giovedì 31 dicembre 2015

L'Italia all'Opera. A proposito di Musica & Unità d'Italia: Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi



L’ora della liberazione è suonata. E’ il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non v’è potere assoluto che le possa resistere, scriveva Giuseppe Verdi, musicista; ma avrebbe potuto scriverlo Giuseppe Mazzini, patriota.
Fu la musica - inni e melodrammi - a provocare il Risorgimento italiano? Certamente no. Ma se non fu la musica a provocarlo, almeno la musica e i luoghi ad essa consacrati, soprattutto i teatri, costituirono ed alimentarono una spinta verso la liberazione e l’unificazione? Cioè a dire, indirettamente, potrebbe la musica esserne stata involontaria suggeritrice o quantomeno fiancheggiatrice ? O più semplicemente ma efficacemente, la musica accompagnò e sostenne i moti rivoluzionari ed il processo di unificazione?
In questi ultimi mesi, con l’avvicinarsi del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, mentre sembra definitivamente sopita la discussione, inutile e stantìa, sulla sostituzione dell’Inno di Mameli-Novaro, con il ‘Va pensiero’ di Verdi-Solera (anche se episodi di sabotaggio si verificano ancora, per giunta in sedi istituzionali ed occasioni ufficiali, protagonisti importanti, ma incoscienti, esponenti della Lega), sul ruolo che la musica ebbe nel processo di unificazione si è dibattuto ampiamente, con libri, articoli, saggi ed anche in pubblici incontri. In tale dibattito, primeggiano ancora luoghi comuni duri a morire, mentre rarissime sono le occasioni in cui l’argomento Musica-Unità d’Italia viene affrontato con rigore e metodo storico. Tuttavia, per noi non si tratta di arare un terreno vergine.
E tanto per indicare immediatamente una linea di tendenza sul ruolo che la musica ebbe nel processo di unificazione dell’Italia, basta andare a mezzo secolo fa, ad una celebre sequenza del film di Luchino Visconti, ‘Senso’, girata a Venezia nel Teatro La Fenice, durante una rappresentazione de ‘Il trovatore’ di Giuseppe Verdi. In un teatro pieno zeppo sia nei palchi che nella platea, dove si notano parecchie divise militari austriache, il tenore, Manrico, ha appena finito di cantare ‘Di quella pira’, la celebre romanza, e il coro di uomini armati gli fa eco e attacca: ‘All’armi, all’armi/Eccone pronti a pugnar teco,/o teco a morir….’ In quel preciso istante, come fosse suonata una parola d’ordine, il teatro comincia ad agitarsi, dai palchi piovono volantini contro gli Austriaci, e i soldati avvertono in quel preciso istante che in teatro, luogo di semplice finzione, ora non più, sta per cominciare la reale rivolta degli italiani, veneziani in primo luogo, contro il nemico. La vita, la situazione reale s’è saldata al palcoscenico, dal quale scoppia la miccia della rivolta. Esattamente quel che voleva ed auspicava Giuseppe Mazzini nel suo ‘Filosofia della musica’(1836), sostenendo che il melodramma non poteva più limitarsi a soddisfare il pubblico, doveva cambiarlo, ed esso stesso doveva prima mutare, attraverso una riforma musicale consistente nell’abbandono dell’imitazione di Rossini, per andare verso la creazione di un’arte progressiva, sintesi della storia patria con le scuole musicali europee. E, secondo Mazzini, l’unico musicista in grado di attuare tale riforma, era Gaetano Donizetti (il cui ‘Marin Faliero’ andato in scena nel 1835, entusiasmò gli animi, perchè che vi si narrava del contrasto fra la classe popolare custode della moralità e dell’amor di patria ed una fazione di aristocratici degeneri ma detentori del potere; e del Doge che si mette dalla parte del popolo e congiura contro gli stessi nobili. Senonchè il Donizetti, benchè ideologicamente apolitico, assunto da Mazzini ad artefice del cambiamento, ebbe a deludere il pensatore e patriota, quando nel 1841, si avvicinò all’impresario della Scala e del Teatro di corte di Vienna, Merelli ( lo stesso che propose a Verdi il ‘Nabucco’) e, nel 42, accettando l’ incarico di ‘maestro della corte’ asburgica dall’imperatore Ferdinando (Per una assai simile circostanza, anche il genovese Paganini era stato oggetto di critiche feroci da parte di Mazzini, quando accettò un’onorificenza di Francesco I. Mazzini gli rinfacciò di aver portato l’arte musicale ad una prostituzione mercantile, per giunta con il peggior nemico dell’Italia). Chi altri, allora, se non Donizetti? Rossini ?
