L’ora della liberazione è suonata.
E’ il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non v’è
potere assoluto che le possa resistere, scriveva Giuseppe Verdi,
musicista; ma avrebbe potuto scriverlo Giuseppe Mazzini, patriota.
Fu la musica - inni e melodrammi - a
provocare il Risorgimento italiano? Certamente no. Ma se non fu la
musica a provocarlo, almeno la musica e i luoghi ad essa
consacrati, soprattutto i teatri, costituirono ed alimentarono una
spinta verso la liberazione e l’unificazione? Cioè a dire,
indirettamente, potrebbe la musica esserne stata involontaria
suggeritrice o quantomeno fiancheggiatrice ? O più semplicemente ma
efficacemente, la musica accompagnò e sostenne i moti rivoluzionari
ed il processo di unificazione?
In questi ultimi mesi, con
l’avvicinarsi del centocinquantesimo anniversario dell’Unità
d’Italia, mentre sembra definitivamente sopita la discussione,
inutile e stantìa, sulla sostituzione dell’Inno di Mameli-Novaro,
con il ‘Va pensiero’ di Verdi-Solera (anche se episodi di
sabotaggio si verificano ancora, per giunta in sedi istituzionali ed
occasioni ufficiali, protagonisti importanti, ma incoscienti,
esponenti della Lega), sul ruolo che la musica ebbe nel processo di
unificazione si è dibattuto ampiamente, con libri, articoli, saggi
ed anche in pubblici incontri. In tale dibattito, primeggiano ancora
luoghi comuni duri a morire, mentre rarissime sono le occasioni in
cui l’argomento Musica-Unità d’Italia viene affrontato con
rigore e metodo storico. Tuttavia, per noi non si tratta di arare un
terreno vergine.
E tanto per indicare immediatamente
una linea di tendenza sul ruolo che la musica ebbe nel processo di
unificazione dell’Italia, basta andare a mezzo secolo fa, ad una
celebre sequenza del film di Luchino Visconti, ‘Senso’, girata a
Venezia nel Teatro La Fenice, durante una rappresentazione de ‘Il
trovatore’ di Giuseppe Verdi. In un teatro pieno zeppo sia nei
palchi che nella platea, dove si notano parecchie divise militari
austriache, il tenore, Manrico, ha appena finito di cantare ‘Di
quella pira’, la celebre romanza, e il coro di uomini armati gli fa
eco e attacca: ‘All’armi, all’armi/Eccone pronti a pugnar
teco,/o teco a morir….’ In quel preciso istante, come fosse
suonata una parola d’ordine, il teatro comincia ad agitarsi, dai
palchi piovono volantini contro gli Austriaci, e i soldati avvertono
in quel preciso istante che in teatro, luogo di semplice finzione,
ora non più, sta per cominciare la reale rivolta degli italiani,
veneziani in primo luogo, contro il nemico. La vita, la situazione
reale s’è saldata al palcoscenico, dal quale scoppia la miccia
della rivolta. Esattamente quel che voleva ed auspicava Giuseppe
Mazzini nel suo ‘Filosofia della musica’(1836), sostenendo che il
melodramma non poteva più limitarsi a soddisfare il pubblico,
doveva cambiarlo, ed esso stesso doveva prima mutare, attraverso una
riforma musicale consistente nell’abbandono dell’imitazione di
Rossini, per andare verso la creazione di un’arte progressiva,
sintesi della storia patria con le scuole musicali europee. E,
secondo Mazzini, l’unico musicista in grado di attuare tale
riforma, era Gaetano Donizetti (il cui ‘Marin Faliero’ andato in
scena nel 1835, entusiasmò gli animi, perchè che vi si narrava del
contrasto fra la classe popolare custode della moralità e dell’amor
di patria ed una fazione di aristocratici degeneri ma detentori del
potere; e del Doge che si mette dalla parte del popolo e congiura
contro gli stessi nobili. Senonchè il Donizetti, benchè
ideologicamente apolitico, assunto da Mazzini ad artefice del
cambiamento, ebbe a deludere il pensatore e patriota, quando nel
1841, si avvicinò all’impresario della Scala e del Teatro di
corte di Vienna, Merelli ( lo stesso che propose a Verdi il
‘Nabucco’) e, nel 42, accettando l’ incarico di ‘maestro
della corte’ asburgica dall’imperatore Ferdinando (Per una assai
simile circostanza, anche il genovese Paganini era stato oggetto di
critiche feroci da parte di Mazzini, quando accettò un’onorificenza
di Francesco I. Mazzini gli rinfacciò di aver portato l’arte
musicale ad una prostituzione mercantile, per giunta con il peggior
nemico dell’Italia). Chi altri, allora, se non Donizetti? Rossini ?
