprattutto, nell’impazienza. A suo dire, Trump, autore già nel 1987 di un testo su “L’arte dell’accordo”, è un negoziatore esperto, «capace di usare le parole giuste al momento giusto per trasformare un avversario in un partner». Motivato, questa è la chiave per capirlo meglio, «dall’ego, dal prestigio, dal riconoscimento pubblico e dalla soddisfazione personale» piuttosto che dalla ricchezza fine a sé stessa. Quest’ultimo concetto è stato ribadito anche da altri esperti in scienza delle negoziazioni. Thomas Kochan, accademico della Mit Sloan School of Management, sottolinea in un articolo del 2019 pubblicato sulla rivista "Negotiation Journal" che lo stile negoziale del leader repubblicano contempla la possibilità di piccole concessioni purché accompagnate da «sufficienti manifestazioni di deferenza che alimentano il suo ego». Il suo punto debole – sì, anche Trump ne ha diversi – è «cercare gratificazione emotiva piuttosto che vantaggi sostanziali». Il caso più clamoroso, spesso citato tra gli addetti ai lavori ad avvalorare questa analisi, è il caso della Carrier Corporation, l’azienda dell’Indiana che Trump, durante la campagna elettorale del 2016, aveva minacciato di sanzionare per evitare il trasferimento in Messico di una parte della produzione, ma che è riuscita a conquistarsi la simpatia del tycoon, oltre a un’inversione a “u” sulla stretta, mandando in tv un dirigente a dichiarare che di essere certo che il suo posto di lavoro sarebbe stato al sicuro con Trump come presidente. Trump è l’uomo che dissacra i protocolli, che risponde alle chiamate dei leader mondiali in ordine casuale mandando (inutilmente) in ansia le cancellerie intente a capire il perché, questo è successo quando ottenne il suo primo mandato, parla prima con Egitto, Arabia Saudita e Turchia e poi con il Regno Unito. In quella circostanza si racconta che, quando infine parlò con l’allora premier britannico, Theresa May, le chiese di avvisarlo se fosse capitata negli Stati Uniti invece che formalmente invitarla alla Casa Bianca. Secondo Dean Pruitt, studioso di analisi e risoluzione dei conflitti alla State University di New York, sono tattiche, così scriveva sei anni fa, anche gli «insulti ai leader mondiali e la messa in discussione dei trattati multilaterali». Copione visto e rivisto nelle ultime settimane da quando è tornato alla Casa Bianca. Resta il fatto, avvertono gli addetti ai lavori, che trattare con Vladimir Putin non è come acquistare un hotel.
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