Rossini no, perchè aveva incarnato l’arte come gioco e diletto, per Mazzini, con l’unica eccezione del ‘Guglielmo Tell’. Rossini, poi, era sembrato addirittura contrario ai movimenti risorgimentali, al punto che si sentì costretto a difendersi in una famosa lettera inviata nel 1864, ad un suo amico palermitano, Filippo Santocanale, avvocato, patriota e deputato liberale: “…alcuni miserabili miei concittadini mi hanno fatto reputazione di codino, ignorando gl’infelici che nella mia adolescenza artistica musicai con fervore e successo le seguenti parole :”Vedi per tutta Italia/ rinascere gli esempi/ d’ardire e di valor!/ Quanto valgan gl’Italiani/ al cimento si vedrà” Cita nella lettera anche il suo Inno dell’Indipendenza, scritto quando entrò il re Murat a Bologna ( quell’inno così cantava: “Sorgi, Italia, venuta è già l’ora:/ l’alto fato compir si dovrà;/ dallo Stretto di Scilla alla Dora/ un sol regno l’Italia sarà!. E il ritornello: “ Del nemico alla presenza/ quando l’armi impugnerà/ un sol regno e indipendenza / gridi Italia e vincerà; e fu accolto con grande calore, tanto che gli fu dato il nome di ‘Marsigliese’ italiana). E, ancora : “ per distruggere l’epiteto di codino, dirò che ho vestito le parole di libertà nel mio ‘Guglielmo Tell’ a modo di far conoscere quanto sia caldo per la mia patria e per i nobili sentimenti che la investono. Vi scrivo tutti questi particolari e vi do sì a lungo la pena di leggermi, perché ho ragione di supporre che non mi avete in gran concetto ‘politicamente’, e onde abbiate in mano un’arma per difendermi, ove venissi attaccato…”. Il ‘Guglielmo Tell’ ma anche ‘Mosè’ furono riprese molte volte nei teatri italiani; in quest’ultima, gli esuli e patrioti italiani lessero la propria avventura mentre scorreva la storia del popolo ebreo incatenato ed oppresso. Pesarono comunque sulla sua reputazione di ‘conservatore’ i rapporti che egli ebbe sia con Ferdinando I, re di Napoli ( per il quale scrisse ‘Elisabetta, regina di Inghilterra’) che, successivamente, con Carlo X, re di Francia, per la cui incoronazione, nel 1825, egli scrisse ‘Il viaggio a Reims’.
