Mostra documentaria e multimediale per il
bicentenario della nascita del grande musicista a
cura di Marco Guardo e Olga Jesurum.
Domandarsi se Verdi, il Peppino nazionale, amasse
Roma e, a sua volta, se ne fosse riamato non è inutile passatempo, specie dopo
la mostra allestita a Roma dall’Accademia dei Licei, inaugurata a dicembre e
che va avanti fino a marzo, a grande richiesta, come dicevano un tempo e dicono
tuttora, gli artisti itineranti dei Circhi.
Perché in quella preziosa mostra molti documenti, anche di prima mano,
offrono parecchi elementi per rispondere ad ambedue le domande, affatto oziose.
‘Verdi e
Roma’ è il titolo della mostra e non ‘Verdi a Roma’, che avrebbe voluto dire
semplicemente: allineare le presenze del grande musicista nella città eterna,
tutte comprese fra gli anni Quaranta e i
Novanta dell’Ottocento, dalla prima dei ‘Due Foscari’, al ricevimento della
cittadinanza romana, nel 1893, conferitagli dall’allora sindaco capitolino, il
principe Emanuele Ruspoli. In altra
occasione non s’era spostato nella Capitale, accampando l’età avanzata, ma al
principe Ruspoli, nonostante gli 80 anni, non aveva saputo e potuto dire di no,
anzi quella cittadinanza onoraria era
anche per il grande musicista un onore. Ci arrivò in treno.
Nel frattempo
Verdi era diventato famosissimo, le sue abitudini profondamente cambiate, come
cambiate erano anche le sue disponibilità economiche - dopo la ’Locanda di
Europa’, in piazza di Spagna, dove ‘vanno a fare il nido tutti gli stranieri’( Stendhal) ,aveva abitato
un appartamento in via di Campo Marzio
2, trovatogli, per richiesta del musicista, dallo scultore Vincenzo
Luccardi e, infine, all’Hotel Quirinale,
albergo modernissimo di recente costruzione, a due passi dal Teatro Costanzi,
dove vennero rappresentate le sue due
ultime opere (‘Otello’ e ‘Falstaff’) dopo che i
precedenti debutti s’erano avuti all’Argentina ( ‘I due Foscari’, ‘La
battaglia di Legnano’ ed al Teatro Apollo ( ‘Il trovatore’, Un ballo in
maschera’). Quest’ultimo teatro, dalla storia gloriosa, si trovava a Tor di
Nona, ma fu demolito nel 1889 per far
posto ai bastioni del Tevere che avrebbero dovuto proteggere dalle inondazioni
la Capitale.
Viene,
invece, da chiedersi perché proprio i Lincei
allestiscono una mostra su ‘Verdi e Roma’ e non il teatro dell’Opera o
l’Argentina o l’Accademia di Santa Cecilia, trattandosi di istituzioni di antichissima storia, tolta l’Opera - già
Teatro Costanzi - costruita verso la fine dell’Ottocento, in tempo per ospitare
le ultime due prime romane dei rispettivi capolavori, battezati alla Scala. Ed anche questa domanda non è peregrina,
perchè anzi offre spunti e spiegazioni assai interessanti. E una risposta assai semplice: l’Accademia dei
Lincei possiede un patrimonio documentale verdiano di inestimabile valore,
costituitosi attraverso diverse donazioni fra gli anni ’30 e 40 del Novecento,
fra le quali le più preziose sono il libretto manoscritto del ‘Ballo’ con annotazioni del
compositore agli appunti mossi dalla
censura - questo importante manoscritto, assieme ad altre carte
(prevalentemente lettere), fu donato ai Lincei dal diplomatico Enrico Garda nel
1932; e le oltre 300 lettere
inviate da Verdi all’amico, senatore
Giuseppe Piroli, i cui discendenti le donarono a Mussolini che, a sua volta, le
destinò ai Lincei - allora ‘Accademia
d’Italia - nel 1940. La medesima Accademia le pubblicò, successivamente, a cura
dello storico Alessandro Luzio. Per festeggiare l’avvenimento, l’Orchestra
dell’Accademia di Santa Cecilia diretta
da Bernardino Molinari, eseguì in un pubblico concerto nei giardini di Villa
Farnesina, sede dell’Accademia, musiche verdiane, tra cui la ‘sinfonia’
dell’Aida, poi ricusata da Verdi, a favore del più conciso ed incalzante
‘preludio’,
Ultimo
consistente lascito ai Lincei, qualche anno dopo, il carteggio del musicista
con lo scultore Vincenzo Luccardi, quello a cui chiese di trovargli casa al
tempo del ‘Ballo’ e che, prima ancora, mentre lavorava ad ‘Attila’, aveva
‘precettato’ per andare nelle stanze di Raffaello in Vaticano a riprodurre
fedelmente il copricapo di Attila, da destinare alla sartoria, al tempo
della messa in scena dell’opera.