Rossini no, perchè aveva incarnato
l’arte come gioco e diletto, per Mazzini, con l’unica eccezione
del ‘Guglielmo Tell’. Rossini, poi, era sembrato addirittura
contrario ai movimenti risorgimentali, al punto che si sentì
costretto a difendersi in una famosa lettera inviata nel 1864, ad un
suo amico palermitano, Filippo Santocanale, avvocato, patriota e
deputato liberale: “…alcuni miserabili miei concittadini mi hanno
fatto reputazione di codino, ignorando gl’infelici che nella mia
adolescenza artistica musicai con fervore e successo le seguenti
parole :”Vedi per tutta Italia/ rinascere gli esempi/ d’ardire e
di valor!/ Quanto valgan gl’Italiani/ al cimento si vedrà” Cita
nella lettera anche il suo Inno dell’Indipendenza, scritto quando
entrò il re Murat a Bologna ( quell’inno così cantava: “Sorgi,
Italia, venuta è già l’ora:/ l’alto fato compir si dovrà;/
dallo Stretto di Scilla alla Dora/ un sol regno l’Italia sarà!. E
il ritornello: “ Del nemico alla presenza/ quando l’armi
impugnerà/ un sol regno e indipendenza / gridi Italia e vincerà; e
fu accolto con grande calore, tanto che gli fu dato il nome di
‘Marsigliese’ italiana). E, ancora : “ per distruggere
l’epiteto di codino, dirò che ho vestito le parole di libertà nel
mio ‘Guglielmo Tell’ a modo di far conoscere quanto sia caldo per
la mia patria e per i nobili sentimenti che la investono. Vi scrivo
tutti questi particolari e vi do sì a lungo la pena di leggermi,
perché ho ragione di supporre che non mi avete in gran concetto
‘politicamente’, e onde abbiate in mano un’arma per difendermi,
ove venissi attaccato…”. Il ‘Guglielmo Tell’ ma anche ‘Mosè’
furono riprese molte volte nei teatri italiani; in quest’ultima, gli
esuli e patrioti italiani lessero la propria avventura mentre
scorreva la storia del popolo ebreo incatenato ed oppresso. Pesarono
comunque sulla sua reputazione di ‘conservatore’ i rapporti che
egli ebbe sia con Ferdinando I, re di Napoli ( per il quale scrisse
‘Elisabetta, regina di Inghilterra’) che, successivamente, con
Carlo X, re di Francia, per la cui incoronazione, nel 1825, egli
scrisse ‘Il viaggio a Reims’.
E Bellini (1801-1835)? Il suo
‘belcantismo’ fu interpretato dal Mazzini come simbolo
dell’individualismo; ed il suo continuo girovagare oltre che la
brevissima esistenza lo estraniarono di fatto dal movimento
risorgimentale. Tuttavia anche nella sua opera si colsero echi
risorgimentali, per lo meno taluni passaggi assai noti furono letti
come tali e presi a pretesto per mandare messaggi di rivolta allo
straniero dominatore. Si sa della convulsa serata scaligera, nel
corso di una rappresentazione di ‘Norma’ nel 1859, quando al coro
di ‘Guerra, Guerra’ seguì in teatro un subbuglio memorabile. E
sempre a proposito del celebre coro, Alessandro Luzio, sul ‘Corriere
della Sera’ del 20 marzo 1929, riferì che Wagner si era
meravigliato che tale coro, a causa del suo travolgente impeto
xenofobo, non fosse divenuto l’inno nazionale italiano. C’è,
infine, il caso de ‘I Puritani’, nel cui finale due bassi ( in
quel caso Tamburini e Lablache, a Parigi) cantano all’unisono:
‘Suoni la tromba, e intrepido/ io pugnerò da forte/ Bello è
affrontar la morte/ gridando: libertà”. Bellini, dopo il successo
parigino, ne scrisse al suo amico Francesco Florimo, descrivendone
fin nei minimi particolari l’entusiasmo del pubblico del Theatre
des Italiens di Parigi. Scene non nuove e neppure rare, se Heinrich
Heine nei suoi resoconti di viaggio, a proposito di una prima alla
Scala, riferisce di un dialogo fra un inglese ed un italiano.
