martedì 31 dicembre 2024

Quirinale. Auguri di Mattarella per il Nuovo anno

 Care concittadine e cari concittadini,

questo nostro incontro tradizionale mi consente di rivolgere l’augurio più sincero a tutti voi, a chi si trova in Italia e agli italiani che sono all’estero.

Stiamo vivendo come ogni fine anno ore di attesa per un tempo nuovo che viene e che speriamo migliore.

Ore in cui cerchiamo la serenità rinsaldando i nostri rapporti. Nelle nostre comunità, nelle famiglie, nelle amicizie. Facciamo i nostri auguri e ne riceviamo. Non è soltanto un rito, è la dimostrazione della nostra natura più autentica, quella che ci chiama alla relazione con gli altri.

Lo facciamo, dobbiamo farlo tanto più in quanto viviamo momenti difficili. Quando migliaia di vittime civili delle guerre in corso turbano tragicamente le nostre coscienze.

Nella notte di Natale si è diffusa la notizia che a Gaza una bambina di pochi giorni è morta assiderata.

Nella stessa notte di Natale feroci bombardamenti russi hanno colpito le centrali di energia delle città dell’Ucraina per costringere quella popolazione civile al buio e al gelo.

Gli innocenti rapiti da Hamas, e tuttora ostaggi, vivono un secondo inizio di anno in condizioni disumane.

Queste forme di barbarie non risparmiano neppure il Natale e le festività più sentite. 

Eppure mai come adesso la pace grida la sua urgenza.

La pace che la nostra Costituzione indica come obiettivo irrinunziabile, che l’Italia ha sempre perseguito, anche con l’importante momento quest’anno della presidenza del G7. La pace di cui l’Unione Europea è storica espressione.

La pace che non significa sottomettersi alla prepotenza di chi aggredisce gli altri Paesi con le armi, ma la pace del rispetto dei diritti umani, la pace del diritto di ogni popolo alla libertà e alla dignità.

Perché è giusto. E - se questo motivo non fosse ritenuto sufficiente - perché è l’unica garanzia di una vera pace, evitando che vengano aggrediti altri Paesi d’Europa.

Questo è, quindi, il primo augurio che tutti ci rivolgiamo. Che il nuovo anno porti vera pace ovunque.

Interpreto, in queste ore, l’angoscia di tutti per la detenzione di Cecilia Sala. Le siamo vicini in attesa di rivederla al più presto in Italia.

Quanto avviene segnala ancora una volta il valore della libera informazione. Tanti giornalisti rischiano la vita per documentare quel che accade nelle sciagurate guerre ai confini dell’Europa, in Medio Oriente e altrove. Spesso pagano a caro prezzo il servizio che rendono alla comunità.

La notte di Natale Papa Francesco - cui invio auguri pieni di riconoscenza - ha aperto il Giubileo, facendo risuonare nel mondo il richiamo alla speranza.

Quelle di questa sera sono ore di speranza nel futuro, nell’anno che viene.

Tocca a noi saperla tradurre in realtà.

Cosa significa concretamente coltivare fiducia in un tempo segnato, oltre che dalle guerre, da squilibri, da conflitti?

Vi è bisogno di riorientare la convivenza, il modo di vivere insieme.

In questo periodo sembra che il mondo sia sottoposto a una allarmante forza centrifuga, capace di dividere, di allontanare, di radicalizzare le contrapposizioni.

Sono lacerate le pubbliche opinioni.

Faglie profonde attraversano le nostre società.

La realtà che viviamo ci presenta contraddizioni che generano smarrimento, sgomento, talvolta senso di impotenza.

A livello globale aumenta in modo esponenziale la ricchezza di pochissimi mentre si espande la povertà di tanti.

La crescita della spesa in armamenti, innescata nel mondo dall’aggressione della Russia all’Ucraina - che costringe anche noi a provvedere alla nostra difesa - ha toccato quest’anno la cifra record di 2.443 miliardi di dollari. Otto volte di più di quanto stanziato alla recente Cop 29, a Baku, per contrastare il cambiamento climatico, esigenza, questa, vitale per l’umanità. Una sconfortante sproporzione.