E Bellini (1801-1835)? Il suo ‘belcantismo’ fu interpretato dal Mazzini come simbolo dell’individualismo; ed il suo continuo girovagare oltre che la brevissima esistenza lo estraniarono di fatto dal movimento risorgimentale. Tuttavia anche nella sua opera si colsero echi risorgimentali, per lo meno taluni passaggi assai noti furono letti come tali e presi a pretesto per mandare messaggi di rivolta allo straniero dominatore. Si sa della convulsa serata scaligera, nel corso di una rappresentazione di ‘Norma’ nel 1859, quando al coro di ‘Guerra, Guerra’ seguì in teatro un subbuglio memorabile. E sempre a proposito del celebre coro, Alessandro Luzio, sul ‘Corriere della Sera’ del 20 marzo 1929, riferì che Wagner si era meravigliato che tale coro, a causa del suo travolgente impeto xenofobo, non fosse divenuto l’inno nazionale italiano. C’è, infine, il caso de ‘I Puritani’, nel cui finale due bassi ( in quel caso Tamburini e Lablache, a Parigi) cantano all’unisono: ‘Suoni la tromba, e intrepido/ io pugnerò da forte/ Bello è affrontar la morte/ gridando: libertà”. Bellini, dopo il successo parigino, ne scrisse al suo amico Francesco Florimo, descrivendone fin nei minimi particolari l’entusiasmo del pubblico del Theatre des Italiens di Parigi. Scene non nuove e neppure rare, se Heinrich Heine nei suoi resoconti di viaggio, a proposito di una prima alla Scala, riferisce di un dialogo fra un inglese ed un italiano. L’inglese dice all’italiano ‘voi sembrate morti ad ogni cosa, tranne che per la musica, che sola ha ancora la potenza di scuotervi…’
Verdi, la cui stella non brillava ancora anche per la giovane età, non era ovviamente entrato negli orizzonti di Mazzini, a metà degli anni Trenta, avendo egli solo 22 anni. Vi entrò dopo il suo primo grande successo, nel 1842, con ‘Nabucco’, a proposito del quale è bene ricordare, per evitare strumentalizzazioni ed enfatizzazioni antistoriche, che non fu il ‘Va pensiero’ ad essere ripetuto a grande richiesta la sera della prima alla Scala, bensì il coro finale ‘ Immenso Iehovah’, preghiera al dio di Israele. E la ragione, quasi sicuramente, non stava nella musica, bensì nel testo che, nell’originale, suonava: “Spesso al tuo popolo/ donasti il pianto/ ma i ceppi hai franto/ se in te fidò”. La censura non gradì e il testo fu modificato in : Tu spandi l’iride/ l’uom è contento/ tu vibra fulmine/ l’uom più non è”. Che la storia della cattività babilonese del popolo ebraico, potesse essere letta come metafora, non del tutto inconsapevole e casuale, della situazione delle popolazioni della nostra penisola sotto il dominio austriaco, non va dimenticato. E la censura l’aveva capito. Perché Verdi, la cui coscienza civica e politica fu ben evidente, con i suoi primi due grandi successi ( ‘Nabucco’ e ‘Lombardi alla prima crociata’) cominciò ad esercitare una vera azione politica attraverso la sua musica. Il pubblico vedeva dappertutto allusioni, ma Verdi le scopriva prima del pubblico, adattandovi musica ispirata, che finì spesso, per far nascere la rivoluzione in teatro , come Luchino Visconti aveva ben descritto in quella celebre scena di ‘Senso’.
Dopo l’estremizzazione degli anni passati che, ad ogni piè sospinto, vedeva in Verdi il patriota, oggi si è passati all’estremizzazione opposta che si spinge addirittura a negare tale sentimento nel musicista. Verdi certamente non voleva finire in galera o in esilio come altri patrioti, o come lo stesso Wagner che partecipò attivamente ai moti rivoluzionari e dovette andare in esilio in Svizzera, perchè in cima ai suoi pensieri ( di Verdi) c’era il lavoro di compositore, per svolgere il quale, forse accettò qualche compromesso, ad esempio assoggettandosi alla censura, come nel caso dell’’Ernani’ e della ‘Giovanna d’Arco’.
Il sentimento patriottico di Verdi emerge in diverse occasioni, lontano dal palcoscenico, chiaro e forte. Come da una lettera, famosissima, datata 21 aprile 1848, rientrato da Parigi, all’indomani delle ‘Cinque giornate’ di Milano. In quella lettera indirizzata a Francesco Maria Piave scriveva:
“ Figurati se io volea restare a Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a tutta l’Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è suonata, siine persuaso, della sua liberazione. E’ il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non v’è potere assoluto che le possa resistere. Potranno fare, potranno brigare finchè vorranno quelli che vogliono essere a viva forza necessari, ma non riusciranno a defraudare i diritti del popolo. Sì, ancora pochi anni, forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica!! Cosa ti passa in corpo? Tu credi che io voglia ora occuparmi di note, di suoni. Non c’è, né ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli Italiani del 1848. La musica del cannone… Io non scriverei una nota per tutto l’oro del mondo; ne avrei un rimorso consumare della carta da musica, che è sì buona da far cartucce!”. Dopo le ‘Cinque giornate’, i riferimenti metaforici alla situazione non avevano più senso. Occorreva parlar chiaro. Da ciò scaturì anche l’inno su testo di Mameli, chiestogli da Mazzini e che Verdi accompagnò con un biglietto che terminava. ‘ possa quest’inno, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde” (quell’inno non riuscì a scalzare ‘Fratelli d’Italia’, ormai popolarissimo). Naturalmente negli anni
Cinquanta, le opere non potevano più esser politicamente esplicite e Verdi dovette assoggettarsi alla censura. Emerge, tuttavia, con chiarezza dal pensiero di Verdi che egli auspicava un’Italia unita, ma non voleva che si raggiungesse l’obiettivo attraverso una rivoluzione e relativo spargimento di sangue.
