lunedì 28 luglio 2025

Muti: la mia sintonia immediata con Milano: intervista di Renato Farina ( da Tempi)

 Il maestro racconta il suo arrivo nel capoluogo lombardo, i contrappunti composti al parco, la Scala, Toscanini, la sala gialla e l'amore. Intervista a tutto campo

Riccardo Muti, Milano, 2001 (Foto Ansa)
Riccardo Muti, Milano, 2001 (Foto Ansa)

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo l’intervista al maestro Riccardo Muti realizzata da Renato Farina e contenuta nel volume “Miracolo Milano (Mondadori Electa).

Maestro, anche lei partì per Milano, lasciando il cuore a Napoli.

Ricordo come fosse ieri. Era il novembre del 1962. L’allora direttore del conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, Jacopo Napoli, insigne musicista, si era trasferito a Milano ed era diventato direttore del conservatorio meneghino. Secondo lui, avevo già iniziato a mostrare qualche qualità direttoriale. Così mi chiese di seguirlo, anche perché a Milano insegnava direzione d’orchestra il grande Antonino Votto.

La sua famiglia è stata subito d’accordo?

Ci fu un consiglio di famiglia – allora funzionava così – per decidere se il giovane figlio poteva lasciare la città e trasferirsi. La mia famiglia diede il consenso, ma attenzione… a Milano fa freddo, mi dissero. Mi comprarono un cappello Borsalino da mettere in testa una volta arrivato.

In treno verso la Stazione centrale.

Partenza da Napoli la sera del primo novembre, viaggio notturno e arrivo a Milano il mattino presto. Avevo un biglietto di seconda o forse di terza classe. Eccomi alla meta verso le sei o le sette del mattino.

Il primo ricordo rimasto negli occhi e nel cuore?

La fa un po’ troppo romantica. Era la prima volta che mettevo piede in quella città, e stavo scendendo dalla carrozza con la testa piena di avvertimenti: a-Milano-fa-freddo, a-Milano-bisogna-coprirsi. Sarà stato per suggestione ma appena posato il piede sulla banchina ho sentito un freddo incredibile, pur essendo riparato da cappello, sciarpe e cappotto. C’era anche la nebbia. Stavo vivendo quella scena famosa del film con Totò e De Filippo.

Totò, Peppino e la malafemmina. Arrivarono a Milano come se andassero in Siberia: col colbacco.

Mi accontentai del Borsalino. Non ho mai portato il cappello prima, e non l’ho più indossato dopo. Mi avevano trovato una stanzetta in un albergo modesto in piazza Cinque Giornate, dove adesso c’è il Coin. Lasciata lì la valigia, mi sono subito diretto al conservatorio.



Un secchione.

Ero curiosissimo di vedere questo famoso conservatorio, che aveva a suo tempo bocciato Verdi all’esame di ammissione da pianista (non aveva fatto quello da compositore!). Io venivo dal glorioso conservatorio di Napoli, grande anche dal punto di vista architettonico, e mi trovai davanti una palazzina bassa, per cui di primo acchito provai delusione, rispetto all’impatto che ebbi con l’omologo napoletano, dotato di rigogliose palme e della statua di un Beethoven occupato in profondi pensieri. Poi però, già entrando nel bellissimo atrio di quello meneghino, mi riconciliai.

Malinconia?

I primi giorni sono stati, ammetto, molto faticosi. Dovevo trovare una sistemazione, non potevo permettermi di vivere in albergo, seppure modesto. In via Tadino 2, a Porta Venezia, trovai alloggio da una vecchietta di Vicenza. Affittava una stanza.

Siamo in piena Bohème.

