Sul piedestallo della statua col busto di Lenin decapitato dalle bombe nella piazza principale di Sudzha i soldati ucraini hanno appeso le immagini di alcune delle loro città devastate dall’invasione russa. Sono foto di macerie e rottami quelle che accompagnano i nomi di Bucha, Irpin, Borodyanka e tante altre rese tristemente celebri dalle battaglie di due anni fa. «Lasciate che anche i nostri nemici provino un poco sulla loro pelle la sensazione di essere invasi. Forse Putin capirà di non essere invincibile e sarà più disponibile a trattare», dice un veterano della riserva.
I soldati che ci accompagnano indicano le conseguenze dei bombardamenti sulle abitazioni tutto attorno: il municipio ha la facciata sventrata dai proiettili; le finestre del cinema vicino sono senza vetri e mancano pezzi di tetto; la strada è a tratti coperta di calcinacci; un paio di abitazioni appaiano consumate dal fuoco; le auto di fronte all’ufficio postale sono state cannibalizzate delle ruote e di parti dei motori. Due giovani fanti scuotono dalla pioggia il drappo appeso a un palo della 82esima Brigata, quella che il 6 agosto per prima attraversò la frontiera internazionale cogliendo i doganieri russi del tutto di sorpresa, e lo dispiegano per farlo fotografare.
Questo è uno dei rari viaggi che l’esercito ucraino permette ai giornalisti nelle zone strappate ai russi nella regione di Kursk. Ma prima di continuare teniamo a specificare che questo reportage è anche motivato dalla necessità di rispondere coi fatti alle minacce della censura di Mosca, dopo che alcuni nostri colleghi sono stati notificati del mandato di arresto per essere a loro volta venuti a fare il loro lavoro. Non è una sfida al regime russo, bensì intendiamo ribadire che raccontare le zone occupate (o liberate a seconda dei punti di vista) è parte integrante del mestiere dell’inviato di guerra e non intendiamo rinunciarvi, né lasciarci intimidire.
Partenza in gippone blindato da Sumy poco dopo le dieci di mattina. Piove, grigie nuvole basse dominano il cielo. «Le condizioni meteo riducono il pericolo dei droni kamikaze russi, la cattiva visibilità diminuisce la loro operatività e proprio per questo motivo oggi potremo raggiungere la cittadina di Sudzha, circa 15 chilometri dopo la frontiera», ci dice Sergei, un sergente della 32esima Brigata.
In ogni caso, appena prima di raggiungere le costruzioni semidistrutte dalle battaglie, i soldati inseriscono l’apparecchio di «jamming», che interferisce nei sistemi di telecomando dei droni. Anche i cellulari vengono messi in modalità aerea. Gli autisti scrutano nervosi il cielo mentre premono sull’acceleratore: la velocità riduce le possibilità di essere colpiti.
Ma ai bordi della strada sono ben visibili i mezzi militari distrutti: tank, autoblindo, camion russi e ucraini. Dopo quattro o cinque chilometri c’è un piccolo nucleo urbano ridotto in macerie. Ci fermiamo per osservare una centralina elettrica sprofondata nel gigantesco cratere provocato dalle «bombe plananti» russe.
Alle undici e trenta arriviamo alla scuola di Sudzha. «Le prime linee russe sono qui davanti, a meno di 10 chilometri in linea d’aria», spiega Vadyim Myshyk, un colonnello 54enne che comanda le forze ucraine sin dall’inizio dell’operazione. Lui e i suoi uomini si prodigano nel raccontare che al loro arrivo due mesi fa qui era quasi tutto intatto. «Da un paio di settimane i russi stanno provando a riprendersi il territorio perduto e hanno intensificato i bombardamenti, che adesso causano danni enormi ai centri abitati: fanno terra bruciata dei loro stessi villaggi», dicono.
Ma la nostra domanda è un’altra: avete preso mille chilometri quadrati, che adesso dovete difendere e intanto i russi avanzano nel Donbass: ne valeva la pena? «Certo, non ho dubbi. Noi piccola potenza abbiamo creato il caos e mostrato le debolezze dell’esercito di Putin, una tigre di carta. Oltretutto i russi stavano per invadere la zona di Sumy e noi li abbiamo prevenuti», replica il colonnello. Nell’edificio ci sono soprattutto anziani e malati. Sulle porte delle case attorno sono appesi gli stessi cartelli disperati che s’incontrano nel Donbass ucraino: «Attenzione qui abitano civili».
La più giovane è Olga, una 23enne che ammette di essere rimasta intrappolata per errore. «Il 6 agosto mattina le tv russe minimizzavano, sostenevano che c’erano pochi soldati ucraini e sarebbero stati presto scacciati. I miei genitori mi hanno consigliato di scappare con loro. Ma sono rimasta e adesso vorrei andarmene al più presto. Qui c’erano oltre 6.000 abitanti, siamo rimasti in meno di 500», racconta.
Sergei Laskoviez, un pensionato 72enne, crede che i russi «sfonderanno molto presto e non avranno alcuna difficoltà a riprendersi tutta la regione». Intanto però a casa sua sono stati tagliati i collegamenti con acqua, elettricità e gas. «Tra poco farà freddo e non avremo il riscaldamento. La gente non accende le stufe a legna perché il fumo è visibile dai droni e i russi potrebbero pensare che la casa ospiti soldati ucraini, così stiamo al freddo, ma presto sarà insopportabile», dice con altri anziani.
Si odono di continuo colpi d’artiglieria in arrivo e partenza. La nostra scorta diventa nervosa, permette solo una breve sosta per le foto alla piazza. Poi via in velocità: in meno di 20 minuti siamo già in territorio ucraino.
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