Poi venne il 1861 e la proclamazione dell’Unità d’Italia, sotto il re Vittorio Emanuele II. Cavour , già ministro sabaudo, fu incaricato di reclutare per il nuovo Parlamento italiano le più belle menti della nazione. Così scrisse a Verdi, invitandolo a candidarsi:” la sua presenza darà credito al gran partito nazionale che vuole costituire la nazione sulle solide basi della libertà e dell’ordine”… ed anche del genio musicale. La storia della militanza parlamentare di Verdi è ben nota. Viene eletto nel collegio elettorale di San Donnino. Nella prima sessione del Parlamento italiano, (febbraio - maggio 1861), Verdi fu sempre presente; poi, prima di partire per la seconda sessione, venne a sapere della morte di Cavour, mentre impegni professionali lo attendevano, e da quel momento cominciò a disertare il Parlamento, come egli stesso ammise in una lettera autoironica, indirizzata a Piave: ”Volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento, non vi sarebbe che a stampare nel bel mezzo di un foglio bianco, a grandi caratteri – i 450 non sono realmente che 449, perché Verdi, come deputato, non esiste”. Ciò nondimeno, Verdi – come scrisse Alberto Savinio – fu il ‘Garibaldi della musica (e Garibaldi il Verdi dei campi di battaglia); Verdi dal cuore a melagrana e dall’occhio umido di commozioni patriottiche, Verdi che all’unità italiana dà l’acciaio dei suoi canti diritti come spade, e il rimbombo dei suoi cori liberatori”.
L’anno seguente l’Unità d’Italia, nell’ Inno delle nazioni, scritto per l’Esposizione di Londra, su testo di Arrigo Boito, ritornò sul tema dell’unità d’Italia, utilizzando ‘Fratelli d’Italia’ e facendo cantare al tenore: “e tu, mia patria… Italia mia… che il Cielo vegli su te/ fino a quel dì che grande,/ Libera ed Una tu risorga al sole”.
Nei giorni delle recenti celebrazioni unitarie, al ‘Corriere della Sera’, un noto musicologo italiano, Eduardo Rescigno, ha rinvenuto una eloquente lettera di Verdi, datata 3 gennaio 1855, ed indirizzata al direttore dell’Opéra di Parigi, Mr. Crosnier, nel periodo in cui Scribe stava scrivendo il libretto de ‘I Vespri siciliani’ ( edizione francese, naturalmente, che precedette quella italiana) “ Contavo sul fatto che il signor Scribe, come mi aveva promesso sin dall’inizio, avrebbe cambiato tutto ciò che offende l’onore degli italiani. Più rifletto su questo soggetto, più mi persuado che sia rischioso. Ferisce i Francesi perché vengono massacrati; ferisce gli Italiani perché il signor Scribe, alterando il carattere storico di Procida ne fa ( secondo il metodo da lui preferito) un comune cospiratore armato dell’inevitabile pugnale. Mio Dio! Nella storia di ogni popolo ci sono virtù e crimini, e noi non siamo peggio degli altri. In ogni modo io sono innanzitutto italiano e, costi quel che costi, non mi renderò complice di una offesa al mio Paese”.

Ciò che di questi tempi mette pensiero - vogliamo sottolinearlo - è che proprio mentre si celebra un importante anniversario dell’Unità d’Italia, accompagnata dal melodramma, e da quello di Giuseppe Verdi in misura preponderante, quello stesso melodramma italiano, si stia tentando di mettere a tacere.
( da un nostro intervento pubblico in occasione delle celebrazioni dei 150 anni  dell'Unità d'Italia)

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