Non ancora, aspetti. Mi avevano spedito lì due bidelli del conservatorio, entrambi meridionali: uno si chiamava Gallucci, ed era un mutilato della Seconda guerra mondiale, e l’altra, Sandra, veniva da Lecce. Entro, accompagnato dalla padrona, in quella che doveva essere la mia stanza, e ci trovo due letti. «Il secondo appartiene a un tenore», mi spiegò la signora orgogliosa. Era veneto e si chiamava Manfrin. «Adesso è fuori per un concerto ma ritornerà stanotte», mi assicurò. Restai di sale. Non venivo certo da una famiglia ricca, ma mio padre era medico, ed eravamo comunque benestanti. Ritrovarsi a condividere un loculo, non sapendo nemmeno chi sarebbe arrivato nella notte a dividerlo con me, mi pareva un po’ troppo. Il mattino, quando mi sono svegliato, lui era nel suo letto, a distanza di mezzo metro dal mio. Mi ha dato la mano e mi ha detto «piacere Manfrin».

Magari aveva pure la gelida manina.

No, ma non sarebbe stato questo il problema. Questo tenore faceva anche i vocalizzi con un pianoforte stipato presso i due giacigli. Aveva di diritto la precedenza. Per cui io, che studiavo direzione d’orchestra con Bruno Bettinelli, non potendo certo fare i contrappunti insieme ai vocalizzi del Manfrin, li componevo nei giardini di Porta Venezia. Ci andavo anche quando c’era davvero freddo, e infatti Cristina, che poi conobbi al conservatorio, mi scattò una fotografia che ancora custodiamo dove sono appoggiato a una panchina, vicino a un albero, mentre scrivo contrappunti per il corso di composizione senza l’aiuto del pianoforte. Contrappunti, doppi cori, fughe. Questo è stato l’inizio del mio periodo milanese.

Il maestro Riccardo Muti riceve gli applausi del pubblico al termine dell'Europa Riconosciuta di Salieri eseguita al teatro La Scala di Milano, 7 dicembre 2004 (Foto Ansa)
Il maestro Riccardo Muti riceve gli applausi del pubblico al termine dell’Europa Riconosciuta di Salieri, eseguita alla Scala di Milano, 7 dicembre 2004 (Foto Ansa)

Che cosa la colpì di Milano allora, a parte il freddo, la nebbia e il tenore?

Ovviamente il Duomo e la Scala, ma la vidi solo da fuori. Ero concentrato sugli studi, e le mie giornate scorrevano intorno al conservatorio. Nel perimetro della passeggiata del maresciallo Radetzky.

Si allenava per il concerto di Capodanno, quest’anno è stata la settima volta.

Nemmeno me lo sognavo allora. Dovevo completare il prima possibile gli studi di composizione. Non intendevo pesare sulla famiglia, col permesso del ministero ottenni di saltare sempre un anno, fatto sta che mi diplomai in 5 invece che 10 anni, e col massimo dei voti. Non potevo neanche permettermi di andare alla Scala, per la scarsità di tempo e per risparmiare: ci sono andato solamente qualche volta al loggione.

Con le giornate così piene, a Milano ha trovato il giusto clima… è sempre stata caratterizzata dalla concentrazione sul lavoro, qualunque esso sia.

Sì, certamente mi aveva colpito questo. E qui cito sì la Bohème: «Quanta folla! Su, corriam!». Era così diversa da Napoli, dove avevo vissuto 17 anni, meravigliosa signora abbandonata sul golfo, con il Vesuvio che anche se non fumava, aveva sempre quella nuvola grigiobianca. Milano mi dava la sensazione di una città del lavoro, dove non c’era il tempo dell’otium romano. Si aveva la sensazione di una città protesa verso la conquista di qualcosa. C’è stata una sintonia immediata.

Il lavoro sì, ma anche l’amore.

Ho incontrato Cristina nel 1964. Si era trasferita dal conservatorio di Venezia a quello di Milano per studiare canto (diplomandosi, ci tengo a dirlo, col massimo dei voti). È nata una vita insieme. Sono passati più di 60 anni e insieme aspettiamo solamente la signora vestita di nero.

Passeggiavate insieme sui Navigli, suppongo.

Ecco, una cosa che mi è sembrata proprio stravagante di Milano è stato quando per la prima volta ho visitato la zona dei Navigli. Per me che venivo dal Golfo di Napoli, vedere i milanesi che pensavano ai Navigli come al loro mare mi pareva proprio strano.