Luci e ombre riguardano anche la nostra Italia.

La scienza, la ricerca, le nuove tecnologie aprono possibilità inimmaginabili fino a poco tempo addietro per la cura di malattie ritenute inguaribili. Nello stesso tempo vi sono lunghe liste d’attesa per esami che, se tempestivi, possono salvare la vita. Numerose persone rinunciano alle cure e alle medicine perché prive dei mezzi necessari.

I dati dell’occupazione sono incoraggianti. Resistono tuttavia aree di precarietà, di salari bassi, di lavoratori in cassa iintegrazione.

L’export italiano registra dati positivi, e così il turismo. Segno che il Paese esercita una forza di attrazione, che va anche al di là delle sue bellezze naturali, delle sue città d’arte, della sua cultura.

Con questo aspetto confortante stride il fenomeno dei giovani che vanno a lavorare all’estero perché non trovano alternative, spesso dopo essersi laureati.

Tra Nord e Sud c’è una disuguale disponibilità di servizi. Continua il pericolo dell’abbandono delle aree interne e montane.

Colmare queste distanze. Assicurare un'effettiva pienezza di diritti è il nostro compito.

Il mutamento del clima incide decisamente anche sugli eventi meteo che subiamo in Italia: ne abbiamo ripetute testimonianze. Le alluvioni non possono più essere considerate fatti straordinari. Sono frequenti e vanno quindi prevenute con lungimiranza, rimuovendo le condizioni che provocano sciagure.

Un’attenzione particolare richiede il fenomeno della violenza. Tocca tutto il mondo ma diviene ancor più allarmante quando coinvolge i nostri ragazzi.

Bullismo, risse, uso di armi. Preoccupante diffondersi del consumo di alcool e di droghe, vecchie e nuove, anche tra i giovanissimi. Comportamenti purtroppo alimentati dal web che propone sovente modelli ispirati alla prepotenza, al successo facile, allo sballo.

I giovani sono la grande risorsa del nostro Paese. Possiamo contare sul loro entusiasmo, sulla loro forza creativa, sulla generosità che manifestano spesso. Abbiamo il dovere di ascoltare il loro disagio, di dare risposte concrete alle loro esigenze, alle loro aspirazioni.

La precarietà e l’incertezza che avvertono le giovani generazioni vanno affrontate con grande impegno anche perché vi risiede una causa rilevante della crisi delle nascite che stiamo vivendo.

Si intrecciano, quindi, straordinarie potenzialità e punti di debolezza da risolvere. Impegniamoci per una comune speranza che ci conduca con fiducia verso il futuro.

L’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani ha scelto, come parola dell’anno, “rispetto”.

Il rispetto verso gli altri rappresenta il primo passo per una società più accogliente, più rassicurante, più capace di umanità. Il primo passo sulla strada per il dialogo, la collaborazione, la solidarietà, elementi su cui poggia la nostra civiltà.

Rispetto della vita, della sicurezza di chi lavora. L’ultima tragedia pochi giorni fa, a Calenzano: cinque persone sono morte. Non possono più bastare parole di sdegno: occorre agire, con responsabilità e severità. Gli incidenti mortali - tutti - si possono e si devono prevenire.

Rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili.

Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario.

I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti.

La fine dell’anno è anche tempo di bilancio. Ho incontrato valori e comportamenti positivi e incoraggianti nel volto, nei gesti, nelle testimonianze di tanti nostri concittadini.

Li ho incontrati nel coraggio di chi ha saputo trasformare il suo dolore, causato da un evento della vita, in una missione per gli altri.

Li ho letti nelle parole di Sammy Basso che insegnano a vivere una vita piena, oltre ogni difficoltà.

Si trovano nel rumore delle ragazze e dei ragazzi che non intendono tacere di fronte allo scandalo dei femminicidi.