L’inglese dice all’italiano ‘voi sembrate morti ad ogni cosa,
tranne che per la musica, che sola ha ancora la potenza di
scuotervi…’
Verdi, la cui stella non brillava
ancora anche per la giovane età, non era ovviamente entrato negli
orizzonti di Mazzini, a metà degli anni Trenta, avendo egli solo 22
anni. Vi entrò dopo il suo primo grande successo, nel 1842, con
‘Nabucco’, a proposito del quale è bene ricordare, per evitare
strumentalizzazioni ed enfatizzazioni antistoriche, che non fu il ‘Va
pensiero’ ad essere ripetuto a grande richiesta la sera della prima
alla Scala, bensì il coro finale ‘ Immenso Iehovah’, preghiera
al dio di Israele. E la ragione, quasi sicuramente, non stava nella
musica, bensì nel testo che, nell’originale, suonava: “Spesso al
tuo popolo/ donasti il pianto/ ma i ceppi hai franto/ se in te
fidò”. La censura non gradì e il testo fu modificato in : Tu
spandi l’iride/ l’uom è contento/ tu vibra fulmine/ l’uom più
non è”. Che la storia della cattività babilonese del popolo
ebraico, potesse essere letta come metafora, non del tutto
inconsapevole e casuale, della situazione delle popolazioni della
nostra penisola sotto il dominio austriaco, non va dimenticato. E la
censura l’aveva capito. Perché Verdi, la cui coscienza civica e
politica fu ben evidente, con i suoi primi due grandi successi (
‘Nabucco’ e ‘Lombardi alla prima crociata’) cominciò ad
esercitare una vera azione politica attraverso la sua musica. Il
pubblico vedeva dappertutto allusioni, ma Verdi le scopriva prima del
pubblico, adattandovi musica ispirata, che finì spesso, per far
nascere la rivoluzione in teatro , come Luchino Visconti aveva ben
descritto in quella celebre scena di ‘Senso’.
Dopo l’estremizzazione degli anni
passati che, ad ogni piè sospinto, vedeva in Verdi il patriota, oggi
si è passati all’estremizzazione opposta che si spinge addirittura
a negare tale sentimento nel musicista. Verdi certamente non voleva
finire in galera o in esilio come altri patrioti, o come lo stesso
Wagner che partecipò attivamente ai moti rivoluzionari e dovette
andare in esilio in Svizzera, perchè in cima ai suoi pensieri ( di
Verdi) c’era il lavoro di compositore, per svolgere il quale,
forse accettò qualche compromesso, ad esempio assoggettandosi alla
censura, come nel caso dell’’Ernani’ e della ‘Giovanna
d’Arco’.
Il sentimento patriottico di Verdi
emerge in diverse occasioni, lontano dal palcoscenico, chiaro e
forte. Come da una lettera, famosissima, datata 21 aprile 1848,
rientrato da Parigi, all’indomani delle ‘Cinque giornate’ di
Milano. In quella lettera indirizzata a Francesco Maria Piave
scriveva:
“ Figurati se io volea restare a
Parigi sentendo una rivoluzione a Milano. Sono di là partito
immediatamente sentita la notizia, ma io non ho potuto vedere che
queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a tutta
l’Italia che in questo momento è veramente grande! L’ora è
suonata, siine persuaso, della sua liberazione. E’ il popolo che la
vuole: e quando il popolo vuole non v’è potere assoluto che le
possa resistere. Potranno fare, potranno brigare finchè vorranno
quelli che vogliono essere a viva forza necessari, ma non riusciranno
a defraudare i diritti del popolo. Sì, ancora pochi anni, forse
pochi mesi e l’Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa
dovrebbe essere? Tu mi parli di musica!! Cosa ti passa in corpo? Tu
credi che io voglia ora occuparmi di note, di suoni. Non c’è, né
ci deve essere che una musica grata alle orecchie degli Italiani del
1848. La musica del cannone… Io non scriverei una nota per tutto
l’oro del mondo; ne avrei un rimorso consumare della carta da
musica, che è sì buona da far cartucce!”. Dopo le ‘Cinque
giornate’, i riferimenti metaforici alla situazione non avevano più
senso. Occorreva parlar chiaro. Da ciò scaturì anche l’inno su
testo di Mameli, chiestogli da Mazzini e che Verdi accompagnò con
un biglietto che terminava. ‘ possa quest’inno, fra la musica del
cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde” (quell’inno
non riuscì a scalzare ‘Fratelli d’Italia’, ormai
popolarissimo). Naturalmente negli anni
Cinquanta, le opere non potevano più
esser politicamente esplicite e Verdi dovette assoggettarsi alla
censura. Emerge, tuttavia, con chiarezza dal pensiero di Verdi che
egli auspicava un’Italia unita, ma non voleva che si raggiungesse
l’obiettivo attraverso una rivoluzione e relativo spargimento di
sangue.