Colgo un certo senso di superiorità partenopea in questa osservazione. Ma poi passò dai Navigli alla Scala.

Chiesi al maestro Votto il permesso di seguire alcune sue prove alla Scala. Una volta Un ballo in maschera e una volta Falstaff. Confesso: mi fece molta impressione entrare alla Scala e vedere che già il portiere aveva l’atteggiamento – lo dico in senso buono – del sovrintendente. A Napoli ero ancora studente e mi chiedevano «Maestro! ‘O vulite nu cafè?». Qui invece il portiere ti squadrava dalla testa ai piedi. Sembrava di entrare in un tempio chiuso ai più. Infatti ho seguito le prove in una sala vuota, perché allora era quasi impossibile entrare senza permessi, e si era guardati a vista. L’ambiente dentro era estremamente severo. Avvertivi che essere in sala da solo a seguire le prove era un privilegio, come essere di fronte al re, all’imperatore, al Papa. Ecco, questo è stato il mio primo approccio a quel teatro.

Come percepì il rapporto di Milano con la Scala?

Allora mi dicevano che le tre cose importanti a Milano erano la Scala, il Duomo e il panettone. I milanesi appena finita la guerra, la prima cosa che hanno pensato è stata di ricostruire il teatro. Questo è un segno di grande civiltà e di grande amore per la cultura e per il tempio della lirica.

Arturo Toscanini tra i direttori d’orchestra è stato davvero il più grande, come ha lasciato intendere nell’intervista con Aldo Cazzullo?

Bisogna riconoscere a Toscanini, alla sua grandezza, il merito di aver posto di nuovo l’interprete a servizio del compositore. A quei tempi l’interprete era colui che si impadroniva della composizione e ne faceva un mezzo per mettere in primo piano sé stesso. E già Verdi aveva avvertito tutto questo e continuava nelle sue lettere a dire a cantanti e direttori d’orchestra: ricordatevi che c’è un solo creatore ed è il compositore, tutti gli altri devono seguire le sue indicazioni.

Il monito di Toscanini vale anche ora?

Lo si sta dimenticando, veramente stiamo andando indietro soprattutto nel teatro d’opera italiano. Molti cantanti, anche famosi, stanno prendendo di nuovo l’abitudine di interpretazioni che molto spesso vanno contro il desiderio creativo del compositore. Toscanini fece della Scala il primo vero grande teatro moderno. Rivoluzionò completamente abitudini bieche, come fare i bis, cosa che adesso è tornata di moda, addirittura si arriva al tris.

Tra un po’ saremo al poker.

Quando ero alla Scala si parlava proprio di precisione toscaniniana: alle otto in punto bisognava attaccare in buca quando c’era il concerto. Toscanini aveva imposto, giustamente, di iniziare puntuali, all’ora segnata. Cosa che feci mia negli anni alla Scala, tanto è vero che imposi il fatto che chi arrivava in ritardo non poteva entrare in sala se non alla fine del primo atto. Ovviamente scatenando polemiche. Ma nei palchi della Scala ci sono delle serrature che facevano rumore. Non per imitare Toscanini, ma trovavo assolutamente incivile e irrispettoso verso l’opera, verso il teatro, verso l’autore, verso gli interpreti, verso il pubblico già presente in sala, arrivare in ritardo.

Il maestro Riccardo Muti dirige l' orchestra e il coro del Teatro alla Scala di Milano nel concerto di Natale '98 del 23 dicembre dedicato alla memoria di Giorgio Strehler (Foto Ansa)
Il maestro Riccardo Muti dirige l’orchestra e il coro del Teatro alla Scala di Milano nel concerto di Natale del 23 dicembre 1998 dedicato alla memoria di Giorgio Strehler (Foto Ansa)

Come sono stati quegli anni alla Scala?

La prima volta è stata nel 1971 con un concerto col povero Dino Ciani (pianista, 1941-1974, nda).