Siamo stati drammaticamente coinvolti nell’orrore per l’inaccettabile sorte di Giulia Cecchettin e, come lei, di tante altre donne uccise dalla barbarie di uomini che non rispettano la libertà e la dignità femminile e, in realtà, non rispettano neppure sé stessi.

Non vogliamo più dover parlare delle donne come vittime. Vogliamo e dobbiamo parlare della loro energia, del loro lavoro, del loro essere protagoniste.

Ho fatto riferimento ad alcuni esempi di persone che hanno scelto di operare per il bene comune perché è proprio questa trama di sentimenti, di valori, di tensione ideale quel che tiene assieme le nostre comunità e traduce in realtà quella speranza collettiva che insieme vogliamo costruire.

È questa medesima trama che ci consentirà di evitare quelle divaricazioni che lacerano le nostre società producendo un deserto di relazioni, un mondo abitato da tante solitudini.

Siamo tutti chiamati ad agire, rifuggendo da egoismo, rassegnazione o indifferenza.

Nella quotidiana esperienza di tanti nostri concittadini si manifesta un sentimento vivo, sempre attuale, dell’idea di Patria.

Mi ha colpito, di recente, l’entusiasmo degli allievi della nostra Marina militare, su nave Trieste, all’avvio del loro servizio per l’Italia e per i suoi valori costituzionali. Come stanno facendo in questo momento tanti nostri militari in diversi teatri operativi. A essi rinnovo la riconoscenza della Repubblica.

Patriottismo è quello dei medici dei pronto soccorso, che svolgono il loro servizio in condizioni difficili e talvolta rischiose. Quello dei nostri insegnanti che si dedicano con passione alla formazione dei giovani. Di chi fa impresa con responsabilità sociale e attenzione alla sicurezza. Di chi lavora con professionalità e coscienza. Di chi studia e si prepara alle responsabilità che avrà presto. Di chi si impegna nel volontariato. Degli anziani che assicurano sostegno alle loro famiglie.

È patriottismo quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità. È fondamentale creare percorsi di integrazione e di reciproca comprensione perché anche da questo dipende il futuro delle nostre società.

La sicurezza rimane una preoccupazione dei cittadini e massimo sostegno deve essere assicurato alle vittime dei reati.

Dal Rapporto Censis, sulla base di dati del Ministero dell’Interno, risulta che, dal 2013 al 2024, sono stati raggiunti risultati significativi sul fronte della prevenzione, con una forte riduzione degli omicidi volontari, delle rapine, dei furti nelle abitazioni.

Siamo grati alle Forze dell’Ordine, presidio della libertà dei cittadini, per il contributo decisivo che recano alla cornice di sicurezza in cui vive il nostro Paese.

Si affacciano nuovi odiosi fenomeni, a partire dalle truffe agli anziani, alle aggressioni via web ai ragazzi, alla violenza di strada, crimini contro i quali le Forze dell’Ordine sono fortemente impegnate.

Desidero rivolgere un saluto alle donne e agli uomini di sport in questo che è stato un anno olimpico e paralimpico. Ricordo le notti di Parigi, l’orgoglio dei nostri atleti attorno alla nostra bandiera. Sono a loro grato per i successi e ancor di più per l’autentico spirito sportivo con cui hanno vissuto la loro partecipazione: un bell’esempio, ben oltre i confini dello sport.

Nel 2025 celebreremo gli ottanta anni dalla Liberazione.

È fondamento della Repubblica e presupposto della Costituzione, che hanno consentito all’Italia di riallacciare i fili della sua storia e della sua unità.

Una ricorrenza importante. Reca con sé il richiamo alla liberazione da tutto ciò che ostacola libertà, democrazia, dedizione all’Italia, dignità di ciascuno, lavoro, giustizia.

