Lo spettacolo, indimenticabile, di una grande sala piena di pubblico di ogni età ( anche se in prevalenza ultracinquantenne) che ascolta, con interesse ed attenzione, un monumento della musica di tutti i tempi, nonostante la sua durata complessiva - senza intervallo, quasi due ore di musica - ci fa ancora ben sperare per l'Italia e per la musica in Italia. Come ci fa sperare, in generale e per un diverso profilo, anche la presenza in sala della presidente del Brasile, inducendoci perfino ad essere convinti che se pure la vecchia Europa un giorno collasserà, non sapendo nutrirsi dei suoi tesori, ci sarà sempre qualcuno del nuovo mondo che lo farà. Cambiamo per un momento registro.
Anche ieri sera abbiamo notato - sfogliando il programma di sala, che riproduceva note abbastanza dozzinali sulla Messa in si minore di Bach, mentre avrebbe potuto riportare note scritte in altre occasioni e da autori con ben altra competenza - che nelle indicazioni bibliografiche suggerite dai 'bravi' e 'corretti' autori, sebbene poco competenti, si continua con l'ostracismo nei confronti di un musicologo atipico ma competentissimo come Piero Buscaroli che su Bach ha scritto un poderoso volume, come ha anche fatto su Beethoven. Sull'uno e sull'altro l'Accademia ne ignora regolarmente la fatica per ragioni che sarebbe ora troppo lungo spiegare, e che ci costringerebbero a gettare fango sull'immagine di una istituzione storica che fa differenza se uno studio reca la firma di tizio o di caio, come se nella ricerca musicologica il valore si avesse a misurare dalla persona che la compie, dalle sue appartenenze ideologiche o, perfino, dai buoni o cattivi rapporti che egli ha con la dirigenza dell'Accademia che impartisce ordini in tal senso ai curatori dei programmi di sala. Parlare di simili bassezze ci fa un pò senso prima di riferire di un capolavoro di musica, pensiero e religione, che ci rapisce inesorabilmente e ci conduce ad altezze vertiginose, ma sentiamo di doverlo ancora una volta fare, almeno fino a quando le cose non cambieranno. Ed ora torniamo alla Messa di Bach e a Pappano che l'ha diretta.
Egli, mantenendo le promesse, è tornato a Bach, alla Messa in si minore, dopo la Passione secondo Matteo presentata l'anno scorso. E, tornandovi, ha esibito maggiore profondità di pensiero e più sicurezza stilistica, di quanto non ne avesse già mostrate con la Passione. A dimostrazione che la Messa, sebbene presentata dopo anni e anni di carriera, è stata fin dalla sua gioventù - come ebbe a dichiarare - ogni giorno sul suo leggio di musicista.
Dovrebbe apparire la Messa, con il suo testo, per la maggior parte dogmatico, ostico ad ogni irrorazione di calore e sentimento. Ed invece no. Bach, profondamente immerso nella spiritualità luterana, coglie nel testo liturgico i momenti di riflessione, meditazione, contrizione e si apre alla loro espressione sincera, non trascurando neanche quelle circostanze in cui la retorica della musica può dare una mano all'arida enunciazione della fede cristiana, a cominciare dal sentitissimo, implorante Christe affidato alle due voci femminili, le straordinarie Lucy Crowe e Sara Mingardo, alla quale ultima, per l'invocazione dell'Agnus Dei, spetta la palma della migliore interprete della serata. Mentre gli interpreti maschili, Kurt Streit e John Relyea, meno in evidenza, sono, comunque, apparsi a posto.
Pappano, colto il disegno generale della Messa, ha voluto poi sbalzare ogni particolare con il più adatto rilievo. Alle parti corali, solitamente ricorrenti a conclusione delle varie parti, ha impresso un ritmo ed una andatura come si conviene ad un 'finale' che volge inesorabilmente al termine - e del resto le parti conclusive del Gloria e del Credo a ciò si prestavano. Ma analoga posizione ha assunto nel grande Kyrie iniziale - con la caratura emotiva di una supplica corale a mezza voce - e per il Sanctus, riconoscimento della grandiosa inavvicinabilità della santità di Dio.
La Messa ha rivelato tutti i suoi numerosi altri tesori, primo fra tutti quelli che coincidono con il nucleo centrale del Credo e della fede cristiana che racconta della passione, morte e resurrezione di Cristo.
L'Orchestra dell'Accademia, ridotta nelle dimensioni ma efficientissima nella prestazione, ha seguito Pappano con fedeltà e slancio. Una citazione particolare meritano le prime parti ( oboe, fagotto,violoncello, flauto, corno,organo) particolarmente impegnate nella 'concertazione' con i solisti vocali, come anche la spalla, nuova di zecca, il giovane Roberto Gonzales-Monjas, ed ancor più il coro, istruito da Ciro Visco, chiamato qui ad un compito non indifferente ed in un repertorio che non fa parte del suo DNA, più in sintonia con il sinfonismo dell'Otto-Novecento.
La serata si è naturalmente conclusa con un diluvio lunghissimo di applausi.
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