Prima che vi fosse nominato direttore musicale, per quasi vent’anni (1986-2005), e salito sul podio alla Scala quasi ogni anno. Quali ritiene serate da incastonare nella storia sua, e – se consente – di questo teatro?

Nel 1981, Le nozze di Figaro con la celeberrima regia di Giorgio Strehler, e la Prima del 1982, con l’Ernani di Verdi, e un cast incredibile: Placido Domingo, Mirella Freni, Renato Bruson, Nicolai Ghiaurov, e con la regia di Luca Ronconi.

E dei vent’anni da dominus scaligero cosa porta con sé?

L’aver riportato la trilogia verdiana – cioè La traviataRigoletto Il trovatore – dopo più di vent’anni di assenza alla Scala. Uno dei ricordi che resta più profondamente inciso in me – e non solo riguardo alla mia storia alla Scala, ma anche l’immagine che resta in me di Milano, la mia Milano –, è il giorno in cui io ho iniziato le prove della Traviata. Mancava da 26 anni in questo teatro, e la riportavo a casa, con la regia di Liliana Cavani, interpreti Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna e Paolo Coni. Con il preludio di morte di lei, ho visto professori d’orchestra anziani con le lacrime agli occhi. Quella musica appartiene a quei muri, ai fantasmi di quel teatro. Quando io ho attaccato, e dopo più di un quarto di secolo questi suoni sono ritornati in quella sala vuota e silenziosa, è stato un momento di grande commozione. C’erano i franchi tiratori che non volevano assolutamente che si toccasse quest’opera: siccome aveva immortalato la Callas, bisognava riporla nel museo delle cere. Riprendere le tre opere è stata una delle operazioni più ardite che io abbia portato a compimento. Sono orgoglioso della mia vita in quel teatro.

Lasci citare a me la trilogia dapontiana di Mozart, e la tetralogia wagneriana dell’Anello dei Nibelunghi.

Sono orgoglioso della mia vita di quel tempo, e in quel teatro. Mozart… Era sovrintendente allora Carlo Maria Badini. In un mese intero queste tre opere si sono rappresentate succedendosi l’una all’altra e per un mese la Scala è diventato il teatro di Mozart.

Poi c’e stato il grande rinnovamento realizzato dall’architetto Mario Botta. Qual e il suo giudizio?

Botta è un grande architetto. Punto. Quello che mi è dispiaciuto però è che, nella ristrutturazione, è sparita completamente la famosa sala gialla, per tutto il mondo dei cantanti e direttori d’orchestra, una sala mitica. Era un’aula rettangolare, lunga, dove si facevano le prove di sala. Una volta si faceva anche un mese di preparazione con i cantanti nella sala gialla. I grandi del passato sono cresciuti in quella sala, sotto il regno di Toscanini: la Caniglia, la Favero, Ezio Pinza, Beniamino Gigli, Bastianini. Entrando in quella sala, con quelle pareti addobbate con una tappezzeria meravigliosa, si avvertiva la presenza dei grandi cantanti che per decenni e decenni nel secolo precedente avevano preparato le opere con i grandi direttori d’orchestra. Toscanini, ma anche il mio maestro Votto quando era il suo primo assistente, lì hanno preparato decine e decine di opere.

Mi risulta che ci sia ancora una sala gialla.

Sì, la chiamano gialla, ma non ha niente a che fare con quella dove per decenni e decenni si è fatta la storia intima della Scala. Quella è sparita. Non so se era necessario eliminarla, ma quando l’ho saputo è stato per me un gran dolore.

Cosa augura a quel teatro per il suo futuro?

È molto delicata la domanda. È chiaro che quando si parla della Scala si parla del teatro mitico, nel mondo considerato come un faro, ai tempi di Toscanini era il faro, anche superiore al Metropolitan dei tempi di Caruso, di Martinelli. Si guardava alla Scala per vedere che cosa diceva, che messaggio partiva dalla Scala da commentare, da considerare, da osservare, da criticare a volte. Mi auguro che nel futuro possa continuare a essere un faro. Ma oggi le cose sono cambiate, il mondo è molto diverso. Ogni grande teatro pensa di essere il più intelligente, il più colto eccetera: ma non si può togliere al nome la Scala il carisma che la storia gli ha dato.