Sono valori che animano la vita del nostro Paese, le attese delle persone, le nostre comunità. Si esprimono e si ricompongono attraverso l’ampia partecipazione dei cittadini al voto, che rafforza la democrazia; attraverso la positiva mediazione delle istituzioni verso il bene comune, il bene della Repubblica: è questo il compito alto che compete alla politica.

Siamo chiamati a consolidare e sviluppare le ragioni poste dalla Costituzione alla base della comunità nazionale. È un’impresa che si trasmette da una generazione all’altra.

Perché la speranza non può tradursi soltanto in attesa inoperosa.

La speranza siamo noi. Il nostro impegno. La nostra libertà. Le nostre scelte.

Buon anno a tutti!

 

Vienna.Concerto di Capodanno, su Rai 2. Muti: messaggio di fratellanza ( da Quotidiano.Net, di Stefano Marchetti). C'è anche il Concerto di Capodanno da Venezia, in diretta su Rai 1

 Vienna, 31 dicembre 2024 – È certamente il concerto più famoso del mondo e Riccardo Muti lo dirige per la settima volta, un record. “E sarà anche l’ultima – annuncia –. In realtà lo avevo detto anche nel 1993, quando ho condotto il primo. E sono arrivato a farlo sette volte, come i sette peccati capitali”, ride.


“Con il Maestro Muti noi abbiamo più che una relazione di amicizia: ci sentiamo una famiglia”, confida Daniel Froschauer, presidente dei Wiener Philharmoniker che nella sala d’oro del Musikverein si preparano ad accogliere il 2025 con il loro sfavillante Concerto di Capodanno che domattina sarà trasmesso da 93 stazioni tv in tutto il mondo (su Raidue in differita alle 13.30) e farà ballare perfino il Regno di Tonga in Polinesia che, con 13 fusi orari in più, lo vedrà ormai il 2 gennaio.

Non c’è Capodanno senza l’irresistibile volo di valzer e di polke da Vienna, un evento talmente iconico da essere entrato nella vita di tutti: c’è chi lo guardava con i nonni e oggi lo segue con i nipoti, e ogni anno milioni di persone partecipano al sorteggio per cercare di acquistare gli ambitissimi biglietti. Neppure il Covid ha fermato il concerto, anche se quattro anni fa, il 1° gennaio 2021, i Wiener lo tennero nella sala completamente vuota e sul podio c’era proprio Riccardo Muti: “Suonare valzer e terminare nel silenzio, senza quell’entusiasmo che a tutti noi arriva dal pubblico, fu veramente drammatico – ammette il Maestro –. Tuttavia potemmo farlo perché siamo convinti che la musica, allora come oggi, sia la vera medicina per l’anima, e lo dico senza retorica. La musica è armonia, bellezza, pace e gioia: è questo il messaggio che affidiamo a questo concerto”.

Riccardo Muti dirige i Wiener dal 1971 e li ha guidati in più di cinquecento serate: quest’anno con loro ha celebrato i due secoli della Nona sinfonia di Beethoven, poi li ha (ri)portati in Italia dove hanno anche aperto il Ravenna Festival. Con il concerto di Capodanno il Maestro ha l’onore di inaugurare le celebrazioni per i duecento anni dalla nascita di Johann Strauss figlio, l’autore del Bel Danubio blu e dell’operetta Il Pipistrello.

Il programma abbraccerà appunto brani di tutta la grande famiglia Strauss, come la Marcia della libertà composta da Strauss padre nel 1848, anno di grandi rivoluzioni, l’idillico valzer delle Rondini del villaggio dell’Austria di Josef Strauss, con tanto di vezzosi cinguettii, fino alla polka veloce Luftig und duftig (Arioso e profumato) di Eduard, altro fratello di Johann jr. Alcuni pezzi, come la Polka dei demolitori o il valzer Accelerazioni, entrambi di Strauss figlio, raccontano gli anni attorno al 1860 in cui Vienna cambiò volto, vennero abbattute le mura e nacque il Ring.