Verdi ebbe a Roma anche degli amici, degli amici sinceri, al di fuori degli interessi musicali e della militanza politica, quest’ultima, in verità, assai poco convinta e meno ancora vissuta e partecipata, per sua stessa esplicita dichiarazione all’amico e librettista Piave :”Volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento, non vi sarebbe che a stampare nel bel mezzo di un foglio bianco, a grandi caratteri - i 450 non sono realmente che 449, perchè Verdi, come deputato, non esiste”.
Verdi ebbe a Roma anche degli amici, degli amici sinceri, al di fuori degli interessi musicali e della militanza politica, quest’ultima, in verità, assai poco convinta e meno ancora vissuta e partecipata, per sua stessa esplicita dichiarazione all’amico e librettista Piave :”Volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento, non vi sarebbe che a stampare nel bel mezzo di un foglio bianco, a grandi caratteri - i 450 non sono realmente che 449, perchè Verdi, come deputato, non esiste”.
Frequentò
fra gli altri, il poeta Giuseppe Gioacchino Belli, conosciuto in casa del poeta
Jacopo Ferretti, dove fece conversazioni
‘ piacevoli, pungenti e dotte’. Conobbe anche, ed a lui lo legò fraterna
amicizia, il poeta Cesare Pascarella, l’autore della celebre scanzonata ‘ La scoperta
dell’America’, che in gioventù s’era dichiarato, in un sonetto ’ammiratore
dell’opera di Verdi’, preferita senza condizioni a quella di Wagner.
E sarà proprio Cesare Pascarella, l’amico romano
che incontrerà a Milano, poche settimane prima della morte. Il primo gennaio
1901 lo invita a pranzo all’Hotel de Milan, dove il musicista risiedeva; di
tale incontro milanese si ammira in mostra il biglietto di invito ed anche il menù. Una ventina di giorni dopo, Verdi si
ammalò e mori il 27 gennaio del 1901.
La mostra romana si apre con un cimelio
importante. Una delle rare copie de ‘La Tribuna’ del 28.2.1901, sulla quale
appare la ‘canzone’ di Gabriele d’Annunzio ‘In morte di Giuseppe Verdi’, poi
pubblicata nel II Libro delle ‘Laudi’: ‘Elektra, 1904. In detta canzone
appaiono, la prima volta, quei due magici versi, oggi citatissimi specie da
Riccardo Muti che li conosce ovviamente a memoria e non manca occasione non
necessariamente verdiana, per
declamarli: ’Diede una voce alle speranze e ai lutti/Pianse ed amò per tutti’.
Nella stessa sala una passerella di costumi
provenienti dall’Opera di Roma, per vari personaggi verdiani, a firma di
costumisti famosissimi, a cominciare dal
notissimo Caramba ( nome d’arte di Luigi Sapelli ) a Sanjust, Visconti fino a
Odette Nicoletti; e poi, quasi in trono, il costume di Violetta per una ‘Traviata’ (1977) disegnato da Pierluigi Samaritani. Ma
anche un video, rarissimo, quello di ‘Otello’, recentemente restaurato,
rappresentato a Palazzo Ducale, Venezia,
nel 1966, diretto da Nino Sanzogno, protagonista Tito Gobbi.
Di sala in sala si avvicendano bacheche con documenti
rarissimi, e soprattutto bozzetti per scene e costumi, dai quali è possibile
vedere il lento progressivo affrancamento del figurinismo per il melodramma
dalla pittura; recano firme di pittori notissimi, come ad esempio, quelli de
‘Il Trovatore’, realizzati da Alessandro
Prampolini ( semplice omonimia lo lega al pittore del Novecento, Enrico,
anch’egli attivo nel teatro d’opera ( nell’Archivio storico dell’Opera si conservano numerosi suoi bozzetti per scene e costumi, alcuni di rilevanza storica).