E questo comporta anche una responsabilità.

La Scala non è per il mondo come un qualsiasi altro teatro. Se si fa qualche cosa di buono qui, la sua eco si diffonde, e induce rispetto per l’intera nostra cultura. Se un interprete, un regista, un direttore tradisce un nostro compositore alla Scala – e mi riferisco soprattutto a Verdi – funzione in senso opposto. Un tale sacrilegio non può essere trattato come un incidente di percorso, ma ferisce l’intera nostra cultura.

La cultura operistica?

No, è la cultura italiana in quanto tale a essere vilipesa. La Scala ha in questo una responsabilità immediata per il peso del suo mito. Guai se non avesse un ruolo di primo piano nel difendere i nostri compositori. Non è una battaglia secondaria: essi sono la sua stessa storia, cioè quella della cultura italiana, di cui la musica è pietra angolare. Fuori dai nostri confini, ma anche dentro, purtroppo, manca quel rispetto che invece è rigorosamente praticato verso Mozart, Strauss, Wagner. La mancanza di rispetto già è di prammatica e viene propalato da interpreti che saccheggiano ad usum del loro ego, le nostre opere splendidamente popolari come Bohème, Butterfly Turandot, espandendo questa tendenza, che alla fine giunge a coinvolgere Verdi, stravolgendone il senso, magari anche grazie a direttori d’orchestra proni al dio-regista. Sento cose che ai tempi di Toscanini o di altri direttori importanti, fedeli alla grandezza e al rispetto dei nostri compositori, sarebbero state inconcepibili.

Prevale un provincialismo paradossalmente esterofilo.

Com’è possibile non avere un culto, e tenere anzi chiuso in un baule di cui gli idioti hanno buttato la chiave, un patrimonio dell’umanità qual è la nostra musica, operistica e non? Di solito si intende ridurre il periodo d’oro, degno di essere irradiato nell’orbe, a quello che parte dalla seconda metà dell’Ottocento e finisce ai primi del Novecento. Ma non è così. Volendo usare una metafora architettonica, l’arcata intera della storia della nostra opera non ha un solo tassello scomponibile dalla grandezza del suo insieme. La scuola napoletana, quella veneta, quella romana…

Mi pare che abbia provveduto lei a lasciar rifiorire nel mondo la fama di Monteverdi, Scarlatti, Porpora. E ha portato Cherubini e Spontini alla Scala.

Ne sono fiero, ma non è sufficiente. Mi piacerebbe che qualcuno si scoprisse davvero germanofilo, tanto da rendersi conto che Brahms adorava Cherubini e che Wagner si inginocchiava davanti Spontini. E Mozart poi…

Mozart?

Da ragazzo viaggiò per studio in Italia per ascoltare e farsi udire dai nostri grandi: a Verona, Milano, Torino, Bologna. Finché scrisse al padre: non vedo l’ora di arrivare a Napoli perché sia riconosciuto il mio talento da quella grande scuola. Vale più un’esecuzione a Napoli che duecento in Germania. E aggiunse un post scriptum: ma pagano poco.

Ai musicisti italiani conveniva lavorare a Vienna. Come fece il tanto spregiato Antonio Salieri, a cui lei invece ridiede l’onore perduto.

E così torniamo alla Scala. La sua opera Europa riconosciuta il 3 agosto 1778 inaugurò il Nuovo regio teatro di Santa Maria della Scala, suo nome originario. Quando dall’Arcimboldi – teatro dall’acustica perfetta – tornammo alla Scala, riproposi per la nuova inaugurazione questo titolo. Era il 7 dicembre del 2004. Punto e a capo, si ricominciava dall’origine. Quella sera donai la bacchetta con cui avevo diretto al sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ad augurare un nuovo inizio radioso alla Scala, e a Milano.

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