Ma il concerto farà conoscere anche compositori meno frequentati come Constanze Geiger che scrisse il suo Ferdinandus Waltz nel 1848, quando aveva soltanto dodici anni: è la prima volta che il Capodanno dei Wiener propone un brano di una donna: “Ma non l’ho scelto per una questione politica o per compiacere questioni di genere – tiene a precisare Muti – Ho deciso di dirigerlo perché è proprio un bel pezzo. Oltretutto Constanze Geiger ebbe una luminosa carriera: compose anche un lied per il baritono Felice Varesi, il prediletto di Giuseppe Verdi”.

Può sembrare musica lieve, “ma in realtà è tecnicamente molto impegnativa – ricorda il Maestro – In questi brani si uniscono la gioia e la malinconia che sono l’essenza di Vienna: se esageri, un valzer rischia di diventare una caricatura”. E che sia un italiano ad assumersi la responsabilità di portarla al mondo, è ancor più significativo: “Del resto, non penso che solo gli italiani possano dirigere Verdi o solo i tedeschi possano dirigere Beethoven – aggiunge Riccardo Muti – Fra la mia Napoli e Vienna ci sono tanti legami. All’epoca Napoli era l’unica città in Italia vera capitale di un regno, e basti ricordare che Maria Carolina d’Asburgo Lorena era figlia di Maria Teresa di Borbone”.

Muti vive questo concerto con un’energia e una passione incredibili. All’anteprima di ieri mattina lo abbiamo visto danzare sul podio, mentre sembrava ‘dialogare’ con i musicisti: la sua intesa con la splendida orchestra è lampante. E per il classico bis finale, con la Marcia di Radetzky (senza rullo di tamburi), Muti si è seduto fra i Wiener, provando a tenere a bada il tradizionale e irrefrenabile battito di mani del pubblico.

I giardinieri dei parchi di Vienna lavoreranno tutta notte per incorniciare la musica in un tripudio di anthurium, garofani e amaryllis, quest’anno tutti sulle sfumature del rosa, e in tv vedremo anche i danzatori del Wiener Staatsballet nelle stanze del Südbahnhotel di Semmering, grandioso albergo ferroviario di fine ‘800. “E una volta di più, la musica ci dimostrerà che siamo all brothers, tutti fratelli, intorno al mondo – conclude il Maestro – Ne abbiamo tanto bisogno”.

lunedì 30 dicembre 2024

L'Impero di Putin. 25 anni di dittatura in Russia (da La Stampa)

 Se la storia si potesse riavvolgere come un film, sarebbe avvincente tornare nel 31 dicembre 1999 – il giorno in cui i preparativi dei russi al cenone di Capodanno sono stati sconvolti dalla notizia che Boris Eltsin si era dimesso per cedere la poltrona a Vladimir Putin - e proiettare un filmato qualsiasi, a scelta, delle esternazioni del presidente russo degli ultimi mesi. Probabilmente sarebbe stato uno choc: innanzitutto vedere che l'uomo che il mondo aveva appena iniziato a conoscere come astro nascente del Cremlino sarebbe rimasto, un quarto di secolo dopo, ancora sulla sua poltrona, intenzionato a non lasciarla mai più. E poi, ascoltare quello che dice, quello che promette, quello di cui si vanta: il missile Oreshnik, per esempio, il suo nuovo gioco preferito, di cui decanta le potenzialità a ogni occasione, proponendo di lanciarlo su Kyiv per dimostrare che le difese antiaeree occidentali non riusciranno a intercettarlo.

C'è un abisso tra la Russia che nella notte di Capodanno ascoltava, in un misto di sollievo e stupore, il suo neopresidente, e quella di oggi. La promessa di garantire la «libertà di parola, di coscienza e dei media» oggi suonerebbe quasi come una presa in giro, l'auspicio di «democrazia e riforme» appartiene a un vocabolario politico mandato al macero. Il Putin esordiente sembrava a molti un leader prudente e razionale, applaudito per le sue riforme economiche e istituzionali, e trattato come un partner da molti colleghi internazionali. E per quanto era apparso evidente che il nuovo, all'epoca appena 47enne, presidente della Russia fosse sensibile alla retorica nazionalista e alla nostalgia sovietica, sembrava impossibile immaginarselo dopo 25 anni come un dittatore ossessionato dai missili, che sta efficacemente isolando il suo Paese dal resto del mondo in una paranoia militarista.