Poi venne il 1861 e la proclamazione
dell’Unità d’Italia, sotto il re Vittorio Emanuele II. Cavour ,
già ministro sabaudo, fu incaricato di reclutare per il nuovo
Parlamento italiano le più belle menti della nazione. Così scrisse
a Verdi, invitandolo a candidarsi:” la sua presenza darà credito
al gran partito nazionale che vuole costituire la nazione sulle
solide basi della libertà e dell’ordine”… ed anche del genio
musicale. La storia della militanza parlamentare di Verdi è ben
nota. Viene eletto nel collegio elettorale di San Donnino. Nella
prima sessione del Parlamento italiano, (febbraio - maggio 1861),
Verdi fu sempre presente; poi, prima di partire per la seconda
sessione, venne a sapere della morte di Cavour, mentre impegni
professionali lo attendevano, e da quel momento cominciò a disertare
il Parlamento, come egli stesso ammise in una lettera autoironica,
indirizzata a Piave: ”Volendo o dovendo fare la mia biografia come
membro del Parlamento, non vi sarebbe che a stampare nel bel mezzo
di un foglio bianco, a grandi caratteri – i 450 non sono realmente
che 449, perché Verdi, come deputato, non esiste”. Ciò nondimeno,
Verdi – come scrisse Alberto Savinio – fu il ‘Garibaldi della
musica (e Garibaldi il Verdi dei campi di battaglia); Verdi dal cuore
a melagrana e dall’occhio umido di commozioni patriottiche, Verdi
che all’unità italiana dà l’acciaio dei suoi canti diritti come
spade, e il rimbombo dei suoi cori liberatori”.
L’anno seguente l’Unità d’Italia,
nell’ Inno delle nazioni, scritto per l’Esposizione di Londra, su
testo di Arrigo Boito, ritornò sul tema dell’unità d’Italia,
utilizzando ‘Fratelli d’Italia’ e facendo cantare al tenore: “e
tu, mia patria… Italia mia… che il Cielo vegli su te/ fino a quel
dì che grande,/ Libera ed Una tu risorga al sole”.
Nei giorni delle recenti celebrazioni
unitarie, al ‘Corriere della Sera’, un noto musicologo italiano,
Eduardo Rescigno, ha rinvenuto una eloquente lettera di Verdi, datata 3
gennaio 1855, ed indirizzata al direttore dell’Opéra di Parigi,
Mr. Crosnier, nel periodo in cui Scribe stava scrivendo il libretto
de ‘I Vespri siciliani’ ( edizione francese, naturalmente, che
precedette quella italiana) “ Contavo sul fatto che il signor
Scribe, come mi aveva promesso sin dall’inizio, avrebbe cambiato
tutto ciò che offende l’onore degli italiani. Più rifletto su
questo soggetto, più mi persuado che sia rischioso. Ferisce i
Francesi perché vengono massacrati; ferisce gli Italiani perché il
signor Scribe, alterando il carattere storico di Procida ne fa (
secondo il metodo da lui preferito) un comune cospiratore armato
dell’inevitabile pugnale. Mio Dio! Nella storia di ogni popolo ci
sono virtù e crimini, e noi non siamo peggio degli altri. In ogni
modo io sono innanzitutto italiano e, costi quel che costi, non mi
renderò complice di una offesa al mio Paese”.
Ciò che di questi tempi mette pensiero
- vogliamo sottolinearlo - è che proprio mentre si celebra un
importante anniversario dell’Unità d’Italia, accompagnata dal
melodramma, e da quello di Giuseppe Verdi in misura preponderante,
quello stesso melodramma italiano, si stia tentando di mettere a
tacere.
( da un nostro intervento pubblico in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia)
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