Ed ancora molti libretti e preziosissime ‘disposizioni sceniche’ per alcune
opere - testimonianza preziosa di una pratica che Verdi aveva conosciuto in
Francia ed introdotto in Italia - delle quali è rimasta qualche traccia nei
libretti; come anche gli ‘spartiti’, cioè le riduzioni per canto e pianoforte’
delle varie opere, indispensabili per lo studio e la preparazione dei cantanti,
ben prima di iniziare le prove per una messinscena, resisi necessari quando il
melodramma cominciò a diffondersi basandosi sul repertorio.
In una lettera assai preziosa, datata 6 luglio
1854, indirizzata all’amico e collaboratore Cesare De Sanctis, Verdi accenna ai
numerosi divieti posti dalla censura, ed al modo per aggirarli, sebbene con
grande fatica : “conservare tutto l’entusiasmo di Patria, Libertà, senza mai
parlare di Patria e Libertà è cosa ben ardua, nonostante si può tentare”. A suo
modo anche uno scenografo del ‘Ballo’ ( Giuseppe Rossi, per una
rappresentazione al Teatro Comunale di Terni, nel 1860) aveva aggirato il
divieto della censura che aveva imposto a Verdi di spostare l’azione lontano dall’Italia,
e Verdi aveva optato per Boston, in ragione della sua lontananza. In un
bozzetto che delinea i ‘dintorni di Boston’ disegna, sullo sfondo, il ‘cupolone’
di San Pietro e Castel sant’Angelo.
A proposito dell’Otello, penultimo
titolo delle opere dell’ultima produzione verdiana rappresentato a Roma, al
Costanzi, quindici giorni esatti dal debutto milanese, scene e costumi giunsero nella capitale con i
cosiddetti ‘Treni Otello’ che trasferirono a
Roma, oltre il materiale scenico,
gli orchestrali, i coristi, gli interpreti vocali, il direttore ( Franco Faccio) e lo stesso compositore. Forse una
delle prime tournée della Scala Da poco
era stata, infatti, inaugurata la ferrovia che collegava Milano a Roma; prima
il compositore arrivava sempre via mare, si imbarcava a Genova, sbarcava a
Civitavecchia e raggiungeva poi in carrozza la Capitale.
Una sala è dedicata interamente a Tito Gobbi il grande baritono di Bassano
del Grappa che il destino fece nascere nel 1913, cento anni dopo la nascita di
Verdi. In esse sono esposti tre preziosi costumi completi dai ogni elemento.
Rigoletto, Simone, Trovatore; e in quella successiva, la penultima, un prezioso
costume, un mantello con fili d’oro e perle, di Caramba per Amneris, 'Aida'.
E, infine, Caracalla, con il manifesto formato
gigante della prima stagione ( da giugno ad agosto, avvenuta nel 1938, dopo la
‘Lucia di Lammermoor’che aveva inaugurato, l’anno precedente, le
rappresentazioni estive nelle rovine delle grande terme romane. Negli anni
successivi quello sarà il palcoscenico per eccellenza di Aida, al punto che per
un periodo Caracalla venne chiamata ‘Aideo’.
Dunque Verdi amò Roma e ne fu riamato? L’amore
di Verdi verso la città che più d’una volta aveva accolto ‘prime ‘delle sue
opere con grande partecipazione crebbe via via, alimentato dal gruppo di amici che s’era fatto nella capitale e che
vide, come attesta l’ incontro con Pascarella
a Milano - anche lontano dalla
capitale. E ciò, nonostante la manifesta intransigenza verdiana nei confronti
della messinscena delle sue opere, non sempre all’altezza di quanto richiesto,
come lamenta nella sua corrispondenza. Che Verdi fosse riamato dai romani,
basterebbe a dimostrarlo l’accoglienza riservatagli nel 1893 per la prima
romana del ‘Falstaff’, e per il conferimento della cittadinanza onoraria,
quando una folla in delirio lo attese ed accolse alla Stazione Termini, ed egli,
per non essere sopraffatto da tanto sincero entusiasmo, fu costretto a cercare
scampo in un locale riparato della stazione medesima.
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