In mezzo tra questi due estremi, ci sono stati tanti passi, piccoli e grandi. Il primo fu la guerra in Cecenia, con le bombe su Grozny come presagio di quello che sarebbero poi diventate Aleppo e Mariupol. Fu in quei primi giorni che nacque il teorema politico più volte dimostrato in seguito: Putin beneficia sempre dalle guerre, e la guerra rimane il suo modo preferito di risolvere i problemi e affrontare gli avversari. Ci fu l'arresto degli oligarchi ribelli, con il processo a Mikhail Khodorkovsky che nel 2003 aveva segnato una rivoluzione che molti scambiarono per l'inizio di una lotta alla corruzione. In quell'occasione vennero brevettati due tratti tipici di quello che nessuno ancora chiamava “putinismo”: una giustizia che non voleva nemmeno fingersi uguale per tutti, e l'affidamento dei pezzi più gustosi dell'economia nazionale agli amici del presidente. Fu così che nacque il termine di “Kremlin Corporation”, e non è un caso che i dissidenti che avevano indagato la corruzione al Cremlino, come Boris Nemtsov e Alexey Navalny, sono stati uccisi.

È stata una discesa lenta verso l'abisso, sotto gli occhi di un Occidente che a volte quasi stentava a credere in quello che vedeva, come durante la guerra-lampo dell'agosto del 2008 contro la Georgia, che aveva segnato il ritorno ufficiale delle ambizioni imperiali russe nello spazio postsovietico. A molti era sembrato un incidente di percorso, in una Russia che almeno nelle sue grandi città sembrava avviarsi a una modernizzazione che da economica, tecnologica e logistica doveva diventare inevitabilmente anche politica. Quando nell'inverno 2011, in piazza Bolotnaya, scoppiarono le proteste contro i brogli elettorali, Putin aveva reso definitivamente regola un altro tratto del suo metodo: non abbassarsi mai al negoziato con chi sfida lo zar, non concedere nulla a chi contesta, perché il potere non si divide con nessuno, e il dialogo equivale a debolezza.

L'invasione dell'Ucraina, iniziata con l'annessione della Crimea nel 2014, e proseguita con la guerra totale nel 2022, a quel punto erano forse quasi inevitabilmente iscritte nella logica di un leader che si comportava come un monarca. La storia ovviamente non ha il condizionale, ed è vano interrogarsi su quanto il timido Putin degli esordi stesse già covando l'odio per gli ucraini e la convinzione che i problemi si risolvano meglio con le bombe. Quello che sappiamo con certezza è che mai, in questo percorso di un quarto di secolo, il dittatore russo è rimasto solo: è stata la sua promessa di «ammazzare i terroristi ceceni nel cesso» a farlo assurgere da funzionario semisconosciuto a idolo delle folle, ed è stata l'annessione della Crimea in nome della restaurazione dell'impero a portarlo al massimo dei consensi nei sondaggi. Una delle chiavi del successo di Putin è sempre stata quella di essere parte del suo popolo, con la stessa confusione ideologica che mischia la nostalgia per Stalin e per gli zar, con lo stesso orgoglio nazionalista alimentato da un profondo risentimento verso l'Europa, sognata quanto incomprensibile, con la spregiudicatezza verso le regole caratteristica degli orfani delle dittature. Sentimenti che Putin ha alimentato, e di cui si è alimentato. Avrebbe potuto entrare nella storia come modernizzatore della Russia postcomunista, e invece lascerà, un giorno, un Paese molto più lontano dall'Europa di quello che aveva raccolto, 